Tiina Itkonen
© Tiina Itkonen

Questa critica vale per l’insieme, per fortuna infatti molti autori riescono a bucare questo velo di già visto e di accademismo e le loro fotografie rimangono nel cuore.

Ho particolarmente apprezzato i personaggi e gli alberi che emergono dalle nebbie dell’Arabia Saudita di Aziz Ayash, l’opposizione fra travestimenti tradizionali e adolescenti amanti dei manga nel lavoro di Zeng Han e Yan ChangHong, le stampe giganti di biciclette e corpi che cadono in acqua di Wang Ninde, alcuni scatti di finte morti di Gerardo Montiel, anche se queste chiaramente in stile Holga straclassico e stravisto. Del fotografo Luo Dan ho soprattutto invidiato il viaggio di 18000 chilometri sulla strada 318 che attraversa la Cina, di cui riesco solo a immaginare gli incontri, i paesaggi, i luoghi incredibili. Ho ammirato le belle immagini di Paranapiocaba, il villaggio fantasma perpetuamente immerso nella nebbia di Lucia Guanaes, la splendida panoramica artica di Tiina Itkonen, che mi risveglia in petto luoghi, sensazioni e ghiacci che conosco bene, i paesaggi siriani di Mohammad Haj Kab, che si sente un pittore fallito e si pente di non essere un beduino o un contadino.

Oltre a questi, ecco i tre autori veramente mi hanno entusiasmato:

Armin Pflanz
© Armin Pflanz
  • Mehrad Naraghi, dai paesaggi notturni da incubo, atmosfere cupe, foto scure mosse, immagini confuse che sembrano sovraesposte. Alberi scheletrici emergono appena appena dall’oscurità, protendendo i loro artigli verso le luci lontane di una città in preda al terrore. I muri sembrano muoversi per cercar di fuggire, la realtà sembra crollare addosso allo spettare. Molto espressive e intense, in cui finalmente il linguaggio espressivo che criticavo poco sopra ha un fine preciso e funzionale.
  • Wang Gang ha realizzato uno splendido reportage su vecchi e bambini dell’etnia Yi. Ecco un esempio di fotografia meravigliosamente espressiva utilizzando solo i mezzi propri di questo media. Il fascino qui non sono gli interventi che strapazzano e sporcano l’immagine, tutta la terribile intensità delle sue immagini è dovuta ai soggetti, alla capacità di cogliere il buon attimo, l’espressione giusta, l’inquadratura perfetta. Il risultato è che le fotografie restano a lungo negli occhi e nel cuore.
  • Armin Pflanz ha infine fotografato i detenuti della prigione Cap, in Suf Africa. Volti sfregiati e tatuati, in cui le scritte sono la mappa geografica delle violenze subite e inflitte. Occhi che bucano la carta e ti accoltellano direttamente, come è sempre più raro vedere.

Nel complesso quindi, nonostante un certo manierismo di fondo, un’ottima mostra che permette di vedere come si fa fotografia nei paesi non occidentali, scoprire autori sconosciuti che si rivelano spesso una splendida sorpresa.




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