Fotografia e verità 8: simbolo e interpretazione
Abbiamo visto nell’ultimo articolo della serie fotografia e verità che durante il XIX secolo l’atteggiamento dominante è stato quello di mettere avanti la somiglianza perfetta fra reale e fotografia, detto in altre parole la sua caratteristica fondamentalmente iconica.
A partire dall’inizio secolo scorso invece l’accento della maggior parte dei fotografi e dei filosofi è stato sulla fotografia come trasformazione del reale. I pittorialisti, impegnati nella loro battaglia per giustificare la fotografia come forma d’arte, non perdevano una sola occasione per elencare i casi in cui la fotografia falliva come rappresentazione mimetica della realtà.
È per me stupefacente pensare che, più di cento anni dopo, ancora bisogna ripetere argomenti simili per convincere le persone che la fotografia può avere un rapporto mimetico con la realtà, ma che questa non è assolutamente una sua caratteristica fondamentale. Insomma, una foto può più o meno assomigliare alla realtà, ma in un certo modo la distorce sempre. Non voglio perderci troppo tempo, quindi sarò abbastanza veloce. Rudolf Arnheim, nel suo libro Film as art, smonta sistematicamente il rapporto mimetico con la realtà, e rimando a questo testo ogni lettore interessato. Per il momento mi limito ad elencare alcune caratteristiche della fotografia, per chiunque abbia fatto un minimo di fotografia e non si limiti a pigiare un bottone, rendono evidente come la fotografia comporti immancabilmente distorsioni della realtà.
La cosa interessante è che la fotografia fallisce nel compito che gli viene affibbiato di avere un rapporto mimetico preciso con la realtà non solo quando ci si sforza di ottenere una resa pittorica, quando si maltrattano le emulsioni o si esplorano le cosiddette tecniche antiche. La fotografia, intrinsecamente, non riproduce in maniera precisa la realtà nemmeno quando la si usa nel modo più diretto e puro possibile.
Per cominciare si possono citare tutti i difetti delle ottiche. Perdita di nettezza sui bordi, resa dello sfuocato ad esagoni (o qualunque poligono disegnato dalle lamelle del diaframma), aberrazioni varie degli obiettivi, vignettatura, distorsioni a cuscinetto e a barilotto. Nessuno quando guarda alla realtà la vede con una perdita di luce ai bordi. Quasi nessuno ha negli occhi delle aberrazioni che pregiudicano la nitidezza della percezione del mondo. La visione umana dello sfuocato è sempre indiretta, appena si fissa lo sguardo in un punto lo si mette subito a fuoco. A meno naturalmente di essere miopi, ma in ogni caso la realtà, di per se, è sempre a fuoco, sono solo le immagini ottiche di questa che possono essere più o meno sfuocate.
Anche la focale degli obiettivi deforma profondamente la realtà. La visione umana corrisponde grossomodo ad una focale di 50mm su una pellicola di 24x36mm. Tutte le focali superiori o inferiori implicano deformazioni importanti dello spazio, della prospettiva, delle distanze. Con un grandangolare spinto si può far sembrare una stanza infinitamente più grande di quello che è in realtà, esasperare le fughe prospettiche, far sembrare le nuvole in cielo un accavallarsi impetuoso di cavalloni di mare in tempesta, gli oggetti vicini diventano smisuratamente grandi e quelli lontani minuscoli e irraggiungibili, il naso di una persona diventa grosso come un pallone e le orecchie piccole piccole. I teleobiettivi invece schiacciano completamente le prospettive, annullando le distanze. Oggetti lontani e vicini sembrano tutti alla stessa distanza dal fotografo. Trucchetto conosciutissimo di tutti i paparazzi, con un obiettivo si riesce a far sembrare che due persone camminano a braccetto quando invece si trovano a diversi metri di distanza l’uno dall’altro.
Del resto con le distanze, le deformazioni e le prospettive si può fare veramente di tutto per ingannare l’osservatore. Un giochetto ben noto a tutti i turisti che durante i primi anni di università ho visto visitare Pisa, tutti a farsi immortalare con la mano alzata come se non ci fossero loro a tenerla su la torre, questa verrebbe giù in un attimo. Più seriamente, lo splendido lavoro di Georges Rousse è tutto basato sugli inganni visivi. Per riassumere un lavoro lungo, complesso e impressionante Rousse dipinge nello spazio delle anamorfosi, che da certi punti di vista sembrano creare inserti su piani e distanze completamente diversi da quelli reali.
Cambiando genere, se si scatta poi con velocità troppo basse si rischia di fare una foto mossa di un oggetto che in realtà non si è spostato di un millimetro. Con le lunghe esposizioni poi le persone si trasformano in fantasmi evanescenti, nelle foto notturne le automobili lasciano lunghe righe rosse. Con le lunghissime esposizioni addirittura si riescono a far sparire del tutto persone e macchine in movimento. Delle primissime foto della storia fatte a Parigi, i primi dagherrotipi, non c’è mai nessuno per le strade, non un passante, non una carrozza, non un cane. Le pose delle prime lastre fotografiche erano talmente lunghe che tutti gli oggetti in movimento non riuscivano a lasciare nessuna traccia visibile. Fra quelle primissime foto fa eccezione un famoso dagherrotipo dove un passante, facendosi lucidare le scarpe, è rimasto immobile abbastanza a lungo da lasciare una traccia sull’emulsione sensibile. Volendo credere al rapporto mimetico della fotografia con la realtà bisognerebbe dedurre che nell’ottocento le strade di Parigi erano completamente deserte, salvo forse un unico personaggio preoccupato dalla patina del cuoio dei suoi stivali.
