ars moriendi, cadaveri
Ars moriendi, dettaglio di due teste di cadaveri.
© Joel-Peter Witkin

In generale, di fronte alle immagini di Witkin, soprattutto le nature morte (è il caso di dirlo), composte con pezzi di cadaveri, non so mai se in realtà sono in preda ad una macabra curiosità, la possibilità di poter vedere finalmente ciò che la nostra società nasconde in ogni modo e ci impedisce sempre di vedere, la vera faccia della morte, il disfarsi dei corpi in putrefazione, l’orrore del tempo che passa lasciando cadere il suo sipario su ogni cosa che tocca. Questo sicuramente succede con i cadaveri fotografati da Andrés Serrano, dove -sebbene stimi molto questo artista per molti altri suoi lavori- mi pare che il 90% dell’immagine sia giocata su questa soddisfazione morbosa della curiosita. Nel caso della foto di Witkins Ars moriendi, direi che invece la presenza di queste orribili teste di cadaveri è assolutamente funzionale all’immagine.

Non voglio trovare per forza un messaggio razionale, ma di fronte a quest’immagine sono terribilmente messo nel mezzo, mi arriva addosso come una bastonata e non ne posso uscire indenne. Non posso non percepire questo misto infinito di vita e di morte, di bellezza e orrore, di attrazione e repulsione, di erotismo e disgusto. E mentre guardo e riguardo quest’immagine terribile e magnifica mi risuonano nella mente gli amatissimi versi della poesia Une carogne, di Charles Baudelaire, che traduco qui cercando di attenermi il più possibile all’originale francese.

Poesia che su questa foto di Witkin dice tutto quello che ancora ho da dire.

Una carogna

Charles Baudelaire - Spleen et Idéal, XXIX

 

Ricordi ciò che vedemmo, anima mia,
quel bel mattino estivo così dolce:
alla svolta d’un sentiero una carogna infame
stesa su un letto cosparso di ciottoli,

la pancia all’aria, come una femmina lubrica
bruciante e trasudante veleni,
spalancava in modo cinico e indolente
il ventre pieno d’esalazioni.

Il sole splendeva su quel marciume
come per cuocerlo a puntino
e rendere centuplicato alla grande Natura
tutto ciò che ella aveva messo insieme.

Ed il cielo guardava la carcassa superba
sbocciare come un fiore
Il puzzo era così forte, che sull’erba
credesti di svenire.

Le mosche ronzavano su quel ventre putrido
da cui uscivano neri battaglioni
di larve, che colavano come un liquido spesso
lungo questi vivi brandelli.

Tutto scendeva, saliva come onda
o si slanciava sfrigolando;
si sarebbe detto che il corpo, gonfio d’un vago respiro,
vivesse moltiplicandosi.

E questo mondo dava una musica strana,
come l’acqua corrente e il vento,
o il grano che un vagliatore con ritmico moto
agita e fa turbinare nel vaglio.

Le forme si cancellavano ed erano ormai soltanto un sogno,
un abbozzo lento a definirsi
sulla tela dimenticata, e che l’artista completa
solo a memoria.

Da dietro le rocce una cagna irrequieta
ci guardava con occhio rabbioso,
spiando il momento in cui poter riprendere allo scheletro
Il boccone che aveva abbandonato.

E tuttavia sarai simile proprio a questa sozzura
a quest’infezione orribile
stella dei miei occhi, sole della mia natura,
te, mio angelo, mia passione!

Si, sarai uguale, regina delle grazie,
dopo gli ultimi sacramenti,
quando finirai sotto l’erba e le grasse fioriture
ad ammuffire tra gli ossami.

Allora, o mia bellezza! Di ai vermi
che ti mangeranno di baci,
Che ho conservato la forma e l’essenza divina
dei miei amori decomposti!




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