Cristina Mian e Marco Frigerio
Working Class
© Cristina Mian e Marco Frigerio

In tempi recenti poi si è aggiunto in noi un rinnovato interesse per le tematiche connesse al corpo ed alle possibili scoperte in ambito “corporale”, questo ci ha aperto nuovi ed inediti scenari, ed è uno dei motivi che ci hanno spinto ad entrare direttamente all’interno della scena ritratta, ad essere sia al di qua che al di là della macchina fotografica, a rischiare in prima persona e vivere sulla propria pelle le scoperte che ci siamo prefissi di fare, in una specie di forma ibrida tra performances, autoritratto e staged photography.

Anche se vorrei rimarcare che quando parliamo di staged photography non ci ispiriamo sicuramente né al neo-pittoricismo alla Gregory Crewdson e neppure ad un approccio alla La Chapelle o alla Erwin Olaf, quelle sono strade che non ci interessano più di tanto e che, personalmente, considero percorsi piuttosto sterili.

Quando parlo di staged photography in realtà è un modo inesatto per rendere più comprensibile il fatto che anche noi abbiamo l’esigenza di preparare ed approntare una scena, ma per noi questa esigenza è legata solo ed esclusivamente alla necessità di attuare un programma, un programma che si fonda sia su particolari condizioni iniziali di scatto o di utilizzo della macchina fotografica, sia su incidenti di scena programmati, su improvvisazioni legate a quegli stessi incidenti, in una parola sia su una pianificazione che sui possibili “sgambettamenti” di quella stessa pianificazione, ed è un programma che, una volta attuato, ci potrebbe portare poi a quelle scoperte di ignoto di cui abbiamo appena parlato (uso il condizionale perché potrebbe anche succedere che il programma non funzioni, che non porti a nessuna scoperta)…tutto il portfolio sugli effetti collaterali della televisione è stato realizzato partendo da questi presupposti, ed il nuovo lavoro sul Corpo senza Organi li porterà a conseguenze ancora più estreme…

 

Fabiano Busdraghi: Quello che dite è molto bello e mi trovate pienamente d’accordo. La produzione artistica non può essere indissociabile dalla mia vita, e la conseguenza più naturale e diretta, anche nel mio caso, è proprio quella di passare dall’altro lato della macchina.

Cristina Mian e Marco Frigerio
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© Cristina Mian e Marco Frigerio

In ogni caso mi sembra che per tutti e tre ci sia una certa stanchezza della fotografia e in generale dell’arte concettuale pura e dura, fatta di glaciale razionalità. Certo, ne riconosco l’importanza storica, ma ormai su quel fronte non si vede quasi niente di veramente rivoluzionario e interessante.

Uno dei motivi che personalmente mi allontanano dal concettuale puro per esempio è l’incomunicabilità dell’opera, la difficoltà di interpretazione e comprensione. Certo la fotografia, fra le tante cose, può essere anche linguaggio. Però la fotografia è un linguaggio pesantemente ambiguo e molto meno elastico della comunicazione verbale. Perché se si vuole fare del concettuale puro non si smette di fotografare e si scrive un libro di filosofia? Il mezzo non sarebbe più adeguato? Non si guadagnerebbe in chiarezza? Questo processo mi pare abbia portato buona parte dell’arte contemporanea a esercizio intellettuale elitario, relegandola a pochi addetti ai lavori.

Marco Frigerio: Se mi permetti vorrei rispondere a queste tue affermazioni, che condivido in gran parte, approfondendo alcuni concetti che abbiamo espresso prima, non è un modo per evitare un argomento spinoso, però così posso far capire chiaramente la nostra posizione nei confronti del concettuale e della nostra concezione dell’arte, ed implicitamente anche della fotografia, in generale.

Vedi, quando ho parlato della fotografia come strumento primario che ci permette di effettuare delle scoperte di ignoto, in realtà ho molto semplificato e, detta così, non permette neanche di capire pienamente l’impatto rivoluzionario e a volte devastante che la fotografia deve avere nelle nostre vite…confermo infatti quanto dice Cristina, è impossibile per noi pensare la fotografia fotografia come staccata dalla vita.

Cristina Mian e Marco Frigerio
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Prima cosa, che penso si capisca da quanto abbiamo già detto: per noi l’arte, la fotografia, non sono mai un fine a cui tendere, ma sono invece uno strumento per tracciare delle linee di vita, delle linee di fuga, delle deterritorializzazioni positive, dei divenire reali, che trasformano ed impattano e modificano le nostre vite, e questo perché questi divenire reali, queste linee di vita, introducono nuovi concatenamenti, nuove connessioni, simbiosi inaudite e nuovi orizzonti di senso, e per questo motivo, per questo essere uno strumento così strettamente legato con carne e sangue, queste scoperte di ignoto non si riterritorializzeranno poi più sull’arte, intesa ovviamente in questo caso come “struttura”, cioè significato condiviso e strumento di potere (alla pari di tutti i nostri “assoggettamenti”, quindi la cultura, lo Stato, l’Io, il significato, la morale, il viso, la famiglia), ma trascineranno invece l’arte e la fotografia verso le contrade dell’a-significante, dell’a-soggettivo, del senza-viso…




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