Camera Obscura » Contributi /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 en hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.3.1 Instant Revival, di Mauro Baldassarri /it/2012/mauro-baldassarri/ /it/2012/mauro-baldassarri/#comments Thu, 22 Mar 2012 17:20:57 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4530
Mauro Baldassarri
© Mauro Baldassarri

Testo e foto di Mauro Baldassarri.

 

Polaroid. Tutto si fa passato così in fretta che io faccio il revival di ieri.

Così cantava nel 1986 Davide Riondino riferendosi a una tecnologia fotografica che a metà degli anni ’80 del secolo scorso poteva ancora a buon diritto dirsi attuale.

“Scatta e rivedi”: l’evoluzione del “voi premete il pulsante e al resto pensiamo noi” di Mr. Eastman cui è stato azzerato il fattore T. Il Tempo, che intercorre fra lo scatto e la visione del risultato finale.

La fotografia entra così nell’era della velocità, della sincronicità.

Le fotografie monumentali, realizzate negli studi, in posa, con l’abito della domenica, avevano già perso la loro sacralità travolte dalla rivoluzione del “rullino” e, prima ancora, da quella della Kodak, ma è il “pack” di Edwin H. Land a proiettare lo scatto dell’otturatore nella contemporaneità.

Con lo sviluppo istantaneo si completa anche il percorso di avvicinamento delle masse alla fotografia, liberata ora anche dall’ultimo ostacolo tecnico che si frapponeva tra lo scatto e la fruizione dell’immagine: lo sviluppo e la stampa. Allo stesso tempo però si compie anche il definitivo allontanamento della fotografia dal “lavoro” del fotografo, funzionale (anche) a determinarne il “valore”.

La cesura più radicale avviene però nei confronti del Tempo, per contrastare l’erosione del quale la fotografia (che “val più di mille parole”) si era alacremente adoperata. Produrre immagini fotografiche, prima ancora di essere Arte, è stata funzione di sostegno al ricordo, alla documentazione, al sentimento: strumento di resistenza allo scorrere del tempo, che cancella la memoria. Rivedere le fotografie era atto diacronico, che si compiva solo a distanza (di tempo, e di spazio): occorreva il tempo tecnico per le operazioni di sviluppo e stampa prima di vedere le immagini prodotte e quindi, sicuramente, sarebbero state viste “altrove” rispetto a dove erano state scattate. Rivedere le immagini diventava quindi anche rinforzo (della memoria, degli affetti).

L’azzeramento del Tempo muta sostanzialmente la prospettiva. Con la Polaroid tutto si fa passato così in fretta. Basta un “click”. Pochi istanti e “l’Istante” appena trascorso è già storicizzato sul quadratino dal bordo bianco, pronto a essere rivissuto, appunto, istantaneamente. Pronto a essere rievocato (forse) nelle ore successive e a essere archiviato (talvolta), insieme agli altri “monumenti” fotografici. Magari per ricomparire, decontestualizzato, dopo qualche anno.

Dopo la Polaroid continua, ora, a bastare un “click”. L’i-coso di turno registra fedelmente il nostro istante in una sequenza di zero e di uno per metterlo immediatamente in condivisione su LCD con chi dell’istante ha partecipato e, poco dopo, con il resto del mondo in rete sociale.
Un click, pallido residuato acustico di un passato elettromeccanico, al quale la contemporaneità digitale si aggrappa alla ricerca di un’identità riconoscibile (pensiamo a quanto ci sembra innaturale non sentire il suono dell’otturatore, al punto che è riprodotto artificialmente nelle compatte).

Tempo, memoria, identità: azzerato il tempo, non serve più l’immagine come rinforzo del ricordo e del sentimento. Cessa quasi anche di essere documento, che in quanto tale è prodotto, prova obiettiva, di un’attività “altra” da quella di conservazione della memoria. Meno che mai è monumento, caratterizzato dalla forte intenzionalità di essere strumento del ricordo e della celebrazione, da tramandare nel tempo futuro.

Elevato all’istantaneo, prima, e al digitale, dopo, l’atto di scattare fotografie si trasforma culturalmente: si fa contemporaneità, compresenza, sincronicità, superandosi, cioè potenziandosi, anche sul fronte della sacralizzazione dei fatti cui la macchina fotografica partecipa attivamente rendendoli “eventi”.
Bastava che in una circostanza data fosse presente una fotocamera per scatenare quella “comune reazione sociale alla presenza della macchina fotografica” che Ortoleva ha ben spiegato. Adesso in ogni momento siamo circondati da obiettivi; ogni istante, o quasi, dell’esistenza è fissato o fissabile. Ogni istante diventa Evento; e ogni evento lascia dietro di sé una scia di immagini.

Le fotografie “presenza feticcio del XX secolo” e “miglior surrogato della presenza reale” vengono quindi quasi a perdere la loro ragione di essere, la loro funzione di supporto, o surrogato, della memoria, sovraesposte, è il caso di dire, letteralmente da loro stesse.

Servono, invece, come rinforzo “qui e subito” dell’identità e dell’esistenza, sempre più smarrite e confuse, in costante pericolo: l’oblio è in agguato.
Siamo (non importa cosa: qui, famosi, belli, vincenti, divertenti); basta un attimo e non siamo più. E allora l’immagine deve essere veloce, a T=0, altrimenti il rinforzo non funziona, diventa memoria, ma quella interessa meno: l’esigenza è adesso.

Se siamo fortunati diventiamo revival, altrimenti ci aspetta l’oblio. Lo sappiamo, e cerchiamo di ignorarlo, ma ci facciamo i conti. E ci scattiamo fotografie.

“Facciamoci la foto” diventa così attività orizzontalizzata nel range di possibilità dell’essere, qui e ora (non tanto diversa, formalmente da “mangiamo un gelato” o “sediamoci li”). E’ facile, non bisogna aspettare per rivederla, è praticamente a costo zero ma è preziosissima nella toolbox emotiva e di straordinaria valenza esistenziale. La fotografia, istantaneità documentale, Diventa atto rassicurante del presente, ci conferma che siamo, adesso (non “eravamo”), proprio li.

E che forse, almeno per oggi, abbiamo speranza di continuare ad essere.

Domani, se tutto va bene, sarà revival.

Suggerimenti fono-bibliografici

  • D. Riondino, Polaroid, in Tango dei miracoli, 1986
  • J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1978, vol. V
  • P. Ortoleva, La Fotografia, in Introduzione alla storia contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1984
  • E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, 1956 – Milano 1967 (Ed. It.)
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The end of the game, di Gianpaolo Arena /it/2011/gianpaolo-arena/ /it/2011/gianpaolo-arena/#comments Fri, 25 Mar 2011 05:10:51 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4380
Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena

Testo di Gianpaolo Arena e Steve Bisson. Fotografie di Gianpaolo Arena.

 

Mi inoltro all’interno del bosco nelle ore iniziali del mattino di una tiepida giornata di novembre. Le foglie e gli alberi sono ancora rigidi e induriti dal tagliente freddo della notte ma alla ricerca del conforto dei primi, esili raggi di sole mattutini. La luce entra debolmente all’interno della fitta vegetazione. La terra è dura sotto i miei piedi.

Guardandomi intorno mi accorgo che gli alberi che formano questo bosco sono piccoli indizi rivelatori di segnali precisi. Subito dopo mi appare chiaro di muovermi in una ragnatela scomposta che collega luoghi, atti e persone. Come le pagine di un libro da leggere ed interpretare, mi aggiro con aria interrogativa cercando di decifrare questi segni, senza però rinunciare all’abbandono momentaneo della suggestione e dell’emotività.

Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena

Tra le maglie di una vaga geografia umana emerge la figura di questo ecosistema chiuso, il Montello, un rilievo collinare che sorge a sud dell’attuale corso del fiume Piave. È stata un’area ferita e segnata dall’inarrestabile corso della storia: nel ’500 ricca riserva di querce per i cantieri navali della Serenissima, nel ’900 teatro di scontri sanguinosi nelle fasi finali della prima guerra mondiale. Luogo frequentemente e lungamente raccontato dai letterati: da monsignor Della Casa che, ospite nella abbazia di Nervesa ora distrutta, scrisse il celebre Galateo, fino a Giovanni Comisso e ad Andrea Zanzotto con il suo Il Galateo in bosco. Nel 1959 è l’ambientazione cinematografica per La Grande Guerra di Mario Monicelli…

Oggi come nel passato è ancora un luogo di insediamenti economici e fitti attraversamenti escursionistici. Un turismo, sia domenicale sia settimanale, lo occupa e lo attraversa con alterna frequenza. Luogo d’eccellenza, per chi rifugge i ritmi della città e desidera trascorrere una giornata all’aria aperta, è abitato da indigeni dalle caratteristiche e dai modi ormai molto simili a quelli dei cittadini inurbati.

