Camera Obscura » Critica /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 en hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.3.1 I sensi di colpa del voyeur, ovvero “antichambre avec vues” di Elene Usdin /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/ /it/2012/antichambre-avec-vues-elene-usdin/#comments Wed, 04 Apr 2012 13:03:36 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4540
Elene Usdin
© Elene Usdin

Giusto di fronte a keyhole di Erwin Olaf, un’altra galleria di Art Paris espone un’installazione che supera la tipica bidimensionalità fotografica: antichambre avec vues d’Elene Usdin.

In fondo allo spazio dedicato alla galleria Esther Woerdehoff infatti, è stata costruita un’intera stanza all’interno della quale sono disposti vari oggetti e fotografie. Elene Usdin, prima di diventare fotografa e illustratrice, ha studiato arte decorativa, formazione che si riflette nel suo lavoro successivo. Elene Usdin costruisce quindi buona parte dei decori, degli abiti e degli accessori che utilizza nelle sue fotografie. In questo caso sono esposti insieme alle stampe proprio alcuni degli oggetti utilizzati nelle fotografie, il tutto realizzato con estrema cura.

Elene Usdin
© Elene Usdin

La sensazione è che di fatto per Elene Usdin l’opera artistica non si limiti alla fotografia in sé, gli oggetti e la loro realizzazione non sono dei semplici strumenti necessari unicamente al prodotto finale, al contrario tutto il processo creativo, nelle sue varie fasi e sfaccettature, costituisce nel complesso l’opera artistica. Ecco quindi che nella antichambre avec vues di Elene Usdin fotografie, abiti, decori, muri e tutta la stanza stessa, si trovano globalmente sullo stesso piano, in maniera indissociabile, costituendo appunto l’installazione artistica, intesa come opera nella sua totalità.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Si entra camminando su un lungo e soffice tappeto rosso, posato nel mezzo della morbida moquette blu a motivi floreali. La stanza stessa è tutta giocata nelle tonalità del blu e dell’azzurro: i pannelli con trompe-l’œil, le mura dipinte a tinta unita e la carta da parati che fa pendant con gli arabeschi della moquette.

Vari oggetti riempono la stanza: delle sedie e poltrone sulle quali sono posati degli abiti da altra epoca, ma con un tocco di fantasia moderna, valigie sovrapposte, lampade, pantofole e calzettoni, scrigni e cofanetti. La cura dei dettagli è stupefacente. Lungo le due pareti laterali sono invece esposte le fotografie di Elene Usdin.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Vari personaggi femminili -tutti autoritratti messi in scena- in posa in una camera d’hotel. antichambre avec vues nasce infatti come il seguito naturale della collaborazione iniziata con photo d’hôtel, photo d’auteur, un interessante progetto lanciato da HPRG: giovani fotografi emergenti vengono invitati a passare una notte in una stanza d’hotel, alla fine della quale dovranno scegliere un’unica fotografia e un testo ispirati dalla loro esperienza. Elene Usdin, cui è stata data carta bianca per la creazione della sua installazione, ha associato un personaggio famoso ad ogni stanza d’hotel in cui si è trovata: Giuseppina di Beauharnais all’Hôtel des Grands Hommes, George Sand a l’Hôtel Panthéon, Simone de Beauvoir a l’Hôtel Design Sorbonne, Isadora Duncan à l’Hôtel Jardin de l’Odéon e infine Juliette Récamier a La Belle Juliette. La serie di fotografie è quindi costituita dagli autoritratti di Elene Usdin, che immagina come queste cinque donne famose si sarebbero comportate nell’intimità della camera d’hotel che è stata loro attribuita.

Elene Usdin
© Elene Usdin

I personaggi delle foto di Elen Usdin, sono ripresi per lo più sul letto della loro camera, o su di una poltrona, a volte in situazioni incongrue e vagamente ironiche, come l’imperatrice Giuseppina, la poltrona su cui è quasi sdraiata, posata sopra al letto dalle lenzuola immacolate. Quasi tutte stanno dormendo, o perlomeno si trovano in posizione allungata, anche se spesso fanno vagare le gambe in posizioni curiose, quasi si annoiassero e manifestassero il proprio languore giocando col proprio corpo.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Quello della gambe in movimento è anche il tema del video in stop motion intitolato les Impatiences, che è il nome popolare usato in francese per la sindrome di Ekbom. Nella parete centrale della camera ricostruita in antichambre avec vues infatti non ci sono fotografie, il tappeto rosso conduce dritto ad una porta, nella quale sono praticati due fori, un po’ come nei film erotici a sfondo voyeuristico. Dietro a questi viene proiettato appunto il video les Impatiences di Elene Usdin.

