Fra il pittorialismo e il modernismo di Edward Steichen e la maledizione di Ansel Adams
Durante gli ultimi mesi del 2007 al Jeu de Paume di Parigi è stata presentata la prima retrospettiva europea dell’opera fotografica di Edward Steichen. Era una mostra cui volevo assolutamente andare, perché pur conoscendo bene le immagini più famose di Steichen, avevo raramente visto sue stampe originali, cosa particolarmente importante soprattutto per quanto riguarda i primi anni pittorialisti. Inoltre le 450 fotografie che costituivano la mostra erano una sicura promessa per approfondire la conoscenza dell’opera di uno dei fotografi più prolifici e incisivi del secolo scorso.
La mostra apre, come è facile aspettarsi, con le prime fotografie pittorialiste che danno inizio alla lunga carriera di Steichen. Da addetto ai lavori e stampatore di tecniche antiche devo ammettere che ho guardato moltissimo le stampe per l’aspetto tecnico oltre che per l’aspetto estetico, anche se quest’ultimo non è stato certamente dimenticato.
La maledizione di Ansel Adams
La prima cosa che mi ha impressionato è la resa delle stampe al platino di Steichen rispetto a quelle contemporanee. Queste ultime sono praticamente tutte caratterizzate da neri profondissimi, una gamma tonale lunga come una tastiera di pianoforte, bianchi luminosi e morbidi, forte contrasto e grande leggibilità delle ombre, nelle quali la separazione dei toni è sempre eccellente. Per esperienza personale so che non è sempre facile schiarire completamente le alte luci, dove rimane facilmente un leggero velo o un tono caldo, anche se questo in generale non toglie la luminosità ai bianchi; nonostante questo i neri dei platino/palladio contemporanei sono sempre profondissimi. L’assunzione che i neri più profondi si ottengono con le stampe al platino è spessissimo vantata dai fotografi che usano questo antico procedimento di stampa come una delle caratteristiche più attrattive del platino. Addirittura, nell’ambito delle stampe digitali fineart, ha fatto scalpore la notizia dell’arrivo delle generazioni di inchiostri per stampanti che permettono di ottenere dmax superiori a quelle delle stampe tradizionali al platino. Insomma, platino e palladio sembra facciano rima con ombre scurissime, nei quali i dettagli restano leggibili, ombre opache e non lucide, ma dalla dmax assolutamente elevata.
Le stampe al platino di Steichen, come per esempio Pool, Milwaukee, hanno quasi tutte una resa diametralmente opposta. Le ombre più scure dell’immagine non superano mai un grigio decisamente chiaro, senza arrivare praticamente mai ad un livello che si possa definire nero. I bianchi sono praticamente assenti, la gamma tonale è quindi cortissima, le foto sono grigie e per niente contrastate. Sembrano stampe ottenute da negativi sviluppati per la stampa su carta baritata, altamente sottoesposti sotto gli ultravioletti in fase di stampa.
Naturalmente Steichen era una grandissimo stampatore e le caratteristiche delle stampe non dipendono da errori ma probabilmente da una precisa scelta estetica. Vederle è comunque sorprendente e mi ha portato a tutta una serie di riflessioni.
In primo luogo la necessità purtroppo ancora attuale di sottolineare che avere delle stampe con dei neri profondi e dei bianchi squillanti non è assolutamente una necessità a priori. Questa è una regola che chiamerei volentieri maledizione di Ansel Adams. Maledizione probabilmente involontaria, visto che Ansel Adams ha ripetutamente sostenuto la libertà interpretativa di ogni fotografo nei confronti della sua personale ricerca espressiva in camera oscura.
La previsualizzazione è più precisamente vista come un’attitudine nei confronti della fotografia, piuttosto che come un dogma. Si assume che il fotografo abbia una totale libertà di espressione, in nessun modo ristretta dalla mia idea, o da quella di chiunque l’altro, di cosa sia l’arte.
Ansel Adams
Nonostante questa chiara presa di posizione, è indubbio che l’invenzione del sistema zonale e le abitudini di stampa di Ansel Adams abbiano terribilmente influenzato generazioni di fotografi. Ansel Adams dice espressamente che quello è il suo modo di fare fotografia e che vuole unicamente fornire i suoi allievi dei mezzi tecnici per esprimere la propria sensibilità, non un’ortodossia di come stampare. Eppure le sue infinite ricerche su come ottenere i neri più profondi, i bianchi più puliti, il massimo del dettaglio nelle ombre e nelle luci, ha prodotto e continua a produrre schiere infinite di emuli. La sua personale ricerca estetica e espressiva si è tradotta in dottrina assunta come verità assoluta.
I fotografi amatori un po’ evoluti sembrano tutti essere affetti dalla maledizione di Ansel Adams, tanto da perdere di vista tutto, compreso il contenuto dell’immagine, sacrificato alla resa estrema del bianco e del nero. La maledizione di Ansel Adams è uno dei sortilegi che hanno fatto più danni in tutta la storia della fotografia, imbrigliando la creatività e la libertà espressiva in un ricerca formale e standardizzata della “stampa migliore”. I seguaci della scuola di Ansel Adams fanno tutti fotografie che si assomigliano completamente fra loro, spesso anche per i temi oltre che per le caratteristiche di stampa. I fotografi di più alto livello sembrano riuscire a esorcizzare meglio la maledizione, almeno per quanto riguarda i dettagli agli estremi della gamma tonale, oppure la rinuncia ad uno dei due estremi, nelle immagini lowkey e highkey. Ma le stampe come quelle di Steichen, in cui si rinuncia contemporaneamente ai neri e ai bianchi, ottenendo immagini piatte, grigie e poco contrastate, sono ormai rarissime.
Eppure la ricerca del bianco e del nero non dovrebbe mai essere un’assunzione a priori. Le regole in fotografia sono state inventate solo a scopo didattico, sarebbe necessario ricordarsi che in realtà vanno interpretate solo come un prontuario di cause ed effetti. Se componi l’immagine con il soggetto centrato si avrà un’impressione di staticità. I bianchi lavati danno un senso di purezza. Il contrasto aumenta la drammaticità dell’immagine. Spinto agli estremi permette di ottenere effetti puramente grafici. Un ritratto tagliato al collo da l’idea di una testa mozzata. E così dicendo, ma a priori nessuno di questi “espedienti” è di per se “sbagliato”. Le prime fotografie di Steichen, delicate stampe al platino giocate su toni di grigio appena accennati, delicate sfumature, ombre appena leggibili e vellutate, hanno tutte un’atmosfera particolarmente dolce e toccante.
Oltre a ricordare che i livelli del bianco e del nero, come tutte le altre caratteristiche di una fotografia, sono pure e semplici scelte espressive, la resa delle stampe al platino di Steichen mi ha fatto pensare all’assurdità della ricerca tecnica infinita che mira ad ottenere la perfezione formale sulle tecniche antiche di stampa. Stampare cercando continuamente i neri più profondi, il massimo dettaglio, l’assenza di macchie e imperfezioni, il bianco purissimo e il nero profondo è un controsenso e un atto di masochismo. L’evoluzione delle tecniche fotografiche ha sempre teso a semplificare e perfezionare la procedura necessaria per ottenere stampe tecnicamente impeccabili, nitide, contrastate, dalla ampia gamma tonale. Mi sembra abbastanza inutile stampare con una tecnica antica, su carta preparata a a mano, e passare mesi e mesi per cercare di perfezionarla al punto da far sembrare la stampa perfetta come se fosse uscita dalla macchina di una fabbrica. Se la scelta espressiva è quella della perfezione formale nel senso corrente del termine tanto vale stampare in digitale, la scelta di utilizzare antichi procedimenti di stampa è più coerente se il fine è quello di ottenere immagini non convenzionali.
Nel pieno del pittorialismo di inizio secolo
Dopo i platini ecco che l’esposizione Steichen, une épopée photographique continua con delle fantastiche gomme bicromate. Assolutamente splendide e perfette, probabilmente fra le migliori gomme che ho visto in assoluto in vita mia. Curiosamente i neri sono molto più profondi e le stampe sono molto più contrastate dei platini, esattamente il contrario di quello che ci si aspetterebbe. Con la gomma si ottengono ombre nere solo al prezzo di ripetute stampe sovrapposte, mentre col platino è estremamente facile, razionalmente ci si aspetterebbe l’utilizzo della gomma per immagini delicate e del platino per immagini contrastate, mentre Steichen fa esattamente il contrario. Anche questo un insegnamento di vita per tutti quelli che pensano che ogni tecnica antica sia destinata ad un unico tipo di fotografia, spesso addirittura ad un unico soggetto. Ogni tecnica può essere adattata alle proprie esigenze personali.
