Del resto con le distanze, le deformazioni e le prospettive si può fare veramente di tutto per ingannare l’osservatore. Un giochetto ben noto a tutti i turisti che durante i primi anni di università ho visto visitare Pisa, tutti a farsi immortalare con la mano alzata come se non ci fossero loro a tenerla su la torre, questa verrebbe giù in un attimo. Più seriamente, lo splendido lavoro di Georges Rousse è tutto basato sugli inganni visivi. Per riassumere un lavoro lungo, complesso e impressionante Rousse dipinge nello spazio delle anamorfosi, che da certi punti di vista sembrano creare inserti su piani e distanze completamente diversi da quelli reali.

Cambiando genere, se si scatta poi con velocità troppo basse si rischia di fare una foto mossa di un oggetto che in realtà non si è spostato di un millimetro. Con le lunghe esposizioni poi le persone si trasformano in fantasmi evanescenti, nelle foto notturne le automobili lasciano lunghe righe rosse. Con le lunghissime esposizioni addirittura si riescono a far sparire del tutto persone e macchine in movimento. Delle primissime foto della storia fatte a Parigi, i primi dagherrotipi, non c’è mai nessuno per le strade, non un passante, non una carrozza, non un cane. Le pose delle prime lastre fotografiche erano talmente lunghe che tutti gli oggetti in movimento non riuscivano a lasciare nessuna traccia visibile. Fra quelle primissime foto fa eccezione un famoso dagherrotipo dove un passante, facendosi lucidare le scarpe, è rimasto immobile abbastanza a lungo da lasciare una traccia sull’emulsione sensibile. Volendo credere al rapporto mimetico della fotografia con la realtà bisognerebbe dedurre che nell’ottocento le strade di Parigi erano completamente deserte, salvo forse un unico personaggio preoccupato dalla patina del cuoio dei suoi stivali.

Sovraesposizione
Immagine volutamente sovraesposta.

A volte capita di sbagliare clamorosamente un’esposizione, e trasformare una stanza riempita da una luce accecante in una dove regna la penombra. Oppure, naturalmente di produrre intenzionalmente immagini scurissime o chiarissime. Una foto notturna, se esposta a lungo, può essere chiara come una scattata di giorno. Chiunque abbia utilizzato seriamente il sistema zonale, un metodo di esposizione in generale particolarmente apprezzato proprio dagli amanti di una presunta fotografia ortodossa, sa benissimo che il punto di partenza è fotografare un muro o una superficie testurata esponendolo in modo che diventi un grigio medio al 18%, questo da la zona V. Poi fare tutta una serie di scatti aprendo e chiudendo il diaframma fino ad ottenere un bianco senza dettagli (zona X) e un nero senza dettagli (zona 0). Dalla serie di film esposti in questo modo è possibile ottenere poi tutta una serie di informazioni che permettono di controllare la gamma tonale delle proprie immagini. Ma quel muro, era grigio, bianco o nero? Oppure, sempre per restare in tema di sistema zonale. Come diavolo è che se una scena ha più di sette zone (o anche un filo di più se si aggiustare lo sviluppo) di differenza di luminanza, alcune parti dell’immagine diventano completamente bianche e altre completamente nere quando nella realtà c’era dettaglio ovunque?

Posa lunga
Tempi di posa lunghi trasformano gli oggetti in movimento.

La scelta della pellicola, tanto del bianco e nero che del colore ha effetti rilevanti sulle caratteristiche della fotografia che viene ottenuta appunto dalla pellicola in questione. Ogni pellicola per esempio ha la sua curva caratteristica. Certe emulsioni sono piuttosto lineari, altre hanno una lunga spalla o un grosso piede. Fotografando la stessa scena con pellicole diverse si ottengono risultati diversi. Senza contare che le emulsioni possono essere ortocromatiche o pancromatiche, ovvero più o meno sensibili a tutte le lunghezze d’onda della luce. Nel primo caso si otterranno dei bei cieli completamente bianchi slavati, e un sacco di foschia nelle valli. Con lo stesso giochetto ma dall’altra parte della gamma dello spettro, ovvero utilizzando pellicole per il bianco e nero sensibili ali infrarossi, è possibile bucare la nebbiolina che rende grigiastre così tante fotografie. La chimica scelta per lo sviluppo di pellicole in bianco e nero influenza enormemente le caratteristiche del negativo. Uno sviluppo più o meno lungo, a due bagni, con una certa temperatura, l’intensità e la frequenza dell’agitazione sono tutte variabili determinanti sulla resa della pellicola. Queste influenzano pesantemente il contrasto, la forma della curva di risposta, la granulosità della pellicola. La realtà che la fotografia sembra riprodurre in maniera così precisa qual’è? Quella dell’HP5 sviluppata 13 minuti in D-76 1+3 a 20°C con10s di agitazione al minuto o quella della Tri-X sviluppata per 10 minuti in HC-110, soluzione B, a 15° con due sole agitazioni durante lo sviluppo? Le combinazioni pellicola sviluppo sono praticamente infinite e danno risultati estremamente diversi fra loro, come decidere quale si avvicina di più alla realtà?

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