La corrispondenza di V. Erice e A. Kiarostami
Per un attimo, fortissimo, sento un pauroso slittamento della realtà. Mi si mischia tutto nella testa, con violenza. Tutti i diversi piani del reale, della sua rappresentazione, si scompongono e perdono il loro significato. Non so più dove sono, non so se sto guardando il quadro di Antonio López, se mi trovo veramente in mezzo alla strada con le macchine che mi sfrecciano accanto, oppure se sono entrato direttamente nel concentrato pittorico dell’essenza di Gran Via. Non capisco se ho davanti il video di Victor Erice, il mio ricordo di Madrid e della sua arteria principale, la Gran Via vista da Antonio López durante le ore che ha impiegato per dipingerla, oppure quella che passava nel mirino della telecamera sotto l’occhio di Victor Erice.
Dove sono? Qual’è il mondo vero?
Quante realtà, quanti piani di conoscenza, di solito impilati così bene nella nostro sistema tassonomico occidentale, sono volati via in un secondo, come vento che soffia all’improvviso in una pila di fogli e li sparge per una stanza, senza più sopra e senza sotto, davanti agli occhi solo un turbinio di pagine bianche. Intorno a me il mondo si sgretola in mille pezzi, mi sento cadere nel vuoto e mi ritornano in mente con una lucidità glaciale quei versi di Montale:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Per un breve momento, la testa che gira, il museo attorno a me si è sfaldato, per una volta ho potuto saltar fuori dalla matrice senza dover scegliere la pillola rossa per scoprire quant’è profonda la tana del bianconiglio, il velo di Maya è venuto giù di botto come una vela che si ammaina e ricopre tutto il ponte di una barca, non lasciandoti più vedere un solo centimetro di mare.
È stato uno di quei momenti in cui la realtà per un attimo vacilla e ti sembra di essere proprio sull’orlo, a un passo appena dall’illuminazione e dalla follia, vicino vicino a scivolare, e l’unica cosa che posso dire a mia discolpa è che il tutto era fottutamente ben fatto, con i suoni registrati a Gran Via in sottofondo e un gioco sapiente di luci sul quadro per ricreare l’abbaglio delle macchine. La miccia l’hanno accesa loro, poi di mio ci ho giusto soffiato sopra.
Ne sono uscito con la pelle d’oca e un gran subbuglio in petto. Una delle esperienze estetico-emotive più forti degli ultimi anni. Spero che adesso si capisca perché l’arte puramente concettuale mi lasci spesso freddo.
Senza poesia non si vive.
Quei giorni speciali di pioggia
Al centro dell’esposizione è proiettata appunto la corrispondenza fra Erice e Kiarostami, che poi da il titolo alla mostra. Vedendo i filmati ci si pone qualche dubbio sulla natura di identificazione e relazione diretta i due cineasti, che vorrebbe essere il senso dell’esposizione. Certo, ci sono affinità ma anche tante differenze, perché proporre proprio un cammino circolare e speculare invece che limitarsi a sottolineare similitudini e divergenze? Credo che per la parte centrale della mostra valga piuttosto la pena prendere questo film a quattro mani giusto per quello che è: una raccolta di lettere animate, spesso splendide, fra due grandi personaggi del cinema.
La mia “lettera” preferità è in assoluto quella di Kiarostami sulla pioggia. Siamo in una macchina, che viaggia in una città battuta da un forte piovasco. Si vede l’acqua che scorre sul parabrezza, le luci delle altre macchine, i contorni sfumati degli alberi e delle case. È Abbas che sta parlando, ci dice che magari non lo sappiamo, ma in Iran piove soltanto qualche giorno in primavera e qualche giorno in autunno, ecco perché gli iraniani hanno sempre qualche splendido ricordo associato con le giornate di pioggia, qualche ricordo speciale. In genere viaggia solo, ma questa volta vuole essere in compagnia di Erice.
Ecco allora che al video si sostituisce uno slideshow di foto scattate dall’interno della macchina, una bella musica classica di sottofondo. Tutte foto del vetro bagnato, con le goccie che disegnano elementi regolari, lunghe striature quando sono spinte indietro dalla velocità, grosse pozze quando è la tensione superficiale che vince. Il paesaggio, visto attraverso un vetro come questo, con il gioco infinito della diffrazione e rifrazione, si trasforma in uno splendido quadro impressionista. Quell’atmosfera sfumata ma così vivida, quella sensazione di essere li, di percepire esattamente la luce che ricopre le cose nei giorni di pioggia, la sensazione di viaggiare in macchina in quel mondo tutto particolare. Spesso sembra di vedere delle vere e proprie pennellate, a volte addirittura le fronde degli alberi si appallottolano su se stesse nei tratti concentrici di Van Gogh. Bellissimo, poetico, sensibile. Da piangerci tanto le immagini sono intense.
Poco avanti poi si trovano le stesse foto, ma stampate e appese al muro. Sono rimasto deluso, perché sono grigiastre e piatte. È vero che le foto nei giorni di pioggia sono proprio così, probabilmente quello che ho visto era solo un effetto di un proiettore che non usa un profilo di output corretto e distorge la gamma tonale (possibile che al Pompidou abbiano fatto un errore così grossolano?). Nonostante forse sia solo un caso, l’effetto nel video è stato magnifico e superiore a quelle che sono poi le foto stampate “correttamente”. Il contrasto eccessivo le trasforma in paesaggi magici, la trasmissione al posto della riflessione le riempe di luce, ne fa quadri quasi astratti, potenziando tantissimo l’impatto espressivo.
Fra le altre cose da notare infine sulla mostra, delle favolose foto sempre di Abbas di alberi e neve. Pulite e essenziali, magnificamente stampate in grande formato. Bianchi lavati e acceccanti, neri nerissimi che diventano segno puro, calligrafia sulla neve.
Un vero piacere per gli occhi.
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