Fotografia e verità 8: simbolo e interpretazione
La grana, visto che siamo in tema, se intensa e grosse, crea suggestive e splendide immagini che niente hanno a che vedere con la realtà. Immagini oniriche, sognanti. Dove la gamma tonale sparisce, si riduce alla sua essenza, le forme si scompongono e si ammorbidiscono. Ma le fotografie scattate a 25 iso sono anche loro composte dalla grana, semplicemente è così piccola che l’occhio, ad ingrandimenti normali, non riesce a percepirla. È come se la vedessimo da molto lontano e tutto si impasta creando l’illusione del continuo e dell’immagine liscia e morbida, ma in realtà, nella loro essenza, tutte le fotografie sono granulose come quelle scattate a 6400 iso, è solo la finezza che inganna il nostro occhio creando l’illusione di mimetismo con la realtà.
Per quanto riguarda la fotografia a colori, la situazione è praticamente la stessa del bianco e nero. Diapositive diverse, come il famoso tris della Fuji: Provia, Velvia e Astia; producevano risultati completamente eterogenei, dove la più grossa differenza era la saturazione delle tre pellicole. Ogni fotografo, prima di scattare, decideva se voleva una resa pastello dei colori o una molto sparata, e sceglieva di conseguenza la pellicola che avrebbe utilizzato. Adesso con le digitali e il bilanciamento automatico del bianco ci si dimentica che una volta la temperatura cromatica della luce faceva ammattire i fotografi. C’erano le pellicole calibrate per la luce diurna, quelle per il tungsteno, e tutti i filtri possibili per riscaldare e raffreddare l’immagine, in maniera da avere colori naturali anche in condizioni difficili. La resa dei colori comunque è sempre un’approssimazione più o meno fedele della realtà, ma non sarà quasi mai esattamente la stessa, altrimenti non si spiegherebbero gli sforzi necessari nella gestione del colore per ottenere risultati accettabili quando si cerca di riprodurre un’immagine.
Certi “colori” poi sono impossibili da ottenere con le emulsioni fotografiche. Per esempio dell’oro, come sanno benissimo i pittori, è qualcosa di impossibile ad ottenere mischiando fra di loro rosso verde e blu o ciano, magenta e giallo. Per dare la sensazione dell’oro occorre un pigmento che è ottenuto con una polvere metallica riflettente, è necessario riutilizzare la materia stessa, o perlomeno giocare con i riflessi, i colori da soli non bastano. I fotografi di gioielli, uno dei generi di still life più difficili, lo sanno perfettamente e si portano dietro tutta una serie di cartoncini bianchi e neri per disegnare i riflessi che danno forma ai gioielli. Fotografate un anello d’oro dal valore di 30 mila euro in luce completamente diffusa e avrete un orrendo pezzo di plastica gialla.
Si potrebbe continuare su questo tono ancora per molto, ma non ne vale la pena, preferisco tirare subito le somme. La pratica fotografica, per quanto utilizzata in senso “puro”, “diretto” e “incontaminato”, comporta sempre delle distorsioni, modificazioni, approssimazioni e interpretazioni della realtà. Tale deformazione, a pensarci bene, è estrema e implicita nel media. Fino ad ora mi sono limitato a caratteristiche e difetti tecnici del sistema fotografico, ma la sua incapacità a registrare in maniera iconica perfetta il reale è molto più profonda. Semplicemente la rappresentazione fotografica del reale si iscrive in un sistema di percezione del mondo codificata cui siamo abituati, e ormai non ci rendiamo più conto di quanto in realtà le due entità siano profondamente distanti l’una dall’altra. Per dirne una, il bianco e nero, che siamo abituati a leggere come riproduzione della realtà, in realtà è una modifica e distorsione pesantissima di questa. Eppure, secoli di disegno e un centinaio d’anni di fotografia quasi esclusivamente monocromatica ci hanno abituati culturalmente all’idea di una rappresentazione simbolica della realtà in scala di grigi.
