Dream, di Matteo Bosi
Fotografie di Matteo Bosi, testo di Gianluca Bosi.
Nell’immagine “Dream”, tratta dalla collezione “Obsession”, Matteo Bosi ritorna ad una fotografia in cui l’intervento digitale è limitato al massimo, e lo scatto ottiene subito un effetto drammatico e “mortale”. Vediamo un cadavere, avvolto in un pallido sudario, il braccio esanime disteso, ma il volto non vediamo. Questa scelta è frequente nelle opere dell’artista, che ora cerca nell’identità nascosta una rivelazione, ora trova nella carne e nella corporeità dell’uomo la sua visione più oscura, doppia e animale.
Ma qui la nudità accompagna la fragilità, qui il corpo è solo, abbandonato nelle sue spoglie delicatamente, tragicamente. Può forse riportarci alla linda purezza di una fanciulla del Canova, ma non sta portando una coppa né un’anfora ora. Ora è morta. E l’effetto che ha su di noi è così essenziale, così chiaro il messaggio, nello sfondo non v’è colore o figura che possano distoglierci dal guardare, colpiti nel profondo, questa donna esangue, e ci riguarda così nel profondo in quanto esseri mortali, che con un brivido caldo possiamo accorgerci che dentro noi uno spazio resta vuoto. Forse perché qualcosa se ne è andato, forse perché non avevamo mai notato quest’assenza in noi. La morte siamo noi. Non esclusivamente, certo; siamo movimento, vita, rinascita, sviluppo, evoluzione, trasformazione (tutto questo è rappresentato in numerosissime opere dell’autore). Ma qui, dirimpetto a questa donna che non è più con noi, ma altrove, sentiamo che una parte di noi con lei rimane, si sdraia al suo fianco, tra il fianco morbido e freddo ed il braccio, per rimanere lì. Delicatamente. “Il corpo è un contenitore, un orologio biologico. Ti richiama continuamente alla vita ma anche alla morte. È un contenitore di pulsazioni ma anche dell’anima. È un tramite, e ci dice ogni giorno chi siamo” (Matteo Bosi). Sentiamo il ticchettio dell’orologio, guardando le sue fotografie. In “Dream” l’orologio è fermo.
Prendiamo un altro esempio: “dream two”. Questa volta la salma, avvolta nel sudario, sembra quasi danzare. Ce lo mostrano non solo le gambe, piegate e incrociate, ma anche il corpo che, seppure nascosto dal telo bianco, ci lascia indovinare la sua torsione, il suo gesto. L’identità è ancora nascosta, mascherata. Ma proprio come “un uomo non è del tutto se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità” (Oscar Wilde), così questo corpo, coinvolto in una danza “funerea” che sembra sciogliersi dai legami temporali, allontanarsi dal reale, ci mostra se stesso, la sua verità, mentre approda in un aldilà senza faccia, oscuro e profondo; l’unica luce rimane quella del sudario che l’avvolge. Una danza che ha dell’inquietante, del mistico, e che ancora una volta sa premere forte i tasti del nostro inconscio.
O ancora “dream one”, che si differenzia dagli altri scatti di questa serie per un particolare a dir poco agghiacciante. La donna è seduta, proprio di fronte a noi. Non sappiamo con certezza se al di sotto del lungo, candido panno, vi sia vita; vediamo il braccio destro scendere lungo il fianco con estrema morbidezza, senza tensioni, privo di forze. Possiamo scorgere un capezzolo comparire sulla superficie del telo, e le costole e i seni, il volto spinto indietro e un poco verso destra. Nudo rimane il fianco destro, nudi rimaniamo noi nell’osservare quest’immagine, come privi di difese; l’impatto è sconvolgente, sembra di essere davanti a un fantasma, ad uno spettro. Interessante la scelta di lasciare, nel bordo in alto della fotografia, il codice della stessa, facendo divenire una serie di cifre e numeri parte dell’immagine. Si tratta di una decisione legata al gusto dell’artista, difatti non è la prima volta che accade nelle foto di Matteo Bosi: si guardi “duality original” e l’effetto polaroid.
In questo scatto è protagonista un busto eretto, stabile, saldo, le braccia alzate e le mani sul volto, e questa volta la negazione dell’identità è più una presa di posizione, che un atto passivo: qui siamo certi che dietro la veste bianca che fascia volto e braccia ci sia respiro, e in corrispondenza del seno, battito. Il messaggio, anche in questo caso, è “afono”, proprio come nella maggior parte degli scatti di Matteo Bosi; vale a dire che il linguaggio è quello del corpo, del gesto, della posizione, del movimento, e non già quello vocale. Non è la parola, ma la “presenza” di queste figure a imprimere profonde sensazioni, a suggestionarci ed entusiasmarci. La donna qui non parla, ma comunica. Lo fa direttamente al nostro inconscio; è da lì che noi ripeschiamo il “messaggio” da lei lasciato per divenirne coscienti e iniziare a rifletterci. Si tratta, quindi, di un legame. È proprio a questo punto che le fotografie dell’artista non ci sono più estranee, ma parlano – non tanto di noi – ma con noi.
Nella serie “dream” siamo quindi di fronte al tema ricorrente della morte, ma anche della danza, dell’identità smarrita; si tratta, in ogni caso, di una visione onirica, facilmente suggerita dal candido pallore dei sudari che diviene elemento costante, ossessivo, e da uno sfondo cupo e nero che ci catapulta, come in un incubo, all’interno della visione “mortale” e suggestiva di queste donne e della loro condizione al di là del tempo e del reale.
Il lavoro di Matteo Bosi inizia con l’idea, lo schizzo a matita; prosegue con la fotografia su pellicola o digitale. I passaggi successivi sono meccanici e manuali fino ad arrivare a photoshop, e poi continua, dopo la stampa, con la pittura, il collage. “Il mio lavoro non è mai finito” dice. Niente è a caso, consciamente o inconsciamente; il tema che l’artista affronta è sempre l’uomo e l’identità che si porta dentro, la mutazione di questi, l’evolversi, il continuare. Come potete vedere osservando le sue collezioni, l’artista riesce sempre ad avvalorare il significato delle sue immagini, a mettere in primo piano il messaggio senza oscurarlo attraverso un’elaborazione grafica troppo severa e mascherante, evitando di eccedere in virtuosismi tecnologici che potrebbero depersonalizzare o appiattire l’opera. “Si può essere ottimi artigiani e ottimi programmatori, ma non per forza artisti” (M.Bosi). L’idea è la radice, il fondamento, l’energia scatenante che ha sente nell’intuizione. Egli considera perciò la tecnologia come un aiuto, uno strumento, ma sempre in funzione di un determinato obiettivo.
L’artista dimostra così, in tutti i suoi scatti, che la grafica, se utilizzata appropriatamente, è in grado di esaltare, rappresentare, visualizzare l’Universo delle idee; l’immagine può parlare al di là del reale, un paesaggio onirico può prender vita, una visione “impossibile” divenire esperienza condivisa: è questa la magia, è questo il miracolo dell’arte. E se guardando l’orizzonte della pittura ci è forse parso non fosse più distante come un tempo, e abbiamo addirittura pensato che tutto fosse già stato provato scoperto ottenuto, ora ecco che la linea del cielo e della terra si sposta miglia e miglia lontano, talmente dal sentirci quasi persi, confusi – ma sempre determinati e fiduciosi – davanti alle potenzialità che l’arte grafica e fotografica ha da offrirci.