The Chronicles of Time, di Giacomo Costa
Qualche mese fa Giacomo Costa mi contattò in occasione dell’uscita della sua monografia “The Chronicles of Time” -promettendomi anche una copia del libro- informandomi che nell’introduzione di Luca Beatrice è presente un breve estratto dell’intervista che abbiamo realizzato insieme per Camera Obscura.
Purtroppo durante l’ultimo anno sono stato in Italia solo per 4 o 5 giorni, fra l’altro sempre di passaggio e un po’ di corsa. Una delle prime cose che ho fatto tornando a casa settimana scorsa è stato leggere con attenzione il libro che mi aspettava ormai da qualche mese, per farne una più che meritata recensione.
Più che meritata intanto perché fra tutte le interviste pubblicate su Camera Obscura, quella a Giacomo Costa è probabilmente fra le mie preferite in assoluto. Oltre alle splendide fotografie e render 3d che accompagnano l’articolo, al di là delle risposte esaustive e interessanti al punto di essere avvincenti, mi sembra si riesca ad indovinare una personalità gentile e simpatica, un personaggio allo stesso tempo semplice e speciale. Se tanti artisti si nascondono dietro il gergo altisonante del mercato dell’arte e partono in voli pindarici più o meno convincenti, Giacomo Costa mi sembra si accontenti di produrre le sue opere senza fare tante storie e soprattutto senza mai perdere un pizzico di ironia
The Chronicles of Time è un bel volume, di formato quasi quadrato, quasi 300 pagine, Damiani Editore. È un libro ben stampato, dove i lavori di Giacomo Costa hanno un posto in assoluto di primo piano, al di là della breve introduzione di Norman Foster e di Luca Beatrice, non è presente praticamente nessun testo, i lavori di Giacomo Costa sono i protagonisti assoluti. Il libro è molto completo, viene ripercorsa infatti tutta la storia dell’opera di Giacomo Costa legata alla città: dai primi collage di palazzi e edifici ammonticchiati in un groviglio claustrofobico, alle vaste panoramiche di città post apocalittiche dove spiccano misteriosi monoliti e le rovine si perdono all’orizzonte, passando per gli splendidi orizzonti, i cui semplicissimi blocchi di cemento squadrato mi ricordano con prepotenza gli indimenticabili iceberg dei miei viaggi in Antartide.
Alla fine del libro è presente anche l’ultima serie di Giacomo Costa, “Private Gardens”, che ancora non conoscevo. I questa serie di lavori recenti mi sembra proprio che si possa dire che l’autore ha colto nel segno. In alcuni dei suoi lavori precedenti l’atmosfera fantascientifica è molto presente, e può dare l’impressione di un mondo di plastica o dei fumetti, tanto da far sembrare esagerata o addirittura non piacere l’opera di Giacomo Costa, soprattutto per chi è ancora legato ad una visione tradizionale della fotografia, in puro rapporto mimetico con la realtà, visone lontanissima dalle immagini completamente realizzate al computer da questo autore a mezza strada fra la fotografia e la realtà virtuale. La serie dei giardini invece, pur essendo in linea perfettamente coerente con i lavori precedenti e la visione personale dell’autore, almeno da un punto di vista prettamente formale mi sembra che recuperi una dimensione più vicina al reale, che trovo forse più gradevole e interessante di certe immagini precedenti.
Le città sono sempre presenti, città in rovina e abbandonate. Ma sono come in disparte, come intuite. Rimangono naturalmente il protagonista dell’opera, ma un protagonista che ha cambiato il colore della propria pelle per confondersi nello sfondo, per mimetizzarsi pur conservando il suo ruolo di primo piano. I giardini sono silenziosi e misteriosi, nello scenario di apocalissi sembra però esser tornata la vita. In queste immagini eleganti e affascinanti le piante hanno riconquistato gli spazi, l’assenza umana è ancora totale, ma al di là di un aleggiante senso di mistero e dell’inquietudine legata alla distruzione cui ci ha abituato Giacomo Costa, qui si respira una quiete purissima, un’eleganza silenziosa, un’impressione distaccata di un mondo primordiale come era prima della razza umana.
O forse subito dopo.