[There is a video that cannot be displayed in this feed. Visit the blog entry to see the video.]

Nei muri ai lati della porta sono praticate due fessure, bordate da una sottile cornice rossa. Dietro a queste sono esposte due fotografie di nudo, sempre tratte dalla serie di autoritratti di Elen Usdin ambientati nelle camere d’hotel. La posa è decisamente classica, ricordano le cartoline erotiche della belle époque, allora considerate come immagini puramente pornografiche mentre oggi farebbero quasi sorridere. Eppure, mentre guardo attraverso la fessura nel muro, mi sento proprio come un voyeur da film di una volta, con un misto di eccitazione vagamente morbosa e sensi di colpa, come se il cinema, internet, le pubblicità e soprattutto le mostre di fotografia non contenessero fotografie infinitamente più osé di questa. Faccio vagare lo sguardo sulle gambe nude, il deretano in bella mostra, la fessura del sesso e mi sembra proprio di fare qualcosa di estremamente trasgressivo, mi sento esattamente come immagino si sentissero i nostri nonni e bisnonni di fronte a fotografie come questa.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Inizio a pensare che il fatto di guardare attraverso un foro sia qualcosa che risuona con prepotenza con il mio modo di sentire, oltre al recente keyhole di Erwin Olaf, mi viene subito in mente l’esperienza con le autochrome alla mep. Come se in tutti questi casi potessi guardare attraverso un’apertura su un altro mondo, in senso quasi psichedelico. Idea di cui non sono il solo a subire il fascino, tanto per citare l’esempio più famoso, non a caso i Pink Floyd in the wall chiedevano ripetutamente “C’è qualcuno là fuori?”. Come se di fatto i fori sfruttati come stratagemma espositivo, potessero veramente proiettarci in una realtà diversa, in un mondo altro, al di fuori della sfera esistenziale corrente.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Il semplice espediente della fessura, il modificare quello che è il modo di guardare, trasforma in maniera prepotente tutta la percezione fotografica. Un’immagine che forse non mi avrebbe colpito in modo particolare, si trasforma invece in un’esperienza molto più vasta e complessa. È in atto una vera e propria trasfigurazione della fotografia. Il fatto di inserire un’immagine fotografia in un’opera tridimensionale, in un’installazione artistica, ne riscrive completamente le modalità di fruizione, rendendo l’esperienza visiva molto più completa e potente, immergendoci non solo fisicamente e soprattutto emotivamente nel cuore di un’opera artistica.

Elene Usdin
© Elene Usdin

Le analogie con quello che l’esperienza vissuta con keyhole di Erwin Olaf è evidente. In entrambi i casi si tratta di guardare attraverso un’apertura, che sia il buco della serratura o il foro di un voyeur poco importa. Le due opere sono praticamente gli unici esempi di esposizione fotografica presente ad Art Paris che va al di là della classica esposizione bidimensionale. In entrambi i casi la riscrittura della modalità visiva si è tradotta in una forte risposta emotiva da parte mia, in cui il senso di colpa è uno degli elementi principali. Cosa sicuramente voluta, visto che le due installazioni giocano sui temi estremamente vicini di vergogna e voyeurismo.

Elene Usdin
© Elene Usdin

La cosa divertente è che nel grande padiglione di Art Paris, la galleria Rabouan Moussion che espone keyhole di Erwin Olaf e la galleria Esther Woerdehoff che espone antichambre avec vues sono praticamente una di fronte all’altra. Mi viene subito in mente un caso analogo, quando a Paris Photo sex di Atta Kim e coït di Frédéric Delangle erano esposti praticamente dirimpetto. Eppure in questo caso, oltre alle considerazioni sempre valide citate ne l’ironia del nuovo, vale la pena sottolineare che -al di là delle analogie- sebbene le due installazioni esplorino temi vicini, il risultato, il messaggio, la realizzazione visiva, sono completamente diverse. Nessunissima impressione quindi di ridondanza, le due installazioni sono perfettamente complementari. In ogni caso, uno dei maggiori interessi dell’arte contemporanea, è appunto vedere dove approdano due artisti diversi intenti a lavorare sullo stesso tema.

 

Per ulteriori informazion su antichambre avec vues, oltre al sito di Elene Usdin, si visiti l’annuncio della mostra sul blog HPRG.