I cambiamenti dinamici della storia mi permettono di ripercorrere con la memoria alcune tappe, di afferrare alcuni pezzi di essa, di acquisire conoscenza relativamente alle cose, agli effetti fisici ed ai processi. Sono incoraggiato a sfiorare con la mente ciò che era e ciò che è stato. Ipotesi, ricordi, avvisaglie, testimonianze sono miniature e dettagli che emergono attorno a me mentre cammino tra gli alberi e mi suggeriscono nello stesso tempo un racconto fatto di percorsi, relazioni, trame, esistenze, destini. Cammino nella terra nuda, una terra che è fatta anche di ossa. Le rocce e le pietre descrivono un microcosmo capace di raccontare, senza sbavature, anche altre cose.

Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena

Mentre sono perso nei miei pensieri e mi faccio guidare dalle sensazioni e dal fervore emotivo percepisco l’eco di alcune voci distanti. Mi avvicino seguendone il flusso e vedo un gruppo di soldati in lontananza. Dopo la prima rapida e curiosa occhiata, allungo lo sguardo sulle loro figure e riconosco le sagome di alcuni bambini. Quella strana ed eterogenea aggregazione riunisce persone di varia età ed appartenenza sociale. La loro presenza all’interno di un bosco, la mattina presto, in tempi di relativa pace sociale è abbastanza insolita. Tutti vestiti e accessoriati come militari pronti per la legione straniera. Giacche, pantaloni, anfibi, cinture, occhiali, guanti, coltelli, fucili sono le caratteristiche distintive che superficialmente rendono queste persone un gruppo. Nello stesso tempo però il loro essere individui è reso monocorde e indifferenziato dalle loro divise.

Li seguo mentre si muovono e si sparpagliano nel bosco alla ricerca di spazio, radure, naturali sfoghi fisici al loro desiderio di azione e movimento. Una pista da motocross, durante le giornate primaverili ed estive, è occupata occasionalmente in altro modo. Le ferite inferte alla terra dalle ruote delle moto mutano aspetto e sembianze. L’immobilità e la staticità che caratterizzano la pelle e il corpo di quel luogo, e che lo rendono tale da centinaia e migliaia di anni, diventano movimenti repentini e scostanti. È in atto un cambiamento improvviso e insignificante agli occhi di quel bosco. Comincia una danza involontaria, scomposta e irregolare. È il gioco della guerra. Nello stesso tempo però è la fine del gioco.

Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena

Caino e Abele (di Steve Bisson)

L’uomo cerca la natura, da sempre. Ne fa parte. È un bisogno diffuso, acclarato e indiscutibile. Esso ha innescato nei secoli azioni asimmetriche e processi raramente lineari, talvolta discordanti.

Qualche tempo fa l’amico e fotografo Gianpaolo Arena mi ha chiesto di scrivere un pensiero su una serie di immagini realizzate sul Montello. È un’area collinare i cui boschi hanno fornito, per secoli, la materia prima necessaria per costruire le fondamenta di quella che resta una delle città più straordinarie al mondo: Venezia.

Queste fotografie ritraggono alcuni uomini travestiti da combattenti armati, intenti a personificare una sorta di gioco della guerra. In fondo, chi da piccolo non ha sognato di fare la guerra? Certo i costumi e le armi erano molto meno tecnologici e sofisticati, ma in fondo la nostra visione del mondo da adulti non è poi così lontana da quelle facili distinzioni tra guardie e ladri, tra buoni e cattivi. Le figure di Caino e Abele da sempre dividono la storia a metà.

Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena

Però a guardare bene la faccenda non è così semplice: questi moderni guerrieri sono quasi tutti adulti, non ci sono donne, e la verosimiglianza con i reali soldati maschera qualcosa di inquietante. Si tratta ancora di una simulazione?

Crescendo il gioco diventa “tempo libero”, non è più parte del modo scherzoso e innocuo di vivere la giornata e le relazioni con gli altri. Esso diventa attività marginale e perde l’innocenza e la spontaneità tipica dell’età infantile. Più che di una esibizione di forza si tratta del tentativo di liberare istinti e desideri repressi, o ancora, di sfogare frustrazioni e delusioni.

La natura quindi non è solo uno sfondo, ma torna ad essere la madre che abbraccia, un rifugio dove mimetizzarsi. Questa serie fotografica ci mostra anche la fine del gioco tradizionalmente inteso; ovvero la perdita di naturalezza. Non a caso l’indagine di Gianpaolo Arena si spinge oltre il teatrino inscenato dai rambo della domenica, per ritrarre campi di basket divorati dall’erba e giochi di una volta abbandonati dai bambini divenuti “grandi”. Attraverso questa altalena tra presente e passato possiamo leggere i segni di un’evoluzione in chiave moderna dell’attitudine al gioco. Meno intuito, semplicità e fantasia e più calcolo, malizia e imitazione.

Gianpaolo Arena
© Gianpaolo Arena
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Il Paesaggio Trascurato, di Stefania Figuccia /it/2010/stefania-figuccia/ /it/2010/stefania-figuccia/#comments Tue, 07 Dec 2010 20:23:43 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4240
Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Testo e fotografie seguenti di Stefania Figuccia.

 

L’arcipelago delle Isole Egadi è formato da tre piccole isole a ovest della Sicilia: Favignana, Levanzo e Marettimo. Se durante la stagione estiva esse sono un’ambita meta turistica, e le loro strade sono colme di turisti in cerca di relax e spiagge paradisiache, alla fine di questi tre mesi i ristoranti, gli alberghi e i negozi di costumi chiudono i battenti per riaprire solo l’anno successivo. A quel punto l’immagine dell’arcipelago propagandata dalle agenzie di viaggi e dalle riviste lascia un vuoto che fagocita la vita invernale, proponendo un’estetica univoca non priva di interessi economici.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Dall’assenza di informazioni al riguardo di questo fenomeno è nato il mio bisogno di esplorare le Egadi durante il periodo invernale e di mostrarne un’immagine inedita e più spontanea, l’immagine di un’isola che non è pronta ad accogliere nessuno.

Prima di partire avevo solo un variopinto ricordo dell’Isola nel periodo estivo: gente rilassata, gelati gocciolanti e un silenzioso mare turchese. Ricordavo come si vive un’Isola ad Agosto: ci si alza solo per immergere i piedi in acqua, si prosegue con un caffè, pedalata in bicicletta, pennichella all’ombra e poi di nuovo, si ricomincia. Si termina con la passeggiata in paese, perché in fondo un po’ di pettegolezzi ci vogliono sempre, soprattutto in vacanza. Si sfoggia l’ultimo cappello acquistato in uno dei pochi negozietti presenti sull’Isola, si beve una birra fredda al porto e poi a casa a smaltire l’insolazione mattutina. Insomma, una piacevole e immaginabile routine.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Sapevo che uno stile di vita del genere durava solo tre mesi all’anno, che le ferie finiscono presto e gli aerei del ritorno aspettano deserti nell’aeroporto di Trapani, che a Ottobre l’Isola si svuota e riprende il suo ritmo, strappandosi la maschera patinata e riconquistando così la sua identità e i suoi veri abitanti. Eppure, pur riuscendo vagamente a intuire questa realtà, non l’avevo mai vissuta personalmente.

Volevo tornare dal mio viaggio con un centinaio di immagini spiazzanti, per me stessa e per la gente, che avrebbe così avuto modo di rapportarsi alle Isole attraverso un’estetica nuova, diversa da quella delle guide turistiche, fatta di pioggia e nuvole piuttosto che di spiagge dorate e mari azzurro stile Hawaii: volevo mostrare come si comportano appena il turismo le gira le spalle.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Arrivai così a Favignana, dopo un tormentato viaggio in aliscafo in balia del maltempo. La prima impressione dell’Isola fu indefinibile: non riuscivo a capirla, non riuscivo a inquadrarla in un’ottica definita. Favignana appariva completamente diversa da come l’avevo trovata d’estate. I negozi erano quasi tutti chiusi, ad eccezione dei bar in cui si svolgeva la vera vita dell’Isola, qualche panificio e i due supermercati, uno dei quali esiterei a definire “super”. Le strade la mattina venivano attraversate da gente a piedi o in bicicletta che sembrava avere una qualche occupazione; destra, sinistra, avanti, dietro, su e giù, e così via, innumerevoli volte, sempre le stesse persone. Eppure dopo poco tempo mi viene data la conferma che nessuno di loro sta svolgendo una qualche attività: stanno solo facendo sì che la giornata scorra. Il proprietario del piccolo bar del porto, un grande uomo nato in Sudafrica, mi svela, con non poco sdegno, che la maggior parte dei residenti passa l’inverno con le mani in mano, cercando un lavoretto qua e là, mentre le ditte di costruzione che approdano a Favignana per rifarne il look portano con sé operai stranieri.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

