Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Testo e fotografie seguenti di Stefania Figuccia.

 

L’arcipelago delle Isole Egadi è formato da tre piccole isole a ovest della Sicilia: Favignana, Levanzo e Marettimo. Se durante la stagione estiva esse sono un’ambita meta turistica, e le loro strade sono colme di turisti in cerca di relax e spiagge paradisiache, alla fine di questi tre mesi i ristoranti, gli alberghi e i negozi di costumi chiudono i battenti per riaprire solo l’anno successivo. A quel punto l’immagine dell’arcipelago propagandata dalle agenzie di viaggi e dalle riviste lascia un vuoto che fagocita la vita invernale, proponendo un’estetica univoca non priva di interessi economici.

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Dall’assenza di informazioni al riguardo di questo fenomeno è nato il mio bisogno di esplorare le Egadi durante il periodo invernale e di mostrarne un’immagine inedita e più spontanea, l’immagine di un’isola che non è pronta ad accogliere nessuno.

Prima di partire avevo solo un variopinto ricordo dell’Isola nel periodo estivo: gente rilassata, gelati gocciolanti e un silenzioso mare turchese. Ricordavo come si vive un’Isola ad Agosto: ci si alza solo per immergere i piedi in acqua, si prosegue con un caffè, pedalata in bicicletta, pennichella all’ombra e poi di nuovo, si ricomincia. Si termina con la passeggiata in paese, perché in fondo un po’ di pettegolezzi ci vogliono sempre, soprattutto in vacanza. Si sfoggia l’ultimo cappello acquistato in uno dei pochi negozietti presenti sull’Isola, si beve una birra fredda al porto e poi a casa a smaltire l’insolazione mattutina. Insomma, una piacevole e immaginabile routine.

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Sapevo che uno stile di vita del genere durava solo tre mesi all’anno, che le ferie finiscono presto e gli aerei del ritorno aspettano deserti nell’aeroporto di Trapani, che a Ottobre l’Isola si svuota e riprende il suo ritmo, strappandosi la maschera patinata e riconquistando così la sua identità e i suoi veri abitanti. Eppure, pur riuscendo vagamente a intuire questa realtà, non l’avevo mai vissuta personalmente.

Volevo tornare dal mio viaggio con un centinaio di immagini spiazzanti, per me stessa e per la gente, che avrebbe così avuto modo di rapportarsi alle Isole attraverso un’estetica nuova, diversa da quella delle guide turistiche, fatta di pioggia e nuvole piuttosto che di spiagge dorate e mari azzurro stile Hawaii: volevo mostrare come si comportano appena il turismo le gira le spalle.

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Arrivai così a Favignana, dopo un tormentato viaggio in aliscafo in balia del maltempo. La prima impressione dell’Isola fu indefinibile: non riuscivo a capirla, non riuscivo a inquadrarla in un’ottica definita. Favignana appariva completamente diversa da come l’avevo trovata d’estate. I negozi erano quasi tutti chiusi, ad eccezione dei bar in cui si svolgeva la vera vita dell’Isola, qualche panificio e i due supermercati, uno dei quali esiterei a definire “super”. Le strade la mattina venivano attraversate da gente a piedi o in bicicletta che sembrava avere una qualche occupazione; destra, sinistra, avanti, dietro, su e giù, e così via, innumerevoli volte, sempre le stesse persone. Eppure dopo poco tempo mi viene data la conferma che nessuno di loro sta svolgendo una qualche attività: stanno solo facendo sì che la giornata scorra. Il proprietario del piccolo bar del porto, un grande uomo nato in Sudafrica, mi svela, con non poco sdegno, che la maggior parte dei residenti passa l’inverno con le mani in mano, cercando un lavoretto qua e là, mentre le ditte di costruzione che approdano a Favignana per rifarne il look portano con sé operai stranieri.

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La mattina le donne si mostrano in pubblico per fare qualche acquisto dopo il quale vengono inglobate dalle loro case come insetti da una pianta carnivora. Gli uomini intanto si rilassano e scherzano nei bar fino a ora di pranzo, e poi dal pomeriggio fino a ora di cena. Dalle 17:00 in poi la gente inizia a scomparire e chi resta diventa un fantasma. La luce si dilegua e l’Isola inizia il suo sonno, lontana da sguardi indiscreti. Era proprio quello il momento che mi interessava. Il tramonto non era solo quello del sole: con esso si affievolivano i contorni e le specificazioni, le risposte nette e le idee chiare, mentre il paesaggio si spandeva sopra gli occhi e sotto i piedi.

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Si, forse quella che ho avuto è stata una visione eccessivamente romantica delle Isole, che poi è “l’errore” commesso un po’ da tutti i visitatori, il filtro che non permettere di prendere sul serio questi luoghi, perché, si sa, ognuno di noi va sulle isole inseguendone una visione personale, e proprio per questo nessuno riesce a vederle per quello che sono, a riportarsi indietro un’immagine pura di esse.
Avevo appena capito che non sarebbe stato facile realizzare un reportage fotografico, mostrare agli altri le Isole d’inverno, perché anch’io, come tutti, non ero andata lì per impregnarmi di loro, ma per rispecchiarmi con calma in un luogo che me ne lasciasse il tempo e lo spazio. Mi aspettavo un paesaggio “disponibile”. La mia serie iniziava così a mostrarsi per quello che era realmente. Leggere tutti quei tomi sulla storia delle Isole Minori dal paleolitico ad oggi, analizzarne l’immagine proposta sulle riviste, capirne le usanze e le tradizioni, si era trattato solo di una bugia. Scoprirle prigioniere di un passato storico avvincente e violento, sottomesse, sfruttate o premiate da un intricato mosaico di popoli, intuire che si lottò per viverci e vedere come la battaglia ancora continui, non riusciva tuttavia a darmene una visione disinteressata e quasi oggettiva. Fino ad allora mi era piaciuto immaginarle come enigmatici personaggi di una saga, come aspetti del carattere di una sola persona, come luoghi di finzione, ma era proprio questo l’approccio da abbandonare. Intanto continuavo a scattare.

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Trovai il luogo perfetto in cui rinchiudermi quando il buio era tale da impedire qualsiasi attività: l’enorme bar ristorante in stile navale che raccoglie i personaggi più avventurosi e mondani dell’Isola. Il gestore si chiama Rino: col suo accento nordico – ha origini torinesi – e l’aspetto tipico del marinaio, Rino accoglie i clienti con un domanda apparentemente scorbutica: “Che vuoi?”. Ma una volta fatta l’abitudine, la sua figura rincuora, soprattutto dopo varie birre.
Non riuscivo più a distinguere i giorni della settimana, il lunedì era uguale al venerdì o alla domenica, così come non distinguevo le 21:00 da mezzanotte.

Camminando la mattina per i vicoli di Favignana, mi imbattei in uno strano fenomeno canoro. Passando davanti alla finestra di una casa, vidi attraverso le tende un uomo con un microfono in mano: in piedi di fronte a una gigantesca tv, stava cantando il testo sullo schermo. Si trattava di quella vecchia canzone di cui non conosco il titolo e che mi cantava sempre mia nonna mentre puliva i piatti. Il ritornello dice più o meno: ”Tu si ‘na malatia…” Mi stavo quasi per commuovere quando, proseguendo la passeggiata, mi ritrovo davanti un’altra finestra, stessa scena, ma stavolta era una ragazza a far sentire all’intero paese la sua voce da usignolo. Il karaoke è una delle passioni locali.

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La mattina della partenza andai al porto che, per la prima volta dopo il mio arrivo, era aggredito da forti onde e da un vento impetuoso. Nel vetro della biglietteria un foglio diceva: “Tutte le corse sono sospese causa maltempo”. Senza più alcuna possibilità di fuga, ho optato per un caffè consolatorio. Davanti al bar un ragazzo dall‘espressione triste, braccia incrociate, sguardo verso l’orizzonte, mi guarda e mi dice qualcosa di incomprensibile. Gli chiedo cortesemente di ripetere e lui risponde, lapidario: “Brutto giorno per uscire dal carcere.”

Nonostante le piccole dimensioni dell’Isola, Favignana ospita infatti un carcere, situato proprio al centro del paese. I turisti non lo notano nemmeno, occupati a godersi la vacanza, ma in inverno le strade vuote e silenziose lo rendono più imponente. L’uomo che avevo incontrato era un insegnante tunisino che, per noia e voglia di avventura, aveva lasciato il lavoro e pagato una bella somma per salire su un barcone diretto a Lampedusa. Dopo essersi ritrovato in un centro per immigrati clandestini si era recato a Como dove, nonostante le forti discriminazioni, era riuscito a trovare un lavoro come operaio: dieci ore al giorno per guadagnare discretamente. Dopo essere stato beccato varie volte senza permesso di soggiorno era stato arrestato e spedito al carcere di Favignana per sei mesi. Nel giorno del nostro incontro al porto era stato appena rilasciato e aveva appena appreso della morte della madre. A causa delle avverse condizioni climatiche, però, non aveva potuto lasciare l’Isola. Disse: “Sono libero e neanche me ne posso andare: e stanotte dove dormo?”

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Avendo già un buon numero di foto di Favignana, decisi di visitare la vicina Levanzo, nella quale non ero mai stata. Avevo però coltivato un’idea felice di quel paesino, frutto di tutte le volte che lo avevo osservato da lontano.

Arrivata li, dopo sei minuti di aliscafo, mi trovai davanti il piccolo porto. Il colore predominante era il bianco e, forse grazie alla splendida giornata, quel posto mi sembrò particolarmente sereno. A dominare la scena era un bar dalle dimensioni esagerate, il bar Arcobaleno. Entrai. Ad accogliermi fu l’anziana signora che gestiva l’attività, anche se “attività” è un eufemismo, dato che sull’Isola non c’era anima viva. Alla mia richiesta di un caffè rispose con un po’ di dispiacere: “Ho spento la macchina del caffè perché tanto qui non c’è quasi nessuno”. Acquistai una coca cola e approfittai di quella pace per scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi raccontò del periodo d’oro di Levanzo, di quando era giovane e sull’Isola c’era vita anche in inverno, della sofferenza per i figli mandati a scuola a Palermo, della famiglia installatasi a Trapani, dell’attuale solitudine e della sua anomala paura del mare, dovuta forse ai medicinali, forse ai suoi 83 anni.

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Uscendo dal bar iniziai il mio breve giro per il paese. Nell’arco di qualche ora vidi più o meno una ventina di persone e un piccolo negozio di alimentari, per il resto casette e stradine in salita: il paese è veramente piccolo, tutto il resto dell’Isola è natura. Camminando lungo una strada sterrata a strapiombo sul mare si arrivava al cimitero. Era un luogo di pace, diverso dalle calche di tombe delle grandi città: poche lapidi chiare, tutte decorate da foto di ultra ottantenni, niente bambini, niente giovani, ogni cosa sembrava testimoniare una vita giusta e felice.

Tornando in paese mi informarono del rischio di non poter tornare a Favignana a causa dell’improvviso cambio meteorologico. La mia breve permanenza a Levanzo si concludeva così con una corsa verso l’ultimo aliscafo disponibile e un viaggio di ritorno tormentato ma per fortuna breve. Purtroppo ero riuscita a fare poche foto.

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A differenza delle altre isole, Marettimo mi incuteva timore. La osservavo incuriosita dal faro di Favignana pensando a quando mi sarei trovata li. Cercavo di immaginare il paese e il paesaggio ma non riuscivo a fuggire da un’idea claustrofobica che la sua sagoma nera e altissima mi ispirava. Elevata e a strapiombo sul mare, lontana e spesso inaccessibile a causa della sua posizione, Marettimo è la più selvaggia delle Egadi. Un’Isola ideale per gli avventurosi amanti del mare, meno per le famiglie e per me. Tuttavia non vedevo l’ora di trovarmi li per constatare se la mia impressione aveva un riscontro reale.

Il giorno della mia partenza per Marettimo, svegliandomi avevo trovato una piacevole sorpresa: una splendida giornata di sole e calma piatta. Il viaggio in aliscafo al tramonto fu rilassante e tranquillo, così come l’arrivo.

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Davanti l’appartamento che avevo preso in affitto riposava un setter bianco chiazzato, particolarmente simpatico: mi salutò e cercò di saltarmi addosso in uno slancio affettuoso. Durante la prima uscita lo rincontrai quasi subito, e fece la stessa scenetta eccessivamente espansiva. E poi di nuovo, ad ogni giro e vicolo, a ogni traversa, il setter rispuntava in continuazione per farmi festa. Era ubiquo, quel cane! Poi, finalmente, quando mi ritrovai in uno spiazzo aperto e ne vidi un gran branco, capii che non si trattava dello stesso animale, ma di decine di setter uguali. Qualcuno mi spiegò che erano stati portati sull’Isola in quanto cani da caccia ma di razza mansueta e affettuosa. Presto, come molti dei residenti, iniziai a odiare quei cani insopportabilmente simpatici.

Non credevo che il paese fosse così piccolo e i suoi abitanti così pochi. Tutte le strade erano deserte e, di sera, illuminate da luci arancioni, tipo set di Jack lo Squartatore. C’erano due piccoli negozi di alimentari, due bar, un tabaccaio e una macelleria. La gente che non era chiusa dentro casa, all’arrivo di ogni traghetto o aliscafo affrettava il passo per recarsi al piccolo porto e accaparrarsi il posto migliore, cioè una panchina di fronte al mare dalla quale osservare l’attracco dei mezzi. Credo che quello fosse il momento mondano della giornata, quello in cui si commentavano le condizioni climatiche e chi restava si informava su chi partiva o tornava.

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Mi accolsero con la faccia sorpresa: “Ma che ci fai qui in questo periodo?” Era come se si vergognassero di mostrare ai “forestieri” la condizione di isolamento in cui vivevano d’inverno. Raccontavano il grande cambiamento che l’Isola affronta nella stagione estiva, quanto è bella e vitale d’estate, come si ripopolano le case adesso abbandonate ai venti. In inverno invece a Marettimo resta chi ci ha passato la vita intera, chi non vuole abbandonarla fino alla fine, ovvero pescatori ormai di una certa età, i pochissimi negozianti, spesso di Trapani, che ogni settimana fremono per scappare sulla terraferma almeno due giorni, e qualche giovane che passa il tempo esattamente come i più anziani: ricordo ad esempio un gruppetto di ragazzine sedicenni sedute al bar a bere caffè e giocare a briscola.

A Marettimo si respira l’aria fresca di montagna e anche il mare ha un altro sguardo, più cupo e ardente. Il paese è concentrato vicino al porto, le case sembrano rannicchiarsi e stringersi una contro l’altra per ripararsi dal forte vento che spesso tormenta l’Isola, ma che la gente del posto sembra tollerare con amore e pazienza.

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Erano trascorsi due giorni e il mio brevissimo soggiorno era arrivato a conclusione, la sveglia aveva suonato senza essere ascoltata e avevo perso l’aliscafo del ritorno. Dopo un iniziale momento di panico decisi comunque di correre con le valigie verso il porto, ma il mio passo fu rallentato dagli sguardi ironici della gente. Tutti, tranne me, avevano intuito che quel vento avrebbe annullato il viaggio di ritorno: quello che avevo perso sarebbe stato l’ultimo aliscafo dei successivi due giorni. Da Marettimo partiva solo un ultimo traghetto qualche ora dopo ma, osservando le onde del mare, preferii aspettare. Rimasi comunque sulla panchina del porto ad osservarlo arrivare (esattamente come faceva la gente del posto): oscillava da un lato all’altro con un movimento che anche a distanza provocava un principio di conato di vomito. Grande idea quella di non prenderlo.
Negli ultimi due giorni ho notato la vita negli interni delle case che, a differenza di quelle di Favignana, sono come tane, sigillate da tende e imposte chiuse. Dagli interni non provengono rumori di alcun tipo, niente musica, niente chiacchiere o discussioni, niente tv ad alto volume. Credo che quello sia il regno solitario delle donne che non ho visto durante quei giorni.

Marettimo è stata la rivelazione di questo viaggio. La immagino sempre lì, in mezzo al mare agitato, a continuare la sua vita con il suo aspetto malinconico e attraente.

Tornando in città risulta difficile continuare a credere che quella realtà continui a esistere, anche lontana dagli occhi; le isole quando non le si vede si dissolvono, sprofondano nel mare e i suoi abitanti con loro.

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La prova della loro esistenza è data solo da qualche articolo sul giornale che racconta in breve dei difficili collegamenti o dei giorni di isolamento durante i giorni di maltempo.

Le isole sono il luogo della contraddizione, entrambe le facce della moneta. Vi andiamo d’estate per sfuggire alla città, ai problemi sentimentali, alla noia, andiamo per dimenticare e le rendiamo luoghi di libertà, scrigni del sole e del benessere. Ma poi a settembre torniamo alla nostra vita e le abbandoniamo, ignari della loro imminente trasformazione.

“Il Paesaggio Trascurato” non è un reportage sulle Isole Egadi in inverno, ma la testimonianza di un paesaggio censurato in quanto poco commerciale. È il ritratto di una presenza umana che si manifesta solamente come figura fantasmagorica o come luce d’interni, di un mondo in cui sono gli animali a popolare gli spazi.

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