Testo di Gianpaolo Arena e Steve Bisson. Fotografie di Gianpaolo Arena.
Mi inoltro all’interno del bosco nelle ore iniziali del mattino di una tiepida giornata di novembre. Le foglie e gli alberi sono ancora rigidi e induriti dal tagliente freddo della notte ma alla ricerca del conforto dei primi, esili raggi di sole mattutini. La luce entra debolmente all’interno della fitta vegetazione. La terra è dura sotto i miei piedi.
Guardandomi intorno mi accorgo che gli alberi che formano questo bosco sono piccoli indizi rivelatori di segnali precisi. Subito dopo mi appare chiaro di muovermi in una ragnatela scomposta che collega luoghi, atti e persone. Come le pagine di un libro da leggere ed interpretare, mi aggiro con aria interrogativa cercando di decifrare questi segni, senza però rinunciare all’abbandono momentaneo della suggestione e dell’emotività.
Tra le maglie di una vaga geografia umana emerge la figura di questo ecosistema chiuso, il Montello, un rilievo collinare che sorge a sud dell’attuale corso del fiume Piave. È stata un’area ferita e segnata dall’inarrestabile corso della storia: nel ’500 ricca riserva di querce per i cantieri navali della Serenissima, nel ’900 teatro di scontri sanguinosi nelle fasi finali della prima guerra mondiale. Luogo frequentemente e lungamente raccontato dai letterati: da monsignor Della Casa che, ospite nella abbazia di Nervesa ora distrutta, scrisse il celebre Galateo, fino a Giovanni Comisso e ad Andrea Zanzotto con il suo Il Galateo in bosco. Nel 1959 è l’ambientazione cinematografica per La Grande Guerra di Mario Monicelli…
Oggi come nel passato è ancora un luogo di insediamenti economici e fitti attraversamenti escursionistici. Un turismo, sia domenicale sia settimanale, lo occupa e lo attraversa con alterna frequenza. Luogo d’eccellenza, per chi rifugge i ritmi della città e desidera trascorrere una giornata all’aria aperta, è abitato da indigeni dalle caratteristiche e dai modi ormai molto simili a quelli dei cittadini inurbati.
I cambiamenti dinamici della storia mi permettono di ripercorrere con la memoria alcune tappe, di afferrare alcuni pezzi di essa, di acquisire conoscenza relativamente alle cose, agli effetti fisici ed ai processi. Sono incoraggiato a sfiorare con la mente ciò che era e ciò che è stato. Ipotesi, ricordi, avvisaglie, testimonianze sono miniature e dettagli che emergono attorno a me mentre cammino tra gli alberi e mi suggeriscono nello stesso tempo un racconto fatto di percorsi, relazioni, trame, esistenze, destini. Cammino nella terra nuda, una terra che è fatta anche di ossa. Le rocce e le pietre descrivono un microcosmo capace di raccontare, senza sbavature, anche altre cose.
Mentre sono perso nei miei pensieri e mi faccio guidare dalle sensazioni e dal fervore emotivo percepisco l’eco di alcune voci distanti. Mi avvicino seguendone il flusso e vedo un gruppo di soldati in lontananza. Dopo la prima rapida e curiosa occhiata, allungo lo sguardo sulle loro figure e riconosco le sagome di alcuni bambini. Quella strana ed eterogenea aggregazione riunisce persone di varia età ed appartenenza sociale. La loro presenza all’interno di un bosco, la mattina presto, in tempi di relativa pace sociale è abbastanza insolita. Tutti vestiti e accessoriati come militari pronti per la legione straniera. Giacche, pantaloni, anfibi, cinture, occhiali, guanti, coltelli, fucili sono le caratteristiche distintive che superficialmente rendono queste persone un gruppo. Nello stesso tempo però il loro essere individui è reso monocorde e indifferenziato dalle loro divise.
Li seguo mentre si muovono e si sparpagliano nel bosco alla ricerca di spazio, radure, naturali sfoghi fisici al loro desiderio di azione e movimento. Una pista da motocross, durante le giornate primaverili ed estive, è occupata occasionalmente in altro modo. Le ferite inferte alla terra dalle ruote delle moto mutano aspetto e sembianze. L’immobilità e la staticità che caratterizzano la pelle e il corpo di quel luogo, e che lo rendono tale da centinaia e migliaia di anni, diventano movimenti repentini e scostanti. È in atto un cambiamento improvviso e insignificante agli occhi di quel bosco. Comincia una danza involontaria, scomposta e irregolare. È il gioco della guerra. Nello stesso tempo però è la fine del gioco.
Caino e Abele (di Steve Bisson)
L’uomo cerca la natura, da sempre. Ne fa parte. È un bisogno diffuso, acclarato e indiscutibile. Esso ha innescato nei secoli azioni asimmetriche e processi raramente lineari, talvolta discordanti.
Qualche tempo fa l’amico e fotografo Gianpaolo Arena mi ha chiesto di scrivere un pensiero su una serie di immagini realizzate sul Montello. È un’area collinare i cui boschi hanno fornito, per secoli, la materia prima necessaria per costruire le fondamenta di quella che resta una delle città più straordinarie al mondo: Venezia.
Queste fotografie ritraggono alcuni uomini travestiti da combattenti armati, intenti a personificare una sorta di gioco della guerra. In fondo, chi da piccolo non ha sognato di fare la guerra? Certo i costumi e le armi erano molto meno tecnologici e sofisticati, ma in fondo la nostra visione del mondo da adulti non è poi così lontana da quelle facili distinzioni tra guardie e ladri, tra buoni e cattivi. Le figure di Caino e Abele da sempre dividono la storia a metà.
Però a guardare bene la faccenda non è così semplice: questi moderni guerrieri sono quasi tutti adulti, non ci sono donne, e la verosimiglianza con i reali soldati maschera qualcosa di inquietante. Si tratta ancora di una simulazione?
Crescendo il gioco diventa “tempo libero”, non è più parte del modo scherzoso e innocuo di vivere la giornata e le relazioni con gli altri. Esso diventa attività marginale e perde l’innocenza e la spontaneità tipica dell’età infantile. Più che di una esibizione di forza si tratta del tentativo di liberare istinti e desideri repressi, o ancora, di sfogare frustrazioni e delusioni.
La natura quindi non è solo uno sfondo, ma torna ad essere la madre che abbraccia, un rifugio dove mimetizzarsi. Questa serie fotografica ci mostra anche la fine del gioco tradizionalmente inteso; ovvero la perdita di naturalezza. Non a caso l’indagine di Gianpaolo Arena si spinge oltre il teatrino inscenato dai rambo della domenica, per ritrarre campi di basket divorati dall’erba e giochi di una volta abbandonati dai bambini divenuti “grandi”. Attraverso questa altalena tra presente e passato possiamo leggere i segni di un’evoluzione in chiave moderna dell’attitudine al gioco. Meno intuito, semplicità e fantasia e più calcolo, malizia e imitazione.
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