La mattina le donne si mostrano in pubblico per fare qualche acquisto dopo il quale vengono inglobate dalle loro case come insetti da una pianta carnivora. Gli uomini intanto si rilassano e scherzano nei bar fino a ora di pranzo, e poi dal pomeriggio fino a ora di cena. Dalle 17:00 in poi la gente inizia a scomparire e chi resta diventa un fantasma. La luce si dilegua e l’Isola inizia il suo sonno, lontana da sguardi indiscreti. Era proprio quello il momento che mi interessava. Il tramonto non era solo quello del sole: con esso si affievolivano i contorni e le specificazioni, le risposte nette e le idee chiare, mentre il paesaggio si spandeva sopra gli occhi e sotto i piedi.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Si, forse quella che ho avuto è stata una visione eccessivamente romantica delle Isole, che poi è “l’errore” commesso un po’ da tutti i visitatori, il filtro che non permettere di prendere sul serio questi luoghi, perché, si sa, ognuno di noi va sulle isole inseguendone una visione personale, e proprio per questo nessuno riesce a vederle per quello che sono, a riportarsi indietro un’immagine pura di esse.
Avevo appena capito che non sarebbe stato facile realizzare un reportage fotografico, mostrare agli altri le Isole d’inverno, perché anch’io, come tutti, non ero andata lì per impregnarmi di loro, ma per rispecchiarmi con calma in un luogo che me ne lasciasse il tempo e lo spazio. Mi aspettavo un paesaggio “disponibile”. La mia serie iniziava così a mostrarsi per quello che era realmente. Leggere tutti quei tomi sulla storia delle Isole Minori dal paleolitico ad oggi, analizzarne l’immagine proposta sulle riviste, capirne le usanze e le tradizioni, si era trattato solo di una bugia. Scoprirle prigioniere di un passato storico avvincente e violento, sottomesse, sfruttate o premiate da un intricato mosaico di popoli, intuire che si lottò per viverci e vedere come la battaglia ancora continui, non riusciva tuttavia a darmene una visione disinteressata e quasi oggettiva. Fino ad allora mi era piaciuto immaginarle come enigmatici personaggi di una saga, come aspetti del carattere di una sola persona, come luoghi di finzione, ma era proprio questo l’approccio da abbandonare. Intanto continuavo a scattare.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Trovai il luogo perfetto in cui rinchiudermi quando il buio era tale da impedire qualsiasi attività: l’enorme bar ristorante in stile navale che raccoglie i personaggi più avventurosi e mondani dell’Isola. Il gestore si chiama Rino: col suo accento nordico – ha origini torinesi – e l’aspetto tipico del marinaio, Rino accoglie i clienti con un domanda apparentemente scorbutica: “Che vuoi?”. Ma una volta fatta l’abitudine, la sua figura rincuora, soprattutto dopo varie birre.
Non riuscivo più a distinguere i giorni della settimana, il lunedì era uguale al venerdì o alla domenica, così come non distinguevo le 21:00 da mezzanotte.

Camminando la mattina per i vicoli di Favignana, mi imbattei in uno strano fenomeno canoro. Passando davanti alla finestra di una casa, vidi attraverso le tende un uomo con un microfono in mano: in piedi di fronte a una gigantesca tv, stava cantando il testo sullo schermo. Si trattava di quella vecchia canzone di cui non conosco il titolo e che mi cantava sempre mia nonna mentre puliva i piatti. Il ritornello dice più o meno: ”Tu si ‘na malatia…” Mi stavo quasi per commuovere quando, proseguendo la passeggiata, mi ritrovo davanti un’altra finestra, stessa scena, ma stavolta era una ragazza a far sentire all’intero paese la sua voce da usignolo. Il karaoke è una delle passioni locali.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

La mattina della partenza andai al porto che, per la prima volta dopo il mio arrivo, era aggredito da forti onde e da un vento impetuoso. Nel vetro della biglietteria un foglio diceva: “Tutte le corse sono sospese causa maltempo”. Senza più alcuna possibilità di fuga, ho optato per un caffè consolatorio. Davanti al bar un ragazzo dall‘espressione triste, braccia incrociate, sguardo verso l’orizzonte, mi guarda e mi dice qualcosa di incomprensibile. Gli chiedo cortesemente di ripetere e lui risponde, lapidario: “Brutto giorno per uscire dal carcere.”

Nonostante le piccole dimensioni dell’Isola, Favignana ospita infatti un carcere, situato proprio al centro del paese. I turisti non lo notano nemmeno, occupati a godersi la vacanza, ma in inverno le strade vuote e silenziose lo rendono più imponente. L’uomo che avevo incontrato era un insegnante tunisino che, per noia e voglia di avventura, aveva lasciato il lavoro e pagato una bella somma per salire su un barcone diretto a Lampedusa. Dopo essersi ritrovato in un centro per immigrati clandestini si era recato a Como dove, nonostante le forti discriminazioni, era riuscito a trovare un lavoro come operaio: dieci ore al giorno per guadagnare discretamente. Dopo essere stato beccato varie volte senza permesso di soggiorno era stato arrestato e spedito al carcere di Favignana per sei mesi. Nel giorno del nostro incontro al porto era stato appena rilasciato e aveva appena appreso della morte della madre. A causa delle avverse condizioni climatiche, però, non aveva potuto lasciare l’Isola. Disse: “Sono libero e neanche me ne posso andare: e stanotte dove dormo?”

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Avendo già un buon numero di foto di Favignana, decisi di visitare la vicina Levanzo, nella quale non ero mai stata. Avevo però coltivato un’idea felice di quel paesino, frutto di tutte le volte che lo avevo osservato da lontano.

Arrivata li, dopo sei minuti di aliscafo, mi trovai davanti il piccolo porto. Il colore predominante era il bianco e, forse grazie alla splendida giornata, quel posto mi sembrò particolarmente sereno. A dominare la scena era un bar dalle dimensioni esagerate, il bar Arcobaleno. Entrai. Ad accogliermi fu l’anziana signora che gestiva l’attività, anche se “attività” è un eufemismo, dato che sull’Isola non c’era anima viva. Alla mia richiesta di un caffè rispose con un po’ di dispiacere: “Ho spento la macchina del caffè perché tanto qui non c’è quasi nessuno”. Acquistai una coca cola e approfittai di quella pace per scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi raccontò del periodo d’oro di Levanzo, di quando era giovane e sull’Isola c’era vita anche in inverno, della sofferenza per i figli mandati a scuola a Palermo, della famiglia installatasi a Trapani, dell’attuale solitudine e della sua anomala paura del mare, dovuta forse ai medicinali, forse ai suoi 83 anni.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Uscendo dal bar iniziai il mio breve giro per il paese. Nell’arco di qualche ora vidi più o meno una ventina di persone e un piccolo negozio di alimentari, per il resto casette e stradine in salita: il paese è veramente piccolo, tutto il resto dell’Isola è natura. Camminando lungo una strada sterrata a strapiombo sul mare si arrivava al cimitero. Era un luogo di pace, diverso dalle calche di tombe delle grandi città: poche lapidi chiare, tutte decorate da foto di ultra ottantenni, niente bambini, niente giovani, ogni cosa sembrava testimoniare una vita giusta e felice.

Tornando in paese mi informarono del rischio di non poter tornare a Favignana a causa dell’improvviso cambio meteorologico. La mia breve permanenza a Levanzo si concludeva così con una corsa verso l’ultimo aliscafo disponibile e un viaggio di ritorno tormentato ma per fortuna breve. Purtroppo ero riuscita a fare poche foto.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

A differenza delle altre isole, Marettimo mi incuteva timore. La osservavo incuriosita dal faro di Favignana pensando a quando mi sarei trovata li. Cercavo di immaginare il paese e il paesaggio ma non riuscivo a fuggire da un’idea claustrofobica che la sua sagoma nera e altissima mi ispirava. Elevata e a strapiombo sul mare, lontana e spesso inaccessibile a causa della sua posizione, Marettimo è la più selvaggia delle Egadi. Un’Isola ideale per gli avventurosi amanti del mare, meno per le famiglie e per me. Tuttavia non vedevo l’ora di trovarmi li per constatare se la mia impressione aveva un riscontro reale.

Il giorno della mia partenza per Marettimo, svegliandomi avevo trovato una piacevole sorpresa: una splendida giornata di sole e calma piatta. Il viaggio in aliscafo al tramonto fu rilassante e tranquillo, così come l’arrivo.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Davanti l’appartamento che avevo preso in affitto riposava un setter bianco chiazzato, particolarmente simpatico: mi salutò e cercò di saltarmi addosso in uno slancio affettuoso. Durante la prima uscita lo rincontrai quasi subito, e fece la stessa scenetta eccessivamente espansiva. E poi di nuovo, ad ogni giro e vicolo, a ogni traversa, il setter rispuntava in continuazione per farmi festa. Era ubiquo, quel cane! Poi, finalmente, quando mi ritrovai in uno spiazzo aperto e ne vidi un gran branco, capii che non si trattava dello stesso animale, ma di decine di setter uguali. Qualcuno mi spiegò che erano stati portati sull’Isola in quanto cani da caccia ma di razza mansueta e affettuosa. Presto, come molti dei residenti, iniziai a odiare quei cani insopportabilmente simpatici.

