Gaza di Kai Wiedenhöfer, al Museo d’Arte Moderna di Parigi
Il mese scorso ho visitato -subito prima della chiusura- Gaza, la mostra di Kai Wiedenhöfer al Museo d’Arte Moderna di Parigi.
Ne ero venuto a conoscenza grazie ad un articolo parso su Liberation, che riportava anche l’occupazione dei locali del museo e le degradazioni perpetuate da un gruppo di estremisti israeliani. Questi infatti, considerando le fotografie esposte come propaganda antisemita, qualche giorno prima della mia visita, hanno invaso le stanze della mostra di Kai Wiedenhöfer impedendo l’esposizione durante qualche tempo. Senza contare poi che il Museo d’Arte Moderna non ha nemmeno citato l’esposizione sul suo sito, cosa di cui si lamenta lo stesso Kai Wiedenhöfer.
Inutile dire come sia scandaloso che possa anche solo avvenire qualcosa del genere, nessuno comunque dovrebbe cercare di mettere il bavaglio agli artisti né tanto meno ai giornalisti. Quello che però mi sembra interessante sottolineare è l’uso strumentalizzato dell’immagine, il ribaltamento totale di significati. Le motivazioni date dagli israeliani per non rispettare i trattati di pace vengono spesso accettate senza fare una piega da tanti rappresentanti delle potenze occidentali, mentre un lavoro come quello di Kai Wiedenhöfer, imparziale al punto da esser quasi glaciale, viene tacciato di propaganda.
Le foto di Kai Wiedenhöfer infatti sono estremamente obiettive, come le didascalie che le accompagnano. Ritratti di persone che hanno subito ferite e menomazioni a causa della guerra e paesaggi di luoghi distrutti. Ritratti sempre frontali, inquadratura spoglia, sempre in interni, contro pareti quasi anonime, sguardo in macchina, foto in posa regolare e spoglia. Paesaggi che sembrano cataloghi di luoghi devastati, foto posate e studiate, estremamente regolari. Didascalie spoglie da ogni sentimento, che raccontano i fatti con glaciale precisione al punto di sembrare le istruzioni tecniche di qualche macchina industriale.
Le fotografie dei ritratti sono terribili. Le persone sono state quasi senza eccezione fotografate mesi o anni dopo esser state ferite, nel senso che portano e porteranno durante tutta la vita i segni dei traumi subiti, ma sono assenti le ferite o le ustioni fresche, che potrebbero essere ancore più impressionanti. Nonostante questo le menomazioni sono spesso gravissime, soprattutto quelle di cui sono vittime i bambini. Molti visitatori non riescono a completare la visita, qualcuno deve addirittura sedersi. La sofferenza, sebbene spogliata dalla componente più emotivamente diretta è evidente. Gli sguardi delle persone ritratte sono duri, durissimi ed è facile immaginare come persone che hanno subito tali attacchi possano avvicinarsi a posizioni estremiste, fino ad alimentare il terrorismo.
Le foto dei paesaggi sono molto diverse. Sempre esterni, quasi sempre col sole, spesso con il mare che fa da sfondo. Si respira tranquillità e un’aria mediterranea di estate e di vacanze, peccato che tutti i soggetti fotografati portino i segni evidenti della distruzione. La maggior parte delle fotografie di Kai Wiedenhöfer mostrano tutte edifici devastati dai bombardamenti, fotografati sempre frontalmente, la macchina perfettamente in bolla. Nella maggior parte dei casi non rimane molto di più che un cumulo informe di macerie, blocchi di cemento dai quali spuntano lunghi tondini d’acciaio che fan quasi sembrare le rovine una scultura contemporanea. Una delle fotografie più impressionanti è quella dell’aeroporto internazionale di Gaza, un deserto da cui spuntano solo due torrette in rovina.
Nelle fotografie di Kai Wiedenhöfer si realizza un perfetto equilibrio fra giornalismo puro e duro e arte figurativa. Il tema di attualità, l’approccio oggettivo, la precisione delle didascalie e delle informazioni testimoniano tutti il desiderio di raccontare una realtà nel modo più chiaro e diretto possibile. Allo stesso tempo l’approccio in stile scuole di Düsseldorf, l’alternanza di ritratti e paesaggi, la quasi astrazione delle rovine sono perfettamente in linea con la fotografia d’arte contemporanea. Inoltre questa dualità dell’opera si iscrive in una dedizione totale di Kai Wiedenhöfer alla sua causa. Il fotografo infatti ha deciso di imparare l’arabo in modo da poter interagire direttamente e umanamente con le persone che ritrae, per potersi far raccontare la loro storia. Ha vissuto diversi anni a Gaza, dove torna ancora regolarmente. Si sposta in moto, alla ricerca di persone e luoghi da fotografare, e posso solo immaginare a mala pena le difficoltà e i rischi che possano derivare da un simile approccio.
A questo punto è per me inevitabile scrivere due parole a proposito della questione etica. Molti critici e opinionisti si lamentano della fotografia di guerra, la considerano pornografica, e lesiva della dignità umana. Ma da dove viene questa idea che la sofferenza vada nascosta perché altrimenti non si rispetta la dignità umana? Ciò che offende la dignità umana sono le guerre, non i fotografi che rischiano la vita per raccontarle. Non rispetta la dignità umana chi non mostra sui quotidiani fotografie come quelle di Kai Wiedenhöfer perché potrebbero “urtare la sensibilità dei lettori”. Ma come dicevo in Adriano Sofri: scegliere di aprire gli occhi alla realtà, che venga urtata e sconvolta la sensibilità dei lettori, nella loro comodità e sicurezza, che abbiano incubi e non possano più levarsi queste fotografie dalla testa, e che se ne ricordino quando votano o quando condividono posizioni interventiste.
Infine, anche la presentazione delle fotografie di Kai Wiedenhöfer essa stessa interessante, e vale la pena sottolinearlo. Le foto di ritratti sono alternativamente orizzontali o verticali, i paesaggi invece orizzontali o panoramici. I formati variano a seconda delle foto, ma l’altezza dell’immagine è sempre di circa 70cm in modo che una volta affiancate le fotografie si ottenga un fascio continuo di fotografie tutte della stessa altezza, cosa che dona una straordinaria unità all’alternanza di ritratti di feriti e foto di edifici distrutti. Ogni foto inserita in una sottile cornice dipinta di bianco ma che lascia ancora intravedere le venature del legno. Stampe tecnicamente di qualità decisamente buona, superiore alla norma per gli standard del giornalismo. Insomma, è evidente la cura dei dettagli e della presentazione, lo studio della disposizione, dei formati, dei dettagli, cosa che purtroppo accade più raramente del dovuto.
Insomma, Gaza di Kai Wiedenhöfer è una mostra da non perdere. Immagini numerose, sensibilità e attualità dei temi trattati, perfetto equilibrio fra giornalismo e arte, onestà intellettuale del fotografo, coinvolgimento personale al punto da determinare profondamente la vita stessa dell’autore, presentazione studiata e interessante, cura dei dettagli.
Vincenzo Scaringi
ha detto, il 9 Gennaio 2011 @ 9:43 pm :
Grazie Fabiano per questa testimonianza quasi in diretta. Da anni continuo a chiedermi se sarà mai possibile fermare questo atroce, lento, crudele genocidio. Non riesco a trovare giustificazioni per il comportamento dei governi israeliani. Non ho nulla contro il popolo di Israele in generale, nè tantomeno contro gli ebrei (a cui forse un poco appartengo), ma la ferocia con cui i soldati dell’esercito israeliano si accaniscono sulla popolazione civile e le giustificazioni propagandistiche sono un’offesa ai principi elementari della convivenza civile.