Elene Usdin
© Elene Usdin
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Spiare con vergogna attraverso il buco della serratura, ovvero Erwin Olaf ad Art Paris /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/ /it/2012/keyhole-erwin-olaf-art-paris/#comments Sat, 31 Mar 2012 13:06:28 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4537
Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Sole e cielo blu senza una nuvola, da diversi giorni ormai. Fa caldo, non troppo, ma nel primo pomeriggio abbastanza da stare in giro in maglietta. Mi ricordo dalle miei visite negli anni precedenti a Art Paris, che sotto la volta di vetro del Grand Palais si ha un po’ la sensazione di boccheggiare, soprattutto se c’è gente, la luce intensa fa quasi male agli occhi, e dopo qualche ora si è presi quasi da un certo affanno. Oggi mi son quindi preparato in anticipo per fare la mia abbuffata pomeridiana di arte contemporanea: pantaloni corti, camicia leggera e due litri d’acqua.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Faccio un primo giro, come al solito facendo prima tutto il perimetro e per ultime le maglie centrali. Sarà perché il mio centro di interesse è la fotografia, ma dipinti e sculture mi lasciano quasi tutti abbastanza freddo, salvo pochissime eccezioni non c’è praticamente niente che mi metterei in casa, che mi piace davvero. La fotografia invece a mio vedere ne esce molto meglio. Certo ci son tanti lavori che ho già visto ripetutamente e quindi non mi entusiasmano più come la prima volta, qualche opera che purtroppo proprio non incontra il mio gusto e qualche cosetta invece che non mi fa né caldo né freddo, ma nel complesso l’impressione è abbastanza positiva. In ogni caso mi sembra che la qualità delle fotografie esposte sia mediamente superiore a quella degli altri media. Oppure detto più precisamente, mi sembra che le fotografie siano più immediatamente godibili e fruibili rispetto al resto, chiuso nella sua cripticità concettuale. Come se la fotografia, pur artistica allo stato puro come può essere quella esposta ad Art Paris, paragonata alle altre arti figurative, soffrisse meno della maledizione dei ready made e di Duchamp. In ogni caso moltissime gallerie espongono fotografie, molte di più di quanto ricordassi dagli anni passati, il che mi sembra già una bella notizia, e soprattutto un fatto degno di nota. Nonostante i fotografi si lamentino per come va il mercato, sembra invece che gallerie e pubblico si interessino sempre di più alla fotografia.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Arrivato quasi alla fine del mio giro, inizio già a fare un piccolo riassunto mentale, chiedendomi cosa avesse effettivamente ritenuto la mia attenzione, in un certo senso se volesse la pena scrivere un articolo per Camera Obscura, visto che per il momento non ho molto da dire al di la dell’abbondanza di fotografie che contraddistingue Paris Photo 2012.

Ed ecco che lo vedo.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Un grande mobile in legno, a prima vista dall’aspetto vagamente art deco, con incastonate dentro delle foto di Erwin Olaf. Ogni volta che visito Paris Photo (vedi gli articoli scritti nel 2008 e 2010) e Art Paris, Erwin Olaf è immancabilmente fra i miei fotografi preferiti, quindi mi avvicino per non perdere l’occasione di ammirare nuovamente il suo lavoro. La struttura in legno è lunga 3-4 metri e alta un paio, lo stile ricorda i decori delle ultime serie di fotografie di Erwin Olaf, dal gusto retro, un po’ anni trenta. Pannelli in legno intagliato e carta da parati con arabeschi grigio chiari, come se le pareti della struttura fossero i muri dello sfondo di una delle sue foto. Su ogni lato di queste, all’interno di una piccola alcova, sono presenti cinque splendide foto, quasi tutte -se non fosse per un nudo maschile- ritratti di personaggi presi di spalle, che nascondono il volto allo sguardo. Uomini, donne e molti bambini, tutti voltati, come se si vergognassero, come se cercassero di sfuggire allo spettatore, chiusi nell’immobilità vagamente malinconica tipica degli ultimi lavori di Erwin Olaf. Come al solito, le fotografie sono favolose. Composizione, decoro, posa e luce magnifica, alla quale si aggiunge una tecnica indiscutibilmente perfetta e un’ottima stampa. Non posso fare a meno di pensare che secondo me i grandi artisti, oltre alle ottime idee, sono persone che portano alla massima espressione e quasi al perfezionismo puro gli oggetti che costituiscono le loro stesse opere. In ogni caso Erwin Olaf appartiene a questa categoria.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Nei due lati corti della struttura invece sono presenti unicamente due porte chiuse, davanti alle quali è stata posta una sedia con un paio di cuffie appoggiate sopra. Chiaramente un invito a sedersi e guardare attraverso il buco della serratura. Dall’altra parte un video. Un bambino, in piedi accanto alla madre, una donna di mezza età che legge un libro seduta sul letto. Le stesse persone delle foto, la stessa atmosfera, ma questa volta non sono immobili nella fissità della fotografia, si muovono, parlano, cambiano posizione. L’occhio, attraverso il buco stretto della serratura, non riesce ad abbracciare la totalità della scena, è costretto a spostarsi da un punto all’altro, esplorare lentamente la stanza, le persone, i decori. Grazie a questo movimento incessante, a causa dei limiti intrinseci d’osservazione, si scoprono con infinita intensità i dettagli, i particolari che sarebbero rimasti inosservati di fronte alla semplice superficie piatta di una fotografia. L’occhio si sofferma quindi sui decori e gli intagli del legno, la materia tridimensionale della tenda del mobile, il brillare improvviso dell’anello quando la mano della madre entra in un raggio di luce, la sua lunghissima treccia, che tocca quasi terra, le pantofole rosse posate ai suoi piedi, la scultura bianca su l comodino, stretta e lunga quasi come l’ombra della sera.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