Non credevo che il paese fosse così piccolo e i suoi abitanti così pochi. Tutte le strade erano deserte e, di sera, illuminate da luci arancioni, tipo set di Jack lo Squartatore. C’erano due piccoli negozi di alimentari, due bar, un tabaccaio e una macelleria. La gente che non era chiusa dentro casa, all’arrivo di ogni traghetto o aliscafo affrettava il passo per recarsi al piccolo porto e accaparrarsi il posto migliore, cioè una panchina di fronte al mare dalla quale osservare l’attracco dei mezzi. Credo che quello fosse il momento mondano della giornata, quello in cui si commentavano le condizioni climatiche e chi restava si informava su chi partiva o tornava.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Mi accolsero con la faccia sorpresa: “Ma che ci fai qui in questo periodo?” Era come se si vergognassero di mostrare ai “forestieri” la condizione di isolamento in cui vivevano d’inverno. Raccontavano il grande cambiamento che l’Isola affronta nella stagione estiva, quanto è bella e vitale d’estate, come si ripopolano le case adesso abbandonate ai venti. In inverno invece a Marettimo resta chi ci ha passato la vita intera, chi non vuole abbandonarla fino alla fine, ovvero pescatori ormai di una certa età, i pochissimi negozianti, spesso di Trapani, che ogni settimana fremono per scappare sulla terraferma almeno due giorni, e qualche giovane che passa il tempo esattamente come i più anziani: ricordo ad esempio un gruppetto di ragazzine sedicenni sedute al bar a bere caffè e giocare a briscola.

A Marettimo si respira l’aria fresca di montagna e anche il mare ha un altro sguardo, più cupo e ardente. Il paese è concentrato vicino al porto, le case sembrano rannicchiarsi e stringersi una contro l’altra per ripararsi dal forte vento che spesso tormenta l’Isola, ma che la gente del posto sembra tollerare con amore e pazienza.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

Erano trascorsi due giorni e il mio brevissimo soggiorno era arrivato a conclusione, la sveglia aveva suonato senza essere ascoltata e avevo perso l’aliscafo del ritorno. Dopo un iniziale momento di panico decisi comunque di correre con le valigie verso il porto, ma il mio passo fu rallentato dagli sguardi ironici della gente. Tutti, tranne me, avevano intuito che quel vento avrebbe annullato il viaggio di ritorno: quello che avevo perso sarebbe stato l’ultimo aliscafo dei successivi due giorni. Da Marettimo partiva solo un ultimo traghetto qualche ora dopo ma, osservando le onde del mare, preferii aspettare. Rimasi comunque sulla panchina del porto ad osservarlo arrivare (esattamente come faceva la gente del posto): oscillava da un lato all’altro con un movimento che anche a distanza provocava un principio di conato di vomito. Grande idea quella di non prenderlo.
Negli ultimi due giorni ho notato la vita negli interni delle case che, a differenza di quelle di Favignana, sono come tane, sigillate da tende e imposte chiuse. Dagli interni non provengono rumori di alcun tipo, niente musica, niente chiacchiere o discussioni, niente tv ad alto volume. Credo che quello sia il regno solitario delle donne che non ho visto durante quei giorni.

Marettimo è stata la rivelazione di questo viaggio. La immagino sempre lì, in mezzo al mare agitato, a continuare la sua vita con il suo aspetto malinconico e attraente.

Tornando in città risulta difficile continuare a credere che quella realtà continui a esistere, anche lontana dagli occhi; le isole quando non le si vede si dissolvono, sprofondano nel mare e i suoi abitanti con loro.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia

La prova della loro esistenza è data solo da qualche articolo sul giornale che racconta in breve dei difficili collegamenti o dei giorni di isolamento durante i giorni di maltempo.

Le isole sono il luogo della contraddizione, entrambe le facce della moneta. Vi andiamo d’estate per sfuggire alla città, ai problemi sentimentali, alla noia, andiamo per dimenticare e le rendiamo luoghi di libertà, scrigni del sole e del benessere. Ma poi a settembre torniamo alla nostra vita e le abbandoniamo, ignari della loro imminente trasformazione.

“Il Paesaggio Trascurato” non è un reportage sulle Isole Egadi in inverno, ma la testimonianza di un paesaggio censurato in quanto poco commerciale. È il ritratto di una presenza umana che si manifesta solamente come figura fantasmagorica o come luce d’interni, di un mondo in cui sono gli animali a popolare gli spazi.

Stefania Figuccia
© Stefania Figuccia
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Stefano Ruzzante, o della “beauté en abyme” /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/ /it/2010/stefano-ruzzante-beaute-en-abyme/#comments Wed, 30 Jun 2010 06:13:22 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=3861
Stefano Ruzzante
UPCOMING SECRET Model: Isabella 2010
© Stefano Ruzzante

Fotografie di Stefano Ruzzante, testo di Alberto Finotto.

 

Una modella posa e un fotografo scatta.. La magia (se di magia si può parlare) è tutta qui.

(Stefano Ruzzante)

Lo sguardo intimo accompagna Alice fino alla porta segreta, in un respiro di attesa emozionato, con il battito del cuore trattenuto dalla meraviglia. Dopo un passaggio in ombra, è l’occhio desiderante di un nuovo Cappellaio Matto a condurre il gioco dell’innocenza. L’innocenza che arriva al sogno fatato, a una sorta di magia panica che seduce l’osservatore. All’astrazione di un’identità finalmente riconosciuta e pacificata.

Stefano Ruzzante
ARKIZOIC Model: Breath 2009
© Stefano Ruzzante

Stefano Ruzzante è, nel mondo multiverso della fotografia d’arte, il nuovo Cappellaio Matto in un paese di Meraviglie estatiche. Conduce con mano sapiente, nelle sue segrete stanze, la trama di un’épos contemporaneo ancora seducente: l’obiettivo ha desiderato e trovato la modella ideale e la ritrae in una luce di verità sospesa e delicata. L’Icaro è vulnerabile, ma il fuoco ne lambisce appena le ali, con gentilezza, senza interromperne l’arco del volo siderale. Ma l’épos dove accade? Quali terre sorvola e comprende nella sua ellisse di pensiero e azione espressiva? Il luogo di poesia creato da Ruzzante assume lo spazio di una stanza vuota, consunta dagli anni e ancora abitata dai fantasmi del sentimento; si tramuta in una vasca d’acqua lucente, ornata da un contrappunto di petali, come fosse un ninfeo; finisce negli anfratti immacolati di una cucina hi-tech, e, ancora nelle trame d’acciaio di un’installazione concettuale. Per finire nei colori del buio, nel baluginare di corpi avocati alla tenebra, in frammenti di pelle lunare evinti alla plasticità dei tessuti. È in questo luogo che si rivela, alfine, la poesia: ospite inattesa e sperata, specchio disvelatore di un eterno femminino che ricerca, inesausto, la sorgente perenne dell’élan vital.

Stefano Ruzzante
A BOX FULL OF NOTHING BUT YOU Model: Genny 2009
© Stefano Ruzzante

Se guardiamo alle immagini luminose tratte dall’opera “Almost Gold” – con la modella Breath come protagonista – ci accorgiamo di uno strano fenomeno. La connotazione materica dell’ambiente si stempera nella sensualità della donna-archetipo, creando un effetto quasi magico, senza dubbio spirituale. Un effetto ripreso nei paesaggi arcani di “Arkizoic”, episodio realizzato nell’atelier di Duilio Forte, sfruttando lo spazio creativo post-industriale rivisitato dall’artista designer. Anche in questo caso Breath, musa prediletta da Ruzzante, è un mito sostanziale alla realtà – o, meglio, alla sua rilettura poetica -, l’angelo caduto sulla terra del fuoco e del ferro, una terra del sogno che chiede di essere conosciuta, riportata alla dimensione del tangibile, di una fruibilità immaginifica del qui e ora.

Stefano Ruzzante
ENTOMOLOGIA Model: Naixia 2009
© Stefano Ruzzante

Senz’altro, la dimensione favorita del fotografo milanese è quella dell’incontro, dell’attimo che scaturisce, puro, da un rapporto fondato sulla fantasia condivisa, trasformata in elemento di reciprocità. L’”Upcoming Secret” di Isabella – altra modella dall’aspetto tizianesco, quasi ieratico – porta alla loro propria disvelazione i frammenti di un simbolismo provocante, mai programmatico, omogeneo a un’idea di eros futurista (seguendo una delle direttrici tematiche cardine del lavoro di Ruzzante). A volte, viene da pensare al caleidoscopio poetico di Lewis Carroll: vi si trova la stessa aria allusiva, di monito all’innocenza di volare nell’universo indicibile con la mente e con lo sguardo. Un monito lanciato con la massima libertà, nella convinzione nicciana che “tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva e il tempo stesso è un circolo” (Also sprach Zarathustra).

