Sogni e paesaggi immaginari di Chris Rain
Chris Rain è un giovane fotografo che tramite varie manipolazioni di camera oscura crea delle fotografie di mondi immaginari che rispecchiano i suoi sogni e ricordi. Paesaggi magici e misteriosi, in uno splendido bianco e nero di grandissima qualità.
Testo e fotografie seguenti di Chris Rain.
Edificare città con i pensieri: la linea e la cresta delle onde corrispondono alle inflessioni della voce e dei suoi persistenti sospiri.
Curiosità. Non conosco un termine che al tempo stesso sia altrettanto melodico e frastornante per chi è preda della sua brama; l’unica maniera che fino ad ora ho trovato per poter dimostrare riconoscenza a questa attitudine sensoriale è lasciare sempre incomplete immagini e parole che mi suggerisce.
Così, un po’ per provocarla, come potrebbero fare due amanti indisponenti, un po’ perché voglio emanciparmi dalla convinzione di poter creare una visione con scritto ai suoi due margini -inizio- e -fine- senza lasciare traccia di punti interrogativi che diano vita a un seguito. C’è sempre qualcosa di ectoplasmatico che sfugge dall’inquadratura, o magari resta ben nascosto tra le fitte trame dei giochi di luce, ed è proprio questo che veicola la scelta del mio protagonista: una esasperata fascinazione da ciò che è misterioso e si vorrebbe conoscere, come il provare ad enumerare tutti gli angoli di una sfera o scovare mostri mitologici mimetizzati tra le nuvole.
Ho qui davanti le mie fotografie, non conto più quante volte le abbia rigirate tra le mani in ogni verso possibile, e quando le circostanze le rendono complemento oggetto di una disquisizione e devo quindi parafrasare i perché e i per come della loro genesi, preferisco abbandonare tecnicismi e retorica e piuttosto rievocare quelle storie ed impressioni che ruotano intorno a quegli scorci di immaginaria realtà e la custodiscono. Non seguo particolari tematiche progettuali ne tanto meno tiro somme per ottenere un minimo comune denominatore che non farebbe altro che annichilire l’universalità del potere comunicativo; cerco di seguire un percorso simile al flusso di coscienza narrativo, dimenticandomi cosa sia venuto prima e quali posti abbia già visitato. Ogni arco temporale della propria esistenza è sempre scandito da una matrice di emozioni, presentimenti e coincidenze che portano ad agire e pensare secondo quella determinata impronta; ritengo sia fermamente indispensabile imparare a far interagire l’emisfero interiore a quello tangibile, sovrapponendo le due diverse immagini che essi ci propongono. Trovo riduttivo fare quindi divisioni in serie e gruppi, le fotografie servono più a raccontare l’autore che i soggetti in esse rappresentati; poco importa quindi se alla foto di una barca che affonda segue una macchina da scrivere e poi un disegno, viene da se, che se tutte e tre fanno parte dello stesso capitolo della vita, inevitabilmente avranno un filo invisibile che le unisce senza passare inosservato neppure allo spettatore più distratto.
Cerco di esorcizzare uno stato comatoso esistenziale che mi ha accompagnato a lungo ed è sempre in agguato da qualche parte. Faccio lunghe camminate di notte e poco prima che sia mattina salgo sull’automobile per mettermi a guidare a caso e senza alcuna meta.
Ogni qual volta che mi fermo a guardare incantato qualcosa sono consapevole in fondo di stare a cercare per l’ennesima volta quelle stesse cose che mi perseguitano: cerco un posto nuovo dove andare o perlomeno delle vaghe indicazioni per raggiungerlo, cerco di incontrare i miei personaggi immaginari e osservo da lontano, un po’ spaventato, quelli che non conosco. Una scala sull’albero di un giardino e una carrozza che addolcisce ulteriormente il profilo delle colline sicuramente conducono nello stesso luogo, sono dei portali d’ascesa e conquista che vivono di vita propria senza che nulla li mantenga in funzione; i rami si dissolvono, i cocchieri bruciano e ogni tipo di sostengono in questo percorso diventa superfluo.
Durante una di quelle incursioni notturne, un improvvisa fitta nebbia mi costrinse a cambiare strada per prenderne una secondaria con più visibilità. Evidentemente feci qualche errore di percorso, ritrovandomi da li a poco su una pianura sterrata dove dalla foschia mi apparvero davanti, disposti in semicerchio, una muraglia di vagoni ferroviari dismessi e ribaltati. Paura e Magnificenza. Mi affrettai a tornare indietro e dentro di me giustificavo l’indietreggiamento come semplice voglia di trovare la strada giusta il primo possibile; la verità invece è che ero terrorizzato, avevo la sensazione di poter essere risucchiato dentro quel cerchio e sparire da un momento all’altro. Quella sera, non avendo trovato un posto dove stare, rimasi a dormire in auto e non riuscendo a prendere sonno mi dannavo del perché non fossi stato in grado di fare neppure uno scatto a quella scena cui avevo assistito. Non credo che avrei mai ritrovato quel posto, ma guardando dal finestrino la valle innevata li davanti, continuavo a sognare un percorso immaginario che scendesse giù per il pendio e mi portasse indietro nel tempo, facendo tappa ad ogni momento in cui avessi lasciato qualcosa interrotto senza aver modo di avere una seconda possibilità. Non c’era nulla di nuovo rispetto a quanto non stessi già facendo, anche il fatto che mi fossi spinto fino a li, era un modo per dare pace a demoni vaganti, disegnare delle porte dove non ce ne fossero e farli evadere. Cos’altro potrebbe spingere l’uomo a ritrarre la realtà, se non il desiderio di cambiarla a proprio piacere? Metaforicamente queste fotografie nascono nell’istante stesso in cui le ho immaginate, poi si è trattato solamente di avere la giusta pazienza di trovare riscontro nel quotidiano, meglio ancora se in luoghi apparentemente anonimi dove sfrecciano altre centina di persone; sentire quella freccia gelata perforatrice dell’inconscio che molti chiamano deja vu e tessere una corrispondenza tra mondi paralleli.
A volte in questi spettacoli di prestigio qualcosa va sempre storto, credo che fare una fotografia sia un azione molto meno -impressionista- di quanto possa sembrare; l’inevitabilità del fato e del tempo fa scontrare con scenari inaspettati dai quali bisogna sopravviverne in qualunque maniera, è così che il mio treno fantasma è stato soppiantato da un bosco impenetrabile, e gli uccelli sui fili della luce lungo la strada, al mio ritorno erano tutti volati via. O quasi tutti. In mancanza d’altro anche i pesci potrebbero imparare a volare, in fondo una volta uniti dall’orizzonte non c’è poi tanta differenza tra acqua ed etere; senza dubbio è giusto che sia così, e non per una questione di arroganza estetica, bensì espressiva, perché dal momento che nella stesura del fondo di queste tele ci saranno sempre calcati meravigliosi tormenti, perlomeno in superficie, ho bisogno di tenere come promemoria qualcosa di apparentemente rassicurante.
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