Infine, oltre alle caratteristiche tecniche del tipo di emulsione, bisogna ricordarsi che la fotografia isola un momento e un luogo, per la semplice scelta dell’inquadratura e del tempo di esposizione il fotografo ritaglia dalla realtà qualcosa che non le appartiene più. Senza contare che una fotografia è un’immagine bidimensionale, mentre la realtà ha almeno quattro (la teoria delle superstringhe ne aggiunge ancora un bel po’…) dimensioni: le tre che caratterizzano lo spazio e il tempo. Una fotografia sarà solo una codifica di questa realtà a quattro dimensioni.
Ma si tratta appunto più di un simbolo che di un’icona. In realtà vedremo in futuro che nemmeno l’essere simbolo è la caratteristica fondamentale della fotografia, ma per un primo momento è bene raggiungere e assimilare questa tappa mentale. La fotografia, più che avere un rapporto mimetico con la realtà, la trascrive deformandola secondo un sistema decodificato. Questa visione delle cose ha avuto anche delle conferme scientifiche. Sono noti i casi di persone cieche da lungo tempo o dalla nascita che riacquistano la vista in seguito ad un’operazione agli occhi. Quando ancora non hanno “imparato a guardare” se gli viene mostrata una fotografia di un oggetto rotondo e uno quadrato non sono capaci di associarle visivamente e sono obbligati a chiudere gli occhi. Una volta imparato il procedimento di decodifica il riconoscimento diventa immediato, ma c’è una tappa mentale in più. Un altro caso famoso è quello dell’antropologo Melville Herskövits. Questi mostrò un giorno ad una aborigena una foto del figlio di questa. L’aborigena era completamente incapace di riconoscere nell’oggetto mostratogli il ritratto del proprio figlio, la fotografia non gli comunicava nessun messaggio fino a che l’antropologo non le ha spiegato come leggerla. Questa esperienza dimostrò chiaramente come la fotografia è un dispositivo culturalmente codificato.
Per quanto ci riguarda, volendo anticipare un po’ le cose e mettere qualche altra carta in tavola, facciamo una piccola provocazione. Abbiamo visto che in ogni caso la fotografia, per quanto la si pratichi nel modo più diretto e automatico possibile implica sempre una deformazione della realtà. A partire dalla scelta della pellicola che mettiamo nella macchina avremo due risultati diversi. Perché allora scurire un cielo è una deformazione della realtà considerata da molti non fotografica, mentre scegliere una pellicola diversa sembra esserlo? Questa scala di valori delle distorsioni della realtà che viene usata per stabilire cosa sia lecito e cosa non lo sia è basata su considerazioni razionali o è puramente arbitraria? A questo punto della serie fotografia e verità penso che sia inutile dire come la penso.
For multi-page articles the pdf file automatically include the whole post
Danx
said, July 2, 2008 @ 6:45 PM :
Anche la registrazione della luce è diversa tra occhio/mente e sensore, infatti quante volte dobbiamo usare il flash o realizzare doppie esposizioni, per avere una foto che ritragga ciò che ha visto l’occhio/mente?
——————————————————————————
Purtroppo quando la fotografia deve rappresentare la realtà, essa viene manipolata per la propaganda.
Oppure si fotografa un fatto senza pubblicare nello stesso articolo foto di fatti da cui è scaturito il fatto principale. O le conseguenze.
Si fanno miliardi di foto ogni giorno. Serviranno a qualcosa, quelle all’infuori della soggettività, spinte dai propri pensieri?
La foto di un evento rimane fine a se stesso, anzi vittima dell’evento.
Fabiano Busdraghi
said, July 3, 2008 @ 9:06 AM :
Giusto.
In questo articolo si parla soprattutto della difficoltà della fotografia di diventare copia mimetica esatta della realtà, quindi proprio quello che dici nella prima parte del tuo commento.
Per quanto riguarda l’uso propagandistico della fotografia, il suo essere vittima degli eventi, sarà proprio l’oggetto di un articolo della serie. Se la scaletta rimane immutata sarà l’11 o il 12.
ciao ciao