Stefano Ruzzante
COLDER THAN THE COLDEST WINTER Model: Excel 2009
© Stefano Ruzzante

Il rapporto con tra Ruzzante e la modella coinvolge anche il rapporto di entrambi con lo spazio e gli oggetti della quotidianità. Ruzzante conosce i codici di un nuovo naturalismo estetico, con tutta l’importanza attribuita alla tecnologia e a una sorta di “profilo della modernità”. L’immagine tratta da “Maryssa in the kitchen” è quella di una farfalla nel suo ambiente artificiale/naturale, ormai accettato come spazio di un volo libero contemporaneo. Ci soccorre, a questo proposito, una reminiscenza cinematografica. Quando il protagonista del film “Dillinger è morto” (di Marco Ferreri) cerca di riappropriarsi di un rapporto sensato con l’ambiente iperrealistico che lo circonda, trova soltanto la morte e l’inutilità di ogni speranza. Al contrario, la soluzione catartica di Ruzzante è quella del gioco con lo spazio, lontano da ogni tentazione macabra, pervaso da un sentimento di “curiosità ottimistica” e stupita. D’altra parte, il movimento e l’occhio della modella tradiscono l’appagamento dell’attimo, la coscienza quasi di un mutuo riconoscimento e dell’accettazione del gioco.

Stefano Ruzzante
SOMETIME Model: Breath 2008
© Stefano Ruzzante

Gli elementi ispiratori di Ruzzante richiamano, anche, il surrealismo e la libera associazione. Come se Man Ray, improvvisamente, avesse deciso di non rinunciare all’”estetica della narrazione”, accostando l’identità della modella agli automatismi della psiche, e seguendo, “dietro lo specchio” di un simbolico tableau vivant, la vicenda sentimentale del soggetto.

Il rapporto di Ruzzante con le sue modelle si svolge nella corrente di una complicità superiore, nell’accordo tacito di una promessa finale: tu mi dirai, alla fine, che cosa sono; cercherai ancora, dentro di me, la linfa vitale del sogno, corrotta e inaridita ma ancora inessicabile dalla necrosi del mondo. Oppure, mostrerai allo stesso mondo, come una sfida, la malinconia della mia bellezza, l’amore che mi svela e mi consuma, la dolce caduta e la risurrezione che tu solo hai reso possibile.

Stefano Ruzzante
ARKIZOIC Model: Laetitia 2009
© Stefano Ruzzante

Arkizoic, Breath, Secret, Excel, Vanesia, Naixa sono le denominazioni di altrettante “stanze” e identità femminili che trascorrono nella poesia di Ruzzante. Un accenno, fondamentale, all’universo fetish connaturato alla fotografia dell’artista: può fornire un dispositivo di trasgressione ma ne costituisce, anche, la necessaria sprezzatura. La rappresentazione è quasi discreta, lontana dal rischio di una teatralità estrema che potrebbe apparire, ormai, afona e ridondante. La trasgressione di Ruzzante è vicina, piuttosto, a una mise en abyme della passione; ossessiva, scabrosa, volutamente scevra da compromessi fané e da ipocrisie intellettuali. Testimonianza totale di un artista che non intende rinunciare alla sua missione primigenia: una ricerca, eterna e immaginifica, della bellezza assoluta.

Essi dimorano nel Paese delle Meraviglie;
Sognano mentre i giorni passano,
Sognano mentre le estati si dileguano.

Mai vengono trasportati dalla corrente…
Ma, immobili, indugiano nel barlume d’oro…
Cos’è la vita, se non un sogno?

(Lewis Carroll, Through the Looking Glass)

Stefano Ruzzante
SECRET V 2009
© Stefano Ruzzante
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Dream, di Matteo Bosi /it/2009/matteo-bosi/ /it/2009/matteo-bosi/#comments Mon, 22 Jun 2009 13:47:12 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2121
Matteo Bosi
Dream © Matteo Bosi

Fotografie di Matteo Bosi, testo di Gianluca Bosi.

 

Nell’immagine “Dream”, tratta dalla collezione “Obsession”, Matteo Bosi ritorna ad una fotografia in cui l’intervento digitale è limitato al massimo, e lo scatto ottiene subito un effetto drammatico e “mortale”. Vediamo un cadavere, avvolto in un pallido sudario, il braccio esanime disteso, ma il volto non vediamo. Questa scelta è frequente nelle opere dell’artista, che ora cerca nell’identità nascosta una rivelazione, ora trova nella carne e nella corporeità dell’uomo la sua visione più oscura, doppia e animale.

Ma qui la nudità accompagna la fragilità, qui il corpo è solo, abbandonato nelle sue spoglie delicatamente, tragicamente. Può forse riportarci alla linda purezza di una fanciulla del Canova, ma non sta portando una coppa né un’anfora ora. Ora è morta. E l’effetto che ha su di noi è così essenziale, così chiaro il messaggio, nello sfondo non v’è colore o figura che possano distoglierci dal guardare, colpiti nel profondo, questa donna esangue, e ci riguarda così nel profondo in quanto esseri mortali, che con un brivido caldo possiamo accorgerci che dentro noi uno spazio resta vuoto. Forse perché qualcosa se ne è andato, forse perché non avevamo mai notato quest’assenza in noi. La morte siamo noi. Non esclusivamente, certo; siamo movimento, vita, rinascita, sviluppo, evoluzione, trasformazione (tutto questo è rappresentato in numerosissime opere dell’autore). Ma qui, dirimpetto a questa donna che non è più con noi, ma altrove, sentiamo che una parte di noi con lei rimane, si sdraia al suo fianco, tra il fianco morbido e freddo ed il braccio, per rimanere lì. Delicatamente. “Il corpo è un contenitore, un orologio biologico. Ti richiama continuamente alla vita ma anche alla morte. È un contenitore di pulsazioni ma anche dell’anima. È un tramite, e ci dice ogni giorno chi siamo” (Matteo Bosi). Sentiamo il ticchettio dell’orologio, guardando le sue fotografie. In “Dream” l’orologio è fermo.

Matteo Bosi
Dream two © Matteo Bosi

Prendiamo un altro esempio: “dream two”. Questa volta la salma, avvolta nel sudario, sembra quasi danzare. Ce lo mostrano non solo le gambe, piegate e incrociate, ma anche il corpo che, seppure nascosto dal telo bianco, ci lascia indovinare la sua torsione, il suo gesto. L’identità è ancora nascosta, mascherata. Ma proprio come “un uomo non è del tutto se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità” (Oscar Wilde), così questo corpo, coinvolto in una danza “funerea” che sembra sciogliersi dai legami temporali, allontanarsi dal reale, ci mostra se stesso, la sua verità, mentre approda in un aldilà senza faccia, oscuro e profondo; l’unica luce rimane quella del sudario che l’avvolge. Una danza che ha dell’inquietante, del mistico, e che ancora una volta sa premere forte i tasti del nostro inconscio.

Matteo Bosi
© Matteo Bosi
Matteo Bosi
Dream one © Matteo Bosi

O ancora “dream one”, che si differenzia dagli altri scatti di questa serie per un particolare a dir poco agghiacciante. La donna è seduta, proprio di fronte a noi. Non sappiamo con certezza se al di sotto del lungo, candido panno, vi sia vita; vediamo il braccio destro scendere lungo il fianco con estrema morbidezza, senza tensioni, privo di forze. Possiamo scorgere un capezzolo comparire sulla superficie del telo, e le costole e i seni, il volto spinto indietro e un poco verso destra. Nudo rimane il fianco destro, nudi rimaniamo noi nell’osservare quest’immagine, come privi di difese; l’impatto è sconvolgente, sembra di essere davanti a un fantasma, ad uno spettro. Interessante la scelta di lasciare, nel bordo in alto della fotografia, il codice della stessa, facendo divenire una serie di cifre e numeri parte dell’immagine. Si tratta di una decisione legata al gusto dell’artista, difatti non è la prima volta che accade nelle foto di Matteo Bosi: si guardi “duality original” e l’effetto polaroid.

Matteo Bosi
Duality original © Matteo Bosi

In questo scatto è protagonista un busto eretto, stabile, saldo, le braccia alzate e le mani sul volto, e questa volta la negazione dell’identità è più una presa di posizione, che un atto passivo: qui siamo certi che dietro la veste bianca che fascia volto e braccia ci sia respiro, e in corrispondenza del seno, battito. Il messaggio, anche in questo caso, è “afono”, proprio come nella maggior parte degli scatti di Matteo Bosi; vale a dire che il linguaggio è quello del corpo, del gesto, della posizione, del movimento, e non già quello vocale. Non è la parola, ma la “presenza” di queste figure a imprimere profonde sensazioni, a suggestionarci ed entusiasmarci. La donna qui non parla, ma comunica. Lo fa direttamente al nostro inconscio; è da lì che noi ripeschiamo il “messaggio” da lei lasciato per divenirne coscienti e iniziare a rifletterci. Si tratta, quindi, di un legame. È proprio a questo punto che le fotografie dell’artista non ci sono più estranee, ma parlano – non tanto di noi – ma con noi.

Nella serie “dream” siamo quindi di fronte al tema ricorrente della morte, ma anche della danza, dell’identità smarrita; si tratta, in ogni caso, di una visione onirica, facilmente suggerita dal candido pallore dei sudari che diviene elemento costante, ossessivo, e da uno sfondo cupo e nero che ci catapulta, come in un incubo, all’interno della visione “mortale” e suggestiva di queste donne e della loro condizione al di là del tempo e del reale.

 

Matteo Bosi
© Matteo Bosi

Il lavoro di Matteo Bosi inizia con l’idea, lo schizzo a matita; prosegue con la fotografia su pellicola o digitale. I passaggi successivi sono meccanici e manuali fino ad arrivare a photoshop, e poi continua, dopo la stampa, con la pittura, il collage. “Il mio lavoro non è mai finito” dice. Niente è a caso, consciamente o inconsciamente; il tema che l’artista affronta è sempre l’uomo e l’identità che si porta dentro, la mutazione di questi, l’evolversi, il continuare. Come potete vedere osservando le sue collezioni, l’artista riesce sempre ad avvalorare il significato delle sue immagini, a mettere in primo piano il messaggio senza oscurarlo attraverso un’elaborazione grafica troppo severa e mascherante, evitando di eccedere in virtuosismi tecnologici che potrebbero depersonalizzare o appiattire l’opera. “Si può essere ottimi artigiani e ottimi programmatori, ma non per forza artisti” (M.Bosi). L’idea è la radice, il fondamento, l’energia scatenante che ha sente nell’intuizione. Egli considera perciò la tecnologia come un aiuto, uno strumento, ma sempre in funzione di un determinato obiettivo.

L’artista dimostra così, in tutti i suoi scatti, che la grafica, se utilizzata appropriatamente, è in grado di esaltare, rappresentare, visualizzare l’Universo delle idee; l’immagine può parlare al di là del reale, un paesaggio onirico può prender vita, una visione “impossibile” divenire esperienza condivisa: è questa la magia, è questo il miracolo dell’arte. E se guardando l’orizzonte della pittura ci è forse parso non fosse più distante come un tempo, e abbiamo addirittura pensato che tutto fosse già stato provato scoperto ottenuto, ora ecco che la linea del cielo e della terra si sposta miglia e miglia lontano, talmente dal sentirci quasi persi, confusi – ma sempre determinati e fiduciosi – davanti alle potenzialità che l’arte grafica e fotografica ha da offrirci.

Matteo Bosi
© Matteo Bosi
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Stein Café Salisburgo, di Gabriele Rigon /it/2009/gabriele-rigon/ /it/2009/gabriele-rigon/#comments Mon, 11 May 2009 05:30:16 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=1716 Gabriele Rigon

Scrivendo a proposito delle fotografie di Gabriele Rigon è inevitabile pernsare subito alle eleganti foto di glamour e di nudo, inno alla bellezza femminile allo stato puro, modelle stupende, così belle da sembrare quasi ultraterrene, sguardi ammalianti, forme perfette. Il tutto in un riuscitissimo bianco e nero, classico e raffinato. Nell’articolo che ha scritto per Camera Obscura però Gabriele Rigon ha preferito parlarci di qualcosa che mi sarei meno aspettato: la storia di un ritratto che gli è particolarmente caro.

Testo e fotografie seguenti di Gabriele Rigon.

 

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Faccio fotografia per passione, il mio vero lavoro è di essere un pilota di elicottero per l’Esercito Italiano. Ho cominciato a scattare fotografie durante le missioni militari di pace che mi hanno portato in molte delle zone calde del nostro pianeta. Cresciuto pertanto come fotografo di reportage, le mie immagini sono state una testimonianza visiva dei recenti conflitti quali la Namibia, il Kurdistan, l’Albania, la Somalia il Libano, la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan.

Le due immagini di reportage che accompagnano l’intervista sono state realizzate a Kabul, durante una mia recente missione La prima foto è una mamma con i suoi figli presso un piccolo ambulatorio medico realizzato dai soldati italiani, la seconda immagine è scattata in una strada di Kabul. È un immagine che racconta a modo suo la sensualità delle donne di Kabul.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Negli ultimi quindici anni, quando sono in Italia, i miei interessi fotografici si sono spostati allo studio del corpo e della bellezza femminile, questo credo faccia parte di un percorso in cui ogni fotografo cerca un proprio genere ed uno stile. Devo anche confessare che rispetto al reportage il genere glamour è senz’altro più accattivante.

Queste immagini rappresentano perfettamente il mio stile. La prima fotografia che accompagna l’articolo è stata realizzata in una semplice camera d’albergo, e la modella si stava riposando mentre io scaricavo le foto. L’immagine qui sotto invece è stata realizzata su una spiaggia al tramonto, anche in questa foto mi piace la semplicità nella posa, ed è esattamente quello che cerco nella fotografia. Qualcuno ha scritto che cerco sempre l’attimo più insignificante, per scattare le mie foto, ma è anche vero che è proprio in quell’attimo che si riesce a ritrarre la naturalezza della modella.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Dopo anni di nudo artistico sto cercando un nuovo stile, sempre legato alla bellezza femminile, alla sensualità, ma non necessariamente nudo, ecco il motivo per cui in questo breve articolo vorrei parlare di ritratto.

Di solito non lavoro in studio, utilizzo maggiormente locations occasionali, e se ho a disposizione una modella cerco di creare immagini semplici lasciandomi coinvolgere dalla situazione del momento, come per esempio questi scatti che ho realizzato a Salisburgo con una carissima amica di nome Tanja che ha posato per me.

Ho conosciuto Tanja durante un lavoro fotografico in Ungheria, lei non è una modella ma era l’assistente di un fotografo Austriaco. Mi meravigliai di scoprire che non si era mai fatta fotografare, e quasi per scommessa le chiesi se potevo realizzare con lei alcune fotografie per un libro.

Uno dei posti più belli in cui ho fotografato Tanja è dove lei vive e lavora, Salisburgo.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Salisburgo è una città dalla singolare bellezza, conosciuta universalmente come “la Città di Mozart”, con il suo tradizionale Festival e i suoi significativi eventi Teatrali raccoglie ogni anno un milione di turisti da tutto il mondo. Ho avuto la fortuna di trascorrere a Salisburgo un paio di giorni ospite a casa di Tanja, e ho voluto approfittarne per realizzare qualche scatto di moda, semplicemente passeggiando per le vie di Salisburgo, con la mia macchina fotografica e l’elegante bellezza della mia modella. È davvero emozionate poter scoprire le bellezze della città, guidato dalla mia musa Tanja che, oltre a farmi da guida turistica, è anche la mia modella.

Purtroppo il tempo non era dei migliori e un improvviso temporale estivo ci ha costretto a cercare riparo da qualche parte. I posti non mancano, Salisburgo è piena di Caffetterie storiche, di ristoranti assai conosciuti, ma uno in particolare è davvero fantastico, ed è il famoso “Stein Café” dell’omonimo Hotel che, con la sua terrazza all’ultimo piano di un palazzo, sovrasta l’intero centro storico della città con una veduta mozzafiato.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Si accede allo “Stein Cafè” attraverso l’ascensore dell’hotel, il locale, oltre ad avere una parte al coperto, offre la possibilità di accedere ad una terrazza con dei tavolini da cui è possibile ammirare un paesaggio meraviglioso.

Purtroppo… o per fortuna, la terrazza è spazzata dalla pioggia e dal vento, per cui siamo riusciti a prenotare un tavolino all’interno, e dopo aver ordinato qualcosa di caldo, mi è venuta l’idea di fare un paio di scatti. Ho chiesto a Tanja di andare in bagno a mettersi un abito bianco lungo, e nel frattempo ho chiesto al direttore del locale di poter fare un paio di scatti a Tanja mentre era seduta al tavolino. Lo stesso direttore, sorpreso della mia richiesta, ma ha detto che avrei dovuto chiedere in anticipo tale autorizzazione al direttore artistico dell’hotel Stein, ma quando ha visto arrivare la mia modella con un abito simile ad una sposa, non ha avuto altre parole, mi ha solamente chiesto discrezione, e di essere molto rapido.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Fantastico, ero riuscito ad ottenere un permesso di tre minuti per pochi scatti, ed ho cominciato con un paio di ritratti semplici mentre Tanja beve il caffè. Ho poi pensato di uscire sulla terrazza e fotografarla attraverso il vetro, per dare l’idea di foto rubate.

Negli scatti di questa breve sequenza ci sono gli elementi che volevo, la sensualità di Tanja, ma anche l’idea di relax, dei piacere, lo stesso piacere che si prova quando si bene un buon caffè.

Sono stati tre minuti davvero intensi, con pochi gesti mimati attraverso il vetro ho chiesto a Tanja di posare come volevo io, il risultato è stato davvero affascinante. Ho raccolto un’intera sequenza in cui la bellezza e la sensualità di Tanja hanno fatto il resto.

Tutto ciò mi ha fatto capire che nessuno ha il coraggio di dire di no di fronte ad una elegante modella e l’obiettivo di un fotografo, dico solamente che nel pomeriggio, con la stessa faccia tosta, sono riuscito a fotografare Tanja nella “concierge” dell’hotel “Sacher “ con tanto di vicedirettore che mi suggeriva le stanze storiche come locations per le foto.

