Settimana scorsa al Carusel du Louvre si è svolta Paris Photo, una delle fiere di fotografia d’arte più importanti al mondo.
Naturalmente ho dedicato una giornata intera all’evento. Visto il numero di gallerie presenti e di fotografie esposte sarebbe comunque stato impossibile pensare ad una visita più rapida, e così ho passato insieme ad un caro amico fotografo 7 lunghe ore nelle sale rumorose e affollate ad ammirare, assorbire e commentare centinaia e centinaia di fotografie.
Mi ricordo che l’anno scorso uscii da Paris Photo praticamente disgustato. Dopo un po’ il cervello inizia ad essere saturo, a non riuscire più ad accettare altri stimoli visivi, a restare concentrato. Un po’ come ad un banchetto, quando si continua a ingollare pietanze, senza pause. Si arriva ad un punto in cui nemmeno un boccone può andare ancora giù, se non si smette di mangiare si rischia di vomitare.
Quest’anno invece è andata molto meglio. Innanzitutto ho fatto 2 lunghe pause per separare le 3 grandi sale della fiera. Invece di analizzare tutto con attenzione maniacale mi sono concentrato su quello che mi interessava, facendo una preselezione mentale. Ho dato un’occhiata a praticamente tutte le foto appese negli stand, ma sono stato molto meno tempo a guardare le foto vintage e moderne, concentrandomi sull’arte contemporanea. Le foto vecchie sono belle, ed è sempre un grande piacere vedere una stampa dal vero di Kertez, HCB, Steichen, etc. Come è un piacere ammirare i bromoli, le gomme, i cianotipi su platino e tutte le altre tecniche antiche presenti a Paris Photo. Però il mio interesse prioritario quest’anno era un altro: vedere cosa si fa oggi in fotografia. Vedere quali sono i grandi nomi della fotografia artistica contemporanea e che tipo di lavori fanno. Quindi una discreta percentuale di gallerie l’ho visitata a discreta velocità. Infine, un altra ragione per cui mi sono stancato meno, è che ho già avuto modo di apprezzare dal vero, e a volte pure a più riprese, molte stampe originali che ho continuamente rivisto a Paris Photo. L’esperienza acquisita mi quindi ha permesso di muovermi con più velocità fra le varie gallerie e apprezzare di più l’evento.
Nel complesso devo dire che, a parte tanti lavori che amo e che conoscevo già bene, non ho visto niente che non conoscessi già che mi abbia lasciato completamente esterrefatto. Tante splendide fotografie di tanti fotografi che non conoscevo, ma le foto che ho più amato alla mostra restano quelle di quei 5 o 6 nomi straconosciuti. Insomma, restano alcuni nomi imprescindibili, poi gli altri, anche se a livello altissimo e anche se le foto sono godibilissime, sono un po’ un gradino sotto.
Vee Speers e Erwin Olaf
L’autore che più mi è piaciuto è stato, come l’anno scorso, Vee Speers, praticamente a parimerito con Erwin Olaf.
La serie The Birthday Party di Vee Speers è di una bellezza disarmante. In generale non sono un amante dei lavori fotografici e artistici sull’infanzia e i bambini, anzi, ma questa serie di fotografia fa eccezione. I ritratti sono di un’intensità che da quasi ai brividi e le stampe colorate a mano di una bellezza che fa venir voglia di piangere, impossibile da apprezzare sul sito dell’artista. Le foto in se sono semplicissime, un bambino, in posa, con qualche oggetto in mano. Ma i ritratti sono estremamente intensi, si ha voglia di guardarli e riguardarli, di perdercisi dentro. Le stampe sono di una finezza e eleganza squisita. Sicuramente fra le fotografie nell’olimpo delle cose più belle che ho visto in vita mia.
Di Erwin Olaf, oltre alle splendide foto della serie Grief che conoscevo già, era esposta la nuova serie intitolata Fall: ritratti di persone dagli occhi socchiusi alternati a nature morte floreali. Anche in questo caso, un genere, quello delle fotografie di fiori, che di solito detesto, ma la bravura di Erwin Olaf ne ha fatto qualcosa di splendido, confermandolo come uno dei miei fotografi preferiti in assoluto.
Oltre all’intensità dei ritratti e alla bellezza e perfezione delle foto in sé, anche in questo caso le stampe erano fantastiche. Secondo quanto mi ha detto la gallerista, scatto con dorso digitale, stampa digitale lambda su carta lucida, montata diasec sotto plexy matte. Una pastosità di toni acquarello, a metà fra la fotografia e la pittura, la carta baritata matte e il plexy solito dei diasec, che mi ha letteralmente conquistato. Tutti gli integralisti che sputano sul digitale predicando che la qualità non è ancora accettabile dovrebbero iniziare a farsi qualche giro nei musei per vedere a quanta bellezza si può arrivare oggi con fotografie realizzate dalla A alla Z in digitale.
Fra parentesi colgo l’occasione per dire che sul sito di Erwin Olaf è possibile visualizzare tutte le sue fotografie ad alta risoluzione, un vero piacere rispetto a tanti siti con foto minuscole impossibile da apprezzare. Un sito che dovrebbe essere da esempio per tutti.
A parte questi due grandi nomi, a Paris Photo erano comunque esposte tantissime splendide fotografie. Ogni tanto qualche rara porcheria, ma in percentuale il livello è veramente ottimo. Piuttosto che fare una lista della spesa con i nomi che mi hanno interessato mi limiterò a qualche impressione globale sulla fiera. In ogni caso una selezione parziale e incompleta di bei lavori che ho visto è presente nelle immagini che accompagnano quest’articolo.
Il concetto accompagnato dall’estetica
Innanzitutto mi è rimasto piacevolmente impresso l’alto contenuto estetico delle foto. C’è poco da dire, la maggior parte delle opere presentate sono proprio belle, nel senso che starebbero bene appese al muro in una grande casa moderna, un bel loft spazioso e luminoso. Insomma, sono foto decorative, e lo dico senza il minimo disprezzo. “Questa l’attaccherei in casa mia” è un buon metro di giudizio quando si tratta della qualità artistica di un’opera.
In minoranza invece le foto puramente concettuali, o le foto esteticamente orribili ma che si vendono in galleria perché accompagnate da qualche statement delirante di arte e filosofia. Fanno eccezione pochissime foto degli anni 70, che riproducevano quegli atti artistici e incomprensibili così cari a certa arte contemporanea. Delle foto di oggi invece veramente poche erano private della ricerca formale. Anche le foto più oggettive e frette, in genere tradivano un preciso intento estetico, magari non incontro al senso comune, ma pur sempre presente.
Questo è un punto che mi fa particolarmente piacere, visto che spesso mi batto contro la concettualizzazione pura delle fotografie, e delle opere artistiche in generale, al discapito di ogni altro aspetto e contenuto. Di fatto bisogna costatare che oggi, chi vende in gallerie di così alto livello, accompagna il contenuto alla forma. Certo tutte saranno concepite all’interno di un progetto ben determinato e tutte sono accompagnate da un preciso statement artistico, ma c’è poco da fare, tutte le gallerie esponevano il lavoro senza nessun riferimento scritto che permettesse di interpretarlo o conoscere le intenzioni degli artisti, quindi un eventuale acquisto è sicuramente influenzato dal primo impatto visivo.
Innovazione e imitazione
Un secondo punto notevole è la presenza incredibilmente alta di lavori che si assomigliano fra di loro, tanto a volte da sembrare dei plagi. Certo ci sono le mode e le scuole, come quella di Dusseldorf o quella finlandese, però in certi casi l’analogia è veramente sorprendente. Ne avevo già parlato nell’articolo l’ironia del nuovo, fra tradizione e innovazione, ma ancora una volta ho avuto tutto un nuovo campionario di fotografi che fanno esattamente la stessa cosa e espongono e vendono in gallerie senza farsi troppi problemi se qualcosa di veramente simile è già stato fatto da terzi. Non mi piace denigrare il lavoro altrui, quindi non voglio fare troppi nomi, ma solo denieare alcune tendenze ricorsive. Perlomeno per tenerle bene a mente come campi di ricerca troppo affollati, meglio dedicarsi ad altro.
È inevitabile quindi scuotere la testa quando si vedono 5 o 6 fotografi fare le stesse vedute di città secondo lo stile, tanto per citarne uno, di Vincenzo Castella: stessa prospettiva a volo d’uccello, stessi giorni grigiastri, stesso uso del banco ottico, stessa leggera sovrapposizione, etc. O ancora uno stuolo di emuli di foto all’Olivo Barbieri, tutti a sfocare le foto in modo che sembrano modellini, tutte immancabilmente uguali, del resto, non è poi così difficile farle. O le già citate fotografie del mare alla Franco Fontana e Hiroshi Sugimoto, le fotografie di splendide fanciulle che fingono di esser morte tipo Izima Kaoru, o gli scatti di Maria Antonietta Mameli che mi hanno ricordato molto gli l’universo di Mohammadreza Mirzaei (a cui ho anche fatto un’intervista per Camera Obscura).
Addirittura in un caso, per ironia della sorte, due lavori uguali erano presentati in due diverse gallerie disposte proprio una di fronte all’altra: Sex di Atta Kim e Coït di Frédéric Delangle. Lavori peraltro molto belli, ma talmente simili e vicini fra di loro, tanto nella realizzazione che spazialmente a Paris Photo, che mi sono sentito un po’ in imbarazzo per i galleristi e gli autori.