A volte capita di sbagliare clamorosamente un’esposizione, e trasformare una stanza riempita da una luce accecante in una dove regna la penombra. Oppure, naturalmente di produrre intenzionalmente immagini scurissime o chiarissime. Una foto notturna, se esposta a lungo, può essere chiara come una scattata di giorno. Chiunque abbia utilizzato seriamente il sistema zonale, un metodo di esposizione in generale particolarmente apprezzato proprio dagli amanti di una presunta fotografia ortodossa, sa benissimo che il punto di partenza è fotografare un muro o una superficie testurata esponendolo in modo che diventi un grigio medio al 18%, questo da la zona V. Poi fare tutta una serie di scatti aprendo e chiudendo il diaframma fino ad ottenere un bianco senza dettagli (zona X) e un nero senza dettagli (zona 0). Dalla serie di film esposti in questo modo è possibile ottenere poi tutta una serie di informazioni che permettono di controllare la gamma tonale delle proprie immagini. Ma quel muro, era grigio, bianco o nero? Oppure, sempre per restare in tema di sistema zonale. Come diavolo è che se una scena ha più di sette zone (o anche un filo di più se si aggiustare lo sviluppo) di differenza di luminanza, alcune parti dell’immagine diventano completamente bianche e altre completamente nere quando nella realtà c’era dettaglio ovunque?
La scelta della pellicola, tanto del bianco e nero che del colore ha effetti rilevanti sulle caratteristiche della fotografia che viene ottenuta appunto dalla pellicola in questione. Ogni pellicola per esempio ha la sua curva caratteristica. Certe emulsioni sono piuttosto lineari, altre hanno una lunga spalla o un grosso piede. Fotografando la stessa scena con pellicole diverse si ottengono risultati diversi. Senza contare che le emulsioni possono essere ortocromatiche o pancromatiche, ovvero più o meno sensibili a tutte le lunghezze d’onda della luce. Nel primo caso si otterranno dei bei cieli completamente bianchi slavati, e un sacco di foschia nelle valli. Con lo stesso giochetto ma dall’altra parte della gamma dello spettro, ovvero utilizzando pellicole per il bianco e nero sensibili ali infrarossi, è possibile bucare la nebbiolina che rende grigiastre così tante fotografie. La chimica scelta per lo sviluppo di pellicole in bianco e nero influenza enormemente le caratteristiche del negativo. Uno sviluppo più o meno lungo, a due bagni, con una certa temperatura, l’intensità e la frequenza dell’agitazione sono tutte variabili determinanti sulla resa della pellicola. Queste influenzano pesantemente il contrasto, la forma della curva di risposta, la granulosità della pellicola. La realtà che la fotografia sembra riprodurre in maniera così precisa qual’è? Quella dell’HP5 sviluppata 13 minuti in D-76 1+3 a 20°C con10s di agitazione al minuto o quella della Tri-X sviluppata per 10 minuti in HC-110, soluzione B, a 15° con due sole agitazioni durante lo sviluppo? Le combinazioni pellicola sviluppo sono praticamente infinite e danno risultati estremamente diversi fra loro, come decidere quale si avvicina di più alla realtà?
La grana, visto che siamo in tema, se intensa e grosse, crea suggestive e splendide immagini che niente hanno a che vedere con la realtà. Immagini oniriche, sognanti. Dove la gamma tonale sparisce, si riduce alla sua essenza, le forme si scompongono e si ammorbidiscono. Ma le fotografie scattate a 25 iso sono anche loro composte dalla grana, semplicemente è così piccola che l’occhio, ad ingrandimenti normali, non riesce a percepirla. È come se la vedessimo da molto lontano e tutto si impasta creando l’illusione del continuo e dell’immagine liscia e morbida, ma in realtà, nella loro essenza, tutte le fotografie sono granulose come quelle scattate a 6400 iso, è solo la finezza che inganna il nostro occhio creando l’illusione di mimetismo con la realtà.
Per quanto riguarda la fotografia a colori, la situazione è praticamente la stessa del bianco e nero. Diapositive diverse, come il famoso tris della Fuji: Provia, Velvia e Astia; producevano risultati completamente eterogenei, dove la più grossa differenza era la saturazione delle tre pellicole. Ogni fotografo, prima di scattare, decideva se voleva una resa pastello dei colori o una molto sparata, e sceglieva di conseguenza la pellicola che avrebbe utilizzato. Adesso con le digitali e il bilanciamento automatico del bianco ci si dimentica che una volta la temperatura cromatica della luce faceva ammattire i fotografi. C’erano le pellicole calibrate per la luce diurna, quelle per il tungsteno, e tutti i filtri possibili per riscaldare e raffreddare l’immagine, in maniera da avere colori naturali anche in condizioni difficili. La resa dei colori comunque è sempre un’approssimazione più o meno fedele della realtà, ma non sarà quasi mai esattamente la stessa, altrimenti non si spiegherebbero gli sforzi necessari nella gestione del colore per ottenere risultati accettabili quando si cerca di riprodurre un’immagine.
Certi “colori” poi sono impossibili da ottenere con le emulsioni fotografiche. Per esempio dell’oro, come sanno benissimo i pittori, è qualcosa di impossibile ad ottenere mischiando fra di loro rosso verde e blu o ciano, magenta e giallo. Per dare la sensazione dell’oro occorre un pigmento che è ottenuto con una polvere metallica riflettente, è necessario riutilizzare la materia stessa, o perlomeno giocare con i riflessi, i colori da soli non bastano. I fotografi di gioielli, uno dei generi di still life più difficili, lo sanno perfettamente e si portano dietro tutta una serie di cartoncini bianchi e neri per disegnare i riflessi che danno forma ai gioielli. Fotografate un anello d’oro dal valore di 30 mila euro in luce completamente diffusa e avrete un orrendo pezzo di plastica gialla.
Si potrebbe continuare su questo tono ancora per molto, ma non ne vale la pena, preferisco tirare subito le somme. La pratica fotografica, per quanto utilizzata in senso “puro”, “diretto” e “incontaminato”, comporta sempre delle distorsioni, modificazioni, approssimazioni e interpretazioni della realtà. Tale deformazione, a pensarci bene, è estrema e implicita nel media. Fino ad ora mi sono limitato a caratteristiche e difetti tecnici del sistema fotografico, ma la sua incapacità a registrare in maniera iconica perfetta il reale è molto più profonda. Semplicemente la rappresentazione fotografica del reale si iscrive in un sistema di percezione del mondo codificata cui siamo abituati, e ormai non ci rendiamo più conto di quanto in realtà le due entità siano profondamente distanti l’una dall’altra. Per dirne una, il bianco e nero, che siamo abituati a leggere come riproduzione della realtà, in realtà è una modifica e distorsione pesantissima di questa. Eppure, secoli di disegno e un centinaio d’anni di fotografia quasi esclusivamente monocromatica ci hanno abituati culturalmente all’idea di una rappresentazione simbolica della realtà in scala di grigi.
Infine, oltre alle caratteristiche tecniche del tipo di emulsione, bisogna ricordarsi che la fotografia isola un momento e un luogo, per la semplice scelta dell’inquadratura e del tempo di esposizione il fotografo ritaglia dalla realtà qualcosa che non le appartiene più. Senza contare che una fotografia è un’immagine bidimensionale, mentre la realtà ha almeno quattro (la teoria delle superstringhe ne aggiunge ancora un bel po’…) dimensioni: le tre che caratterizzano lo spazio e il tempo. Una fotografia sarà solo una codifica di questa realtà a quattro dimensioni.
Ma si tratta appunto più di un simbolo che di un’icona. In realtà vedremo in futuro che nemmeno l’essere simbolo è la caratteristica fondamentale della fotografia, ma per un primo momento è bene raggiungere e assimilare questa tappa mentale. La fotografia, più che avere un rapporto mimetico con la realtà, la trascrive deformandola secondo un sistema decodificato. Questa visione delle cose ha avuto anche delle conferme scientifiche. Sono noti i casi di persone cieche da lungo tempo o dalla nascita che riacquistano la vista in seguito ad un’operazione agli occhi. Quando ancora non hanno “imparato a guardare” se gli viene mostrata una fotografia di un oggetto rotondo e uno quadrato non sono capaci di associarle visivamente e sono obbligati a chiudere gli occhi. Una volta imparato il procedimento di decodifica il riconoscimento diventa immediato, ma c’è una tappa mentale in più. Un altro caso famoso è quello dell’antropologo Melville Herskövits. Questi mostrò un giorno ad una aborigena una foto del figlio di questa. L’aborigena era completamente incapace di riconoscere nell’oggetto mostratogli il ritratto del proprio figlio, la fotografia non gli comunicava nessun messaggio fino a che l’antropologo non le ha spiegato come leggerla. Questa esperienza dimostrò chiaramente come la fotografia è un dispositivo culturalmente codificato.
Per quanto ci riguarda, volendo anticipare un po’ le cose e mettere qualche altra carta in tavola, facciamo una piccola provocazione. Abbiamo visto che in ogni caso la fotografia, per quanto la si pratichi nel modo più diretto e automatico possibile implica sempre una deformazione della realtà. A partire dalla scelta della pellicola che mettiamo nella macchina avremo due risultati diversi. Perché allora scurire un cielo è una deformazione della realtà considerata da molti non fotografica, mentre scegliere una pellicola diversa sembra esserlo? Questa scala di valori delle distorsioni della realtà che viene usata per stabilire cosa sia lecito e cosa non lo sia è basata su considerazioni razionali o è puramente arbitraria? A questo punto della serie fotografia e verità penso che sia inutile dire come la penso.