Gabriele Rigon
© Gabriele Rigon

Il giorno successivo sono tornato con Tanja allo “Stein Cafè”, ho regalato al direttore un CD con le foto ritoccate in alta risoluzione, inutile dirvi che mi ha offerto da bere e mi ha detto che avrei potuto fare altre foto quando volevo.

Ho scelto queste foto per raccontare questa semplice storia, ritratti di Tanja mentre mi osserva con la tazza in mano, o mentre parla con il cameriere. Sembrano quasi ritratti rubati, anche se il tutto è costruito come descritto nel testo.

Le fotografie sono digitali, scattate in bianco e nero, per restituire quel tocco di eleganza delle tipiche immagini degli anni sessanta, gli evidenti riflessi del vetro non sono un disturbo, anzi, danno una forza maggiore all’immagine, un fascino particolare.

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Fade to White, di Charlie Simokaitis /it/2009/charlie-simokaitis/ /it/2009/charlie-simokaitis/#comments Sat, 28 Feb 2009 20:40:52 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2603 Charlie Simokaitis

Charlie Simokaitis è il primo fotografo che ha risposto al mio appello di approfondire il discorso sulla fotografia, scrivendo un lungo e dettagliato articolo a proposito del suo portfolio Fade to White.

Una splendida serie -stimolata dalla sua situazione personale- di fotografie in grande formato di persone cieche e delle loro vite. Fotografie narrative condite con un pizzico di ironia, ma allo stesso tempo con tanta empatia e rispetto per le persone fotografate. E poi soprattutto situazioni umane, persone, vite estremamente toccanti. Grazie Charlie per averci raccontato tutte le storie dietro alle immagini, credo che davvero questo aggiunga una dimensione aggiuntiva alle tue bellissime fotografie.

Testo e fotografie seguenti di Charlie Simokaitis.

Fade to White

Vivo tra vaghe forme luminose che non sono ancora tenebre.
Borges, “Ode alle tenebre”

Charlie Simokaitis
© Charlie Simokaitis

Sono sempre stata attirato dalla finzione, e ringrazio di questo il gesuita che ha messo fra le mie mani una copia di “La Peste” di Camus quando avevo 14 anni. Inoltre, dopo aver visto molte rappresentazioni delle opere di Samuel Becket, e più in particolare “Happy Days”, anche “Il Teatro del assurdo” ha per una particolare risonanza. Quindi, quando ho intrapreso questo recente progetto intitolato “Fade to White”, in cui fotografo soggetti non vedenti, ho cercato di inserire una elemento fittizio in più, rispetto a ciò che più frequentemente è stato un soggetto documentarista o “neutralista.” Ho voluto rispondere a queste tradizioni raccontando una storia all’interno di una storia, pur mantenendo l’empatia e il rispetto verso i soggetti fotografati. Migliorando il dialogo in questo modo, il mio unico desiderio è onorare i mio modelli collaborando con loro.

Le fotografie dei ciechi spesso sono più in linea con la fotografia di strada, tuttavia, per questo progetto ho voluto che la comunicazione svolgesse un ruolo centrale nella creazione di queste immagini, rimettendo in discussione i modi in cui uno si aspetta che le persone non vedenti vengano rappresentate in fotografia. Inoltre, ho voluto fare riferimento agli effetti della perdita della vista, rendendo l’atto di vedere/guardare più deliberato, tramite l’uso di una macchina grande formato, e lenti che, per gli standard moderni, sono un compromesso qualitativo. Nel tentativo di articolare con loro come i miei modelli appaiano attraverso il vetro smerigliato, ero profondamente umiliato dal fatto che alcuni dei miei soggetti fossero nati ciechi, rendendo la mia descrizione irrilevante. L’uso della fotocamera grande formato è un riferimento alla fotografia del passato e ai tanti esempi di come le persone non vedenti venivano fotografate storicamente, così come un riferimento ai “quadri fotografici” che erano di moda durante i primi anni della fotografia. Ho allora aggiunto una componente di finzione o modificato molte delle scene, mettendo in discussione, forse in modo irriverente, le aspettative di quello che una fotografia di una persona cieca dovrebbe essere e incorniciando questo lavoro come una forma di ritrattistica narrativa e dalla forma cangiante.

Charlie Simokaitis
© Charlie Simokaitis

Dopo aver visto le immagini dei ciechi di fotografi come Strand, Arbus, Winograd e DiCorcia, ho voluto affrontare il feticismo di altre persone della percezione del dolore e il tabù e la tacita responsabilità di rappresentare una persona cieca. Arbus è stato spinto a fotografare i non vedenti “perché non si può falsificare le loro espressioni. Non sanno come sono le loro espressioni, quindi non vi è alcuna maschera.”

Visto che mia figlia Faye sarà presto cieca lei stessa, ho voluto conoscere le persone che vivono in questa condizione. L’ho fatto scrivendo un annuncio e facendolo circolare attraverso un contatto al Faro di Chicago per i ciechi e in seguito alla Lega di Oklahoma per i ciechi.

In ultima analisi, dopo aver letto questo annuncio, tutti i miei modelli mi hanno contattato con l’intenzione di essere fotografati. Oggi continuo a seguire la mia strada attraverso una lunga lista di persone non vedenti interessate a essere ritratte e ho iniziato a fotografare molti dei miei modelli una seconda volta.

Charlie Simokaitis
Senza titolo, (Donald Hansen)
© Charlie Simokaitis

In questa immagine fatta ad Oklahoma City, ho rimosso il mio soggetto Donald Hansen dal suo ambiente di lavoro reale, in questo caso un ufficio, posizionandolo in questo fabbricato, una centrale elettrica. Ho poi ingaggiato un attore cieco per recitare in una fotografia di un “altro” immaginario, un ragazzo di nome Gary che lavora in una centrale elettrica e che sta andando a pranzare. Con questo sotterfugio invertito l’inganno si svolge nelle mani della persona cieca, di cui lo spettatore ha già tratto le sue ipotesi basate sul tema della cecità. Sfruttando giocosamente il soggetto, la sua cecità che, in virtù della canna bianca, impregna tutta la sua persona, ho cercato di rendere più visibile un uomo cieco, di creare un icona del genere. Ecco, questa è Oklahoma City nel mese di giugno – in una centrale elettrica. C’erano probabilmente 40 gradi e molto rumore. Come Don non poteva vedere o sentire non ho smesso di correre sulla scena per dirigerlo. Un uomo di poche parole, Don ha trovato la cosa molto divertente.

Charlie Simokaitis
Senza titolo, (Mary Abramson)
© Charlie Simokaitis

Nel libro di James Kelman, “Come è tardi, come è tardi”, misteriosamente e improvvisamente il protagonista cieco fa di necessità virtù e costruisce una canna bianca tagliando una vecchia scopa con una sega. Lo fa in modo che altre persone sappiano il motivo per cui brancola e barcolla di qui e di là quando gira per le strade della città di Glasgow, in Scozia. La persona in questa foto si chiama Mary Abramson ed è rappresentata con una canna bianca lunga più di 3 metri e mezzo, fatta con un tassello di legno. Maria è una educatrice che appoggia l’uso della canna bianca e una fedele sostenitrice della vita indipendente per i non vedenti. Come tanti altri membri della Federazione Nazionale per i Ciechi, Maria utilizza diversi stili di canne, che spesso possono essere altrettanto alte che chi le usa. Ovviamente, la canna bianca in questa foto è assurdamente lunga. Quando ho discusso lo scatto con Mary era molto soddisfatta del tono irriverente dell’immagine. Una cosa da sottolineare è che i membri della Federazione sono impegnati con fervore nella politica sulla cecità, come evidenziato da un recente successo in un contenzioso contro AOL, il cui servizio on-line è stato ritenuto estremamente difficile da usare per le persone con problemi di visione. Inoltre, la Federazione ha fatto varie dichiarazioni sulla rappresentazione negativa di persone non vedenti in film di Hollywood. Com’era prevedibile, il rilascio degli ultimi anni del film “Cecità”, basato sul libro vincitore del Premio Nobel di José Saramago è stato biasimato al momento dell’uscita da parte della Federazione. Detto questo, è stato con una certa conoscenza di ciò che è o non è politicamente corretto tra i non vedenti “illuminati”, che l’immagine è stata scattata.