Una delle gomme che più mi è piaciuta è sicuramente “autoritratto”. Ho notato con particolare piacere che gli interventi di stampa non si sono limitati unicamente alla fase di spoglio. In questa stampa sono particolarmente evidenti riuscitissimi interventi pittorici diretti. Steichen ha applicato infatti colpi di luce sulla tavolozza, il pennello, la riga sullo sfondo e il colletto della camicia, aggiungendo direttamente delle pennellate di colore bianco sulla stampa. Interventi riuscitissimi ai fini espressivi e tecnicamente ineccepibili. Un bello smacco per chi abbraccia cieche crociate contro il digitale, sostenendo che le immagini digitali non sono Fotografia perché gli interventi ne stravolgano la natura rendendole immagini non-fotografiche. Bisognerebbe perlomeno smettere di fingere di non conoscere la storia della fotografia. Pesanti interventi sull’immagine, a volte ancora più radicali dell’odierno ritocco al computer, sono nati con la fotografia e erano assolutamente correnti all’inizio del secolo scorso, il digitale non ha fatto altro che aggiungere qualche strumento in più nelle mani nei fotografi.
Completano la panoramica sulle tecniche antiche di stampa dei bei carboni in grande formato e delle splendide fotoincisioni. Queste ultime sono veramente superbe, e capisco perché Steichen e Stieglitz le consideravano vere e proprie stampe e non semplici riproduzioni fotografiche. Infine, vedere dal vivo The Pond-Moonlight, che per il momento rimane la seconda foto più cara di tutta la storia, è certamente un momento emozionante.
Per quanto riguarda invece le fotografie, e non semplicemente la tecnica, quasi tutte le immagini del periodo pittorialista sono splendide. Alcune più tipicamente di inizio secolo, altre nonostante il pittorialismo sono stupefacentemente moderne.
La mia preferita in assoluto dei primi anni di Steichen è Brooklin Bridge. Anche se la stampa è morbida e sfuocata in puro stile pittorialista, il soggetto è già moderno e il taglio rimane ancora oggi attualissimo. Questa forma scura e incombente ripresa dal basso, una barra nera che dal centro parte verso l’angolo in alto a destra, la massa vuota dell’acqua nella metà inferiore della fotografia, le luci accecanti che punteggiano il nero della notte. Una composizione sprezzante delle regole e riuscitissima sul piano estetico.
Dei primi ritratti invece mi piace particolarmente quello di Gordon Craig, ancora una volta per l’attualità e la composizione stupefacente dell’immagine. Una splendida scoperta è stato lo studio per la copertina del quattordicesimo numero di Camera Work. Oltre all’immagine, mi piace particolarmente l’interazione del soggetto con la cornice dorata, che mi ricorda un po’ la Secessione viennese.
Il passaggio al modernismo e al commerciale
La mostra prosegue con l’evoluzione di Steichen verso il modernismo. Pur amando molto il pittorialismo, devo dire che l’innovazione estetica portata avanti da Steichen in questa seconda fase è una vera e propria boccata d’aria fresca. Sembra di scoprire la messa a fuoco, dopo tutto il flou degli immagini precedenti finalmente le fotografie si fanno nitide e precise. Sebbene le immagini siano molto interessanti e spesso molto moderne, la nascita delle immagini di moda, nature morte astrattissime, l’interesse è spesso sopratutto storico, considerata la rivoluzione visiva che operava Steichen sulla propria opera, o addirittura aneddotico come nel caso delle immagini aeree della seconda guerra mondiale.
Fra le fotografie moderniste però devo citare due immagini, che conoscevo già bene, visto che sono in assoluto fra le mie preferite di tutta l’opera di Steichen: il Maypole e il George Washington Bridge. La prima fra l’altro l’avevo vista qualche tempo prima a Paris Photo, una foto in assoluto fra le più care di tutto il salone. Entrambe sono geniali e attualissime, perfettamente realizzate e in pura fotografia diretta. La fotografia è assolutamente valida in se, per l’immagine punto e basta, e non per tutti i fronzoli aggiunti da interventi pittorici. Sono entrambe fotografie famosissime utilizzate, insieme ad alcune di moda e dei primi anni pittorialisti, per i manifesti che tappezzano Parigi pubblicizzando l’esposizione. Sono rimasto molto deluso dal constatare che le fotografie moderniste di Steichen di questo genere presenti all’esposizione si contano sulle dita della mano. Certo è possibile vedere le nature morte floreali, le conchiglie, le astrazioni e tutti gli scatti meno noti del fotografo, ma pubblicizzare un evento con un’immagine che resta praticamente unica fra le 450 esposte è un po’ una presa di giro. Peccato, perché avrei ammirato volentieri altri lavori simili di Steichen, sia sui palazzi che sui ponti.
A questo punto della mostra bisogna salire delle scale a chiocciola che portano alla seconda metà dell’esposizione. Nelle scale sono stati installati degli altoparlanti che diffondo rumori fragorosi e abbastanza deliranti di motori, macchine, fabbriche, che dovrebbero significare un passaggio definitivo verso la fotografia moderna. Salgo trepidante, aspettandomi foto di macchinari, fabbriche, treni, palazzi. La delusione invece è totale. Al piano superiore ci sono praticamente solo fotografie di moda, ritratti, pubblicità.
Naturalmente sono interessanti e alcune anche ottime, però assolutamente in soprannumero. Si guardano volentieri, perché raccontano tutta un’epoca e la sua alta società, ma sono veramente troppe, praticamente tutta la seconda metà dell’esposizione è dedicata a foto mondane, che alla lunga annoiano terribilmente per la loro ripetitività. La cosa peggiore è che molte, rispetto ad altri scatti, sono veramente insignificanti, probabilmente puri lavori commerciali, il cui unico interesse odierno è dato solo dal fatto che rappresentano un personaggio conosciuto, una star del passato. Queste fotografie, storicamente importanti, sono messe accanto a fotografie di straordinaria forza espressiva e bellezza, come il ritratto di Greta Garbo, fra uno dei più toccanti che sia mai stato fatto all’attrice.
Certo, nella carriera di Steichen la fotografia commerciale e mondana ha avuto una parte molto importante. È interessante vedere le pubblicità che ha prodotto, ma per quanto riguarda moda e ritratti il numero di immagini è decisamente sproporzionato rispetto alla mostra, una selezione più severa avrebbe giovato alla seconda parte dell’esposizione che diventa noiosa e ripetitiva. Il problema ha origine probabilmente da una certa confusione contemporanea su cosa sia arte o più in generale valga la pena mostrare nei musei. Quando Steichen scattava le sue foto di ricognizione dagli aerei militari che sorvolavano l’Europa della seconda guerra mondiale probabilmente non avrebbe mai nemmeno concepito l’idea di esporle in uno dei più grandi musei di Parigi. Naturalmente in una retrospettiva, qualche esempio di immagini di questo tipo, per dare un’idea completa di tutti i campi toccati dal fotografo, trova la sua giustificazione. Lo stesso dovrebbe valere per le foto di moda e dell’alta società. È noto che Steichen per molti anni ebbe un’attività intensissima di ritrattista e fotografo fashion. È noto anche il grande impegno e serietà che metteva nella realizzazione dei lavori su commissione. Però questo non giustifica ai miei occhi che ben metà delle foto della retrospettiva siano dedicate a questo tema.
A parte questo appunto, la mostra è stata un’ottima opportunità per approfondire la conoscenza dell’opera di Edward Steichen, una delle più grandi figure della fotografia del ’900. Ha permesso di studiare dal vivo delle splendide stampe al platino, al carbone, alla gomma bicromata, delle indimenticabili fotoincisioni e anche qualche splendido esempio di dye transfer. Tutte stampe dalla cui disinvolta esecuzione si ha ancora molto da imparare. Inoltre è stata l’occasione per ammirare dal vivo molte di quelle che sono fra le fotografie più famose della storia.
Alessia
ha detto, il 14 Settembre 2011 @ 3:56 pm :
Ho “divorato” quello che hai scritto! purtroppo ancora molti di coloro che si interessano alla fotografia pensano che la storia della foto sia fatta di pochi nomi e “regole” da seguire fedelmente. Il tuo articolo è un tuffo emozionante in un passato bellissimo! grazie, alessia
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 14 Settembre 2011 @ 9:57 pm :
Ciao Alessia,
grazie per il commento e i complimenti, fanno sempre piacere. Ultimamente non riesco a dedicare il tempo che vorrei a CO, ma spero di riuscire a pubblicare tanti altri “tuffi emozionanti”…
a presto
Fabiano
virginia
ha detto, il 2 Febbraio 2012 @ 10:46 am :
ciao ho trovato il tuo articolo molto interessante! Farò la tesi di laurea su edward Steinchen mi sai dare qualche dritta sopprattuto sulla collaborazione tra Edward e Vanity faire e Vogue! grazie
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 2 Febbraio 2012 @ 12:14 pm :
Ciao Virginia, e grazie per i complimenti. Monalisait vende il catalogo della mostra di cui si parla nell’articolo a metà prezzo (circa 40€), oltre a contenere un bel po’ di informazioni -con un po’ di fortuna anche quelle che cerchi- è anche un bellissimo libro.
In bocca al lupo per la tesi!