Per fortuna le somiglianze a volte sono limitate e vibrano all’interno di differenze sia concettuali che di intenti, rendendo le analogie una contingenza accettabile. Credo che la lezione da trarne è che alla fine fare qualcosa di veramente nuovo e cui nessuno abbia mai pensato è veramente difficile e anche “i grandi” non sono esenti da un’impressione continua di somiglianza. Nonostante questo vale la pena continuare a fotografare, a cercare quello che è il proprio senso delle cose, la propria bellezza, il proprio mondo personale. In questo modo, anche se le fotografie avranno punti in comune con quelle di altri, resteranno sempre le proprie fotografie, e per questo uniche.
Un mondo senza sesso?
A proposito poi di sesso, i due lavori sopracitati erano praticamente gli unici a contenuto sessuale, dove comunque la pornografia è completamente assente. Al contrario, si tratta proprio di fotografie che, tramite gli stratagemmi della posa lunga per l’uno e della sovrapposizione di immagini per l’altro, voglio rappresentare il sesso senza niente rappresentare. Certo erano presenti alcune foto porno del buon vecchio Araki, ma ad esempio Witkin quest’anno ha presentato immagini estremamente soft e caste per i suoi standard. Rispetto a Paris photo 2007 mancavano le foto di Andres Serrano e altre a contenuto esplicito di altri autori che avevo visto, foto che comunque, anche a Paris Photo 2007, erano sempre in scarso numero.
L’assenza di pornografia o anche semplicemente di fotografie che esplorino più direttamente la sessualità rimane per me abbastanza sorprendente. Mi basta pensare a quanto fosse scandaloso il semplice nudo un secolo fa, eppure, tanto per fare un esempio, Klimt e Schile disegnavano esplicitamente la masturbazione femminile. Oggi, seppure l’occidente si vanta della rivoluzione sessuale e di quello che dovrebbe aver portato, nella maggior parte dei casi delle fotografie esposte a Paris Photo ci si limita al semplice nudo casto e accomodante, un erotismo veramente poco scabroso. Forse il fatto che si tratti di una fiera destinata alla vendita, e che la maggior parte degli acquirenti sono i borghesi della società bene, può spiegare quest’assenza. Del resto come sorprendersi troppo, quando le splendide foto di Bill Henson, anche loro esposte a Paris Photo, vengono ripetutamente tacciate di pornografia e pedofilia, tanto da esser spesso sequestrate, le mostre chiuse dalla polizia, e l’autore messo sotto processo.
Lo stato dell’arte delle tecniche di stampa fotografica
Per finire una piccola nota tecnica. Paris Photo è anche l’occasione per godere di stampe favolose, e devo dire, contrariamente a quanto si pensa, che la maggior parte di queste sono digitali. Nella maggior parte dei casi infatti la qualità è altissima, a volte veramente toccante. È sorprendente però vedere in certi casi alcune pessime stampe, con artefatti dovuti a ingrandimenti eccessivi e mal eseguiti, dominanti verdognole o evidenti errori che potevano essere facilmente evitati. Detto ciò ribadisco comunque che la qualità in generale è veramente altissima.
Giusto per fare un esempio, il rumore digitale è spesso gestito male. Eppure non è così difficile, chiunque abbia letto Tecniche locali di sharpen e riduzione del rumore sa che per eliminare il rumore cromatico senza toccare il dettaglio dell’immagine basta meno di un minuto: copia dell’immagine su un nuovo layer in modalità fusione “color” e passaggio anche forte di un qualunque filtro antirumore. Rapido, facilissimo e efficace, basta saperlo. Poi esistono tecniche più complesse, ma questa velocissima e banale procedura avrebbe migliorato la qualità di tante stampe viste a Paris Photo.
Le stampe a getto d’inchiostro sembrano diventare sempre più abbondanti nel mondo dell’arte, a conferma della voce che circola che le dice migliori dal punto di vista della riproduzione dei colori saturi (gamut più ampio) e della durata di vita.
Per quanto riguarda la stampa a colori, soprattutto in grande formato, la prassi rimane però la stampa lambda incollata fra plexy e dibond con il precedimento diasec. A mio parere perché la stampa getto d’inchiostro grande formato pone ancora un problema di montaggio: le stampe sono molto fragili e vanno protette, ma l’inkjet è incompatibile con il diasec. La soluzione sarebbe allora vetro e cornice. A parte che la soluzione ha un gusto un po’ classico, un vetro di 100x250cm sarebbe carissimo, spesso, pesante e fragilissimo. Per le stampe piccole non ci sono problemi, e infatti molte erano inkjet. Ma come fare per i grandi formati che vanno ancora per la maggiore nelle gallerie d’arte?
Per quanto riguarda il bianco e nero invece, visto che la lambda non a colori è veramente pessima, le soluzioni restano due: la stampa tradizionale sotto l’ingranditore e la stampa a getto d’inchiostro, con le sue varianti, tipo la stampa ai pigmenti al carbone. Nei grandi formati si ripropone il problema del montaggio, cosa che forse spiega perché sono rare le fotografie in bianco e nero che superano il metro e mezzo.
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