Charlie Simokaitis
Senza titolo, (Steven Herrera)
© Charlie Simokaitis

Steven Herrera aveva 25 anni, quando, da un tipico giovane laureato con un nuovo lavoro, una casa e un’auto è stato trasformato involontariamente in un uomo cieco, durante un’unica notte. I medici sono ancora perplessi sul suo caso e come la retina di Steve si sia staccata mentre dormiva, rendendolo non vedente al 99%. Alla fine Steven è tornato da sua madre, dove ha vissuto negli ultimi 10 anni. Quando Steven è stata colpito dalla cecità ha trascorso mesi a letto, per paura di avventurarsi fuori della sua camera e il rifiuto di credere che la sua visione non riapparisse miracolosamente e improvvisamente così come era scomparsa. Il suo racconto di svegliarsi al mattino prima della sveglia e tentare di guardare intorno nello spazio buio che un tempo era la sua camera da letto è veramente raccapricciante. Una volta trasferitosi dalla madre, questa -prima di andare al lavoro- non solo deve preparare la prima colazione, ma deve lasciare sul comodino accanto al letto anche il pranzo. Una settimana prima del mio arrivo ad Oklahoma per questo scatto, un uomo era arrivato in macchina fino a dove Steven aspettava l’autobus e gli aveva offerto un posto di lavoro. In questa immagine la madre di Steven è un riferimento alla Madre in generale, che guarda verso il cortile per assicurarsi che i bambini che stanno giocando fuori sono contenti e in sicurezza. Catturato nel riflesso del vetro della porta posteriore, Steven è letteralmente e figurativamente il bambino nel cortile.

Charlie Simokaitis
Senza titolo, (Timothy Paul)
© Charlie Simokaitis

Timothy Paul gioca a “baseball cieco”, in cui tutti i partecipanti hanno gli occhi bendati (per, come si dice, “livellare il campo”, visto che molte persone non vedenti possono comunque vedere forme, ombre, e così via) e una palla che emette suoni è lanciata verso i giocatori. Se il battitore colpisce la palla con successo, una delle due basi che emettono suoni segnala al corridore in che direzione correre. La parte affascinante è che in quanto corridore devi correre a piena velocità nel buio totale. Come nel film di Harmony Korine “Gummo”, che fonde con successo personaggi della vita reale e realtà con gli elementi a carico di un intervento artistico, anch’io ho trovato il mio conforto in uno spazio ambiguo tra realtà e finzione. Detto ciò, ho uno sguardo olistico rispetto a questo progetto, ogni immagine è simile a una scena di un film. Elementi o personaggi che, in primo luogo appaiono incongrui, mano a mano che il film va avanti diventeranno motivi precisi.

Charlie Simokaitis
Senza titolo, (Robert Thompson)
© Charlie Simokaitis

Lo scorso anno ho visto “Frammenti” di Becket, regia di Peter Brook, la cui forte illuminazione e la coreografia, per non parlare dell’incredibile filone di emotività e di umorismo, sono citati in molti dei miei ritratti di ciechi. Quando ho incontrato per la prima volta Robert Thompson, mi ha salutato nella hall del suo palazzo e prima che potessimo dirci nulla mi ha consegnato un paio di bicchieri di carta, con un piccolo foro di 5 gradi. Questi occhiali sono stati creati per riprodurre gli effetti della Retinitis Pigmentosa, che si traduce di solito nel restringimento del campo visivo a partire dalla periferia. Siamo poi andati a fare una passeggiata in un vivace quartiere urbano con Robert che mi guidava. E abbiamo riso tantissimo.

Robert è affetto dalla Sindrome di Usher, che l’ha portato ad essere giuridicamente non udente e non vedente. È un amante della musica e la percepisce con una mano su una cassa o sulla radio come le persone presenti nel documentario di Werner Herzog “La Terra del silenzio e delle tenebre”.

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Senza titolo, (Robert Thompson)
© Charlie Simokaitis

Questa fotografia (prima in alto) è stata scattata sotto al lucernario del mio palazzo – nella parte inferiore di un pozzo nel centro del nostro edificio dove la luce naturale può arrivare nelle stanze e negli appartamenti che stanno sopra. Perché la sindrome colpisce il suo equilibrio, Robert ha un’andatura dal carattere distintivo, che ha portato lo ha portato ad essere fermati dalla polizia in varie occasioni pubbliche per sospetta ubriachezza. Abbiamo dovuto fare attenzione, mentre ci siamo fatti strada attraverso la miriade di tubi e condotti della mia cantina. A Robert è piaciuta tantissimo la posa (può vedere qualche cosa) e ha ritenuto che rappresentata molto bene la sua vita.

Inoltre, Robert è pure cieco nel centro della retina cosicché non si è visto in viso da più di 20 anni. Quando ho fatto le due fotografie nel suo bagno, Robert si stava ancora riprendendo da un morso quasi fatale di un ragno violino, che lo aveva punto sul viso mentre dormiva, cosa che ha avuto come risultato un lungo ricovero all’ospedale. Quando abbiamo fatto le immagini nel dittico ha detto ridendo, “Io di solito la barba me la faccio al buio!”

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Senza titolo, (Amy Bosko)
© Charlie Simokaitis

Ho fotografato Amy Bosko prima di una tempesta sulle rive di un canale che scorre dietro la casa in cui abita con la madre e il fratello. Ho visto in Amy un surrogato di mia figlia. Ha la stessa età di Faye, anche se la sua cecità è molto più avanzata. Questo scatto è stato fatto durante la prima fase del progetto e non ero ancora pronto a fotografare la mia bimba in questo contesto. Volevo anche avere la possibilità di vedere com’è la vita di un bambino cieco prima di poterlo fare. In molte discussioni che ho avuto con Amy prima di scattare, sono stato colpito dal suo desiderio di essere alla ribalta, al centro dell’attenzione. Come tanti bambini, la sua ambizione numero uno nella vita è quella di “essere famosa”. Ho imparato nelle successive conversazioni delle sulle difficoltà ad essere una ragazza cieca in una classe piena di bambini vedenti, le sfide sociali che questo rappresenta in termini di sviluppo di amicizie. Per me questa immagine rappresenta la solitudine che spesso accompagna un figlio non vedente in un mondo di vedenti. Questo è l’abito che Amy ha indossato al suo recente festa di compleanno, in cui ha festeggiato il suo nono compleanno.

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Senza titolo, (Jackie Anderson and Coby Livingstone)
© Charlie Simokaitis

Questo dittico è composto da Jackie Anderson e Coby Livingstone, due sorelle non vedenti. Jackie vive a Chicago e Coby è stata fotografata quando ero a Oklahoma City. C’è anche una terza sorella, Wendy che ho in progetto di fotografare nei prossimi mesi. Nell’uso dello sfondo e dell’abbigliamento vi sono riferimenti alla visione inversa/negativa. Questi sfondi mi ricordano sempre vecchie tende e tele del circo, e alludono alla alterità degli artisti circensi e i deformi marginalizzati sfruttati per le loro anomalie. La presenza del topo allude simpaticamente alla nozione di queste sorelle intese come addestratori o scherzi della natura, allo stesso tempo citando anche la famosa filastrocca “i tre topi ciechi”.

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Senza titolo, (Henry and Faye)
© Charlie Simokaitis

Questa foto è stata scatta il Giorno del Ringraziamento a Milford, Ohio. Qualche minuto prima dello scatto Henry, (a destra) mio nipote, stava divertendo grandi e piccini con il suo repertorio di danza. Quando l’estate scorsa il fotografo Robert Lyons ha discusso il mio lavoro mi ha chiesto perché non avevo ancora fotografato mia figlia, visto che lo slancio del progetto nasce con lei. Come dimostra la sua espressione, si potrebbe indovinare l’atteggiamento di mia figlia a proposito. Ma la storia con Faye è più complessa, visto che è un po’ autistica ed è anche eccezionalmente ribelle, soprattutto quando sente che è come se la si stesse guardando. Non sorprende, dunque, che non ci sono mai state bambole nella sua camera da letto visto che sarebbero state rapidamente buttate fuori.

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Senza titolo, (Jennifer Justice)
© Charlie Simokaitis

Jennifer Justice, che ho fotografato in precedenza travestita da Santa Lucia, patrona dei ciechi, è in piedi in mezzo alla neve con il suo fidanzato Kevin, pure lui cieco. Jennifer viene da Tuscumbia, Alabama, la citta natale di Hellen Keller, dove una volta è stata selezionata per essere il Grand Marshall della parata annuale di Helen Keller. Il mio intento era quello di creare una sorta di accompagnamento per il dittico di Robert mentre si sta facendo la barba, con la sua calda luce accogliente, un uomo in maglietta che si rade nel limitato spazio di una stanza da bagno. Questa immagine fornisce un contrappunto con la sua tavolozza più fredda; qui i modelli sono vestiti, in modo vagamente formale, per il freddo, in un grande spazio aperto. Mentre passavo la maggior parte di questa triste giornata invernale girellando con Jennifer e Kevin nell’appartamento che condividono, mi ha colpito un profondo senso di ottimismo, grazie ai sentimenti che questa giovane coppia condivide l’uno per l’altro.

 

Le persone che ho fotografato per questo progetto sono state molto generose offrendomi il loro tempo e la loro volontà di aprire le loro case e la loro vita per me. L’universale e genuino entusiasmo per il progetto testimonia la volontà di queste persone non vedenti di diventare più visibile a tutti noi. In ultima analisi, via via che passo più tempo con le persone non vedenti sto sviluppando una perversa parentela con la condizione reale che sarà probabilmente richiesta dalla cecità di mia figlia.

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