È chiaro perché keyhole, questo il titolo dell’installazione di Erwin Olaf, sia un’opera sulla vergogna. Al di là del fatto che le persone nelle foto siano quasi tutte di spalle, come se appunto si vergognassero di farsi vedere, spiare attraverso il buco di una serratura è un riferimento inequivocabile, un simbolo chiarissimo di un’attività che può portare con se un misto di voyerismo, curiosità e sensi di colpa. Perché appunto sembra quasi di violare l’intimità delle persone che si trovano al di là della porta, spiarle mentre si trovano in camera da letto, in vestaglia, nella fragilità del quotidiano.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Mi sposto sul lato opposto dell’installazione, per guardare l’altro video. Stessa atmosfera, ma un’altra stanza, questa volta un uomo che tiene il bambino in braccio, leggendo un libro, in uno studio. Mentre legge gli carezza la schiena, lentamente. Nelle cuffie, oltre a rumori soffusi, il respiro forte dell’uomo, quasi a tradire una forte eccitazione sessuale. Questa volta il malessere, questo senso di colpa di spiare ciò che è proibito, si fa molto più intenso, disturbante. Si teme di assistere ad atto di pedofilia, si intuisce tutta l’ambiguità della situazione, senza sapere se di fatto corrisponde al vero, o invece la morbosità è nella propria testa, ci si sta immaginando tutto.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Nel complesso, l’istallazione è veramente geniale. Al di là della bellezza delle fotografie e della perfezione formale della realizzazione, l’esperienza suscitata da keyhole è decisamente intensa. Non si è più semplici fruitori delle immagini, ma il fatto stesso di chinarsi e guardare attraverso un buco della serratura, precipita lo spettatore all’interno della scena, lo trasforma in attore stesso, lo priva del distacco emotivo cui è abituato, immergendolo in una situazione incerta e vagamente repulsiva.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf

Trovo sempre sorprendente che la quasi totalità delle fotografie siano presentate unicamente come supporto bidimensionale. Certo i fotografi a volte si lasciano andare sulla scelta delle cornici. Spesso le mostre giocano sui formati, o le disposizioni sapienti nello spazio, raggruppare immagini diverse, tanto per i formati che per i contenuti. Ma tutto ciò si limita in generale ad una semplice organizzazione di supporti bidimensionali quali sono le fotografie, senza andare al di là. Erwin Olaf invece, con la sua installazione keyhole, frantuma la bidimensionalità della fotografia, entrando con prepotenza nella realtà che ci avvolge e ci circonda.

Erwin Olaf
© Erwin Olaf
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La poesia te la porti in tasca dentro una scatoletta di metallo, ovvero Gregor Beltzig al Festival Circulation /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/ /it/2012/gregor-beltzig-festival-circulation/#comments Sun, 04 Mar 2012 12:07:35 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4511
Festival Circulations
© Gregor Beltzig

Da diverso tempo volevo andare al Festival Circulations, sperando che non andasse a finire come l’hanno scorso, che per i soliti mille impegni me l’ero lasciato scappare.

Nella metropolitana sono talmente preso dall’ottimo libro di Keigo Higashino “Mukashi bokuga shinda ie” (non credo sia tradotto in italiano) che mi son lasciato scappare la fermata. Scendo quindi a Sablons e mi incammino verso il Bois de Boulogne. È una giornata grigia e nebbiosa, ma non troppo fredda. Arrivo ai primi alberi e mi rendo conto che è proprio qui dove qualche anno fa mi ritrovai per caso assieme ad una ragazza bellissima, un giorno fatto solo di sole e felicità. Proprio qui, dove fra un bacio e l’altro scattai quello che divenne il suo ritratto preferito, subito dopo un gelato mangiato in due dalla stessa coppetta, rubandoselo a vicenda con i cucchiaini di plastica colorata. Come al solito quando ricapito in un luogo speciale, mi guardo intorno cercando di trovare nei luