Blowup Antonioni
Blow-up di Michelangelo Antonioni

Erano anni che volevo vedere Blow-Up di Michelangelo Antonioni, e oggi finalmente ne ho avuto l’occasione.

È un film di cui ci si innamora a prima vista, senza riserve. Che si continua a rigirare nella mente, senza posa. Si cerca di capire, di trovare la soluzione che non c’è. Si rivedono le scene più intense, capolavori visivi. Poco a poco emergono dettagli che erano passati quasi inosservati, si capiscono certe allusioni, certi comportamenti.

Non sono una persona che ama trovare nel passato un’età d’oro ormai finita. Basta leggere la storia, la letteratura o la filosofia di qualunque epoca e di qualunque paese per rendersi conto di come sempre, inevitabilmente, il passato è stato visto con rimpianto per i bei tempi andati, per i valori morali ormai svaniti, per la felicità e la bellezza. So benissimo che non è così. Però è inevitabile fare un rapido confronto con il cinema contemporaneo italiano, tanto quello commerciale che quello colto. Un film come Blow-up vince per KO al primo round.

Non voglio fare una recensione del film, visto che se ne è già lungamente parlato e scritto. Per una rassegna molto completa sull’interpretazione dalla parte della critica si può leggere l’articolo Antonioni e Blow-Up nella critica e per una prima analisi (in francese) Blow-up de Michelangelo Antonioni. Mi voglio limitare a consigliarlo a tutti e specialmente i fotografi.

Del canto mio ho amato particolarmente i temi e i modi di affrontarli. Il senso di solitudine, di comunicazione impossibile. La noia per la società, la mancanza di senso del reale, la perdita di significato degli oggetti, le azioni, i comportamenti. I nonsensi, le contraddizioni, le illusioni. La tecnica di ripresa, il ritmo narrativo.

Da un punto di vista di feticcio fotografico è stato un piacere vedere e riconoscere come estremamente familiari gli oggetti e le pratiche, con anche quel pizzico di nostalgia per un mondo che ormai è praticamente sparito. Riconoscere all’istante i modelli di macchine fotografiche che utilizza, le marche delle pellicole, gli oggetti dello studio. Riconoscere nella camera oscura tantissimo materiale identico a quella in cui ho imparato a muovere i primi passi, camera oscura che è ancora la mia ma ormai per poco tempo ancora. Lo stesso orologio, lo stesso ingranditore, le stesse luci, addirittura lo stesso modello di bacinelle di sviluppo e fissaggio. Pensare che quel materiale allora era all’ultimo grido e ora è vecchio e desueto, più di quarant’anni son passati ormai, ti lascia in bocca lo stesso dolce amaro che si prova ad aprire un cassetto e scoprire un oggetto dimenticato dall’infanzia.

Ma oltre a questo credo che sia un film estremamente interessante per i fotografi. Non tanto per vedere materiale e tecniche di una volta, ma per il discorso sulla realtà della fotografia, discorso che ho lungamente abbordato nella serie fotografia e verità. Michelangelo Antonioni in realtà spinge i suoi passi molto più in là, e ci si interroga costantemente su quella che sia la realtà stessa. Quando l’illusione è continuamente dietro l’angolo, come potersi fidare allora della fotografia come prova del reale?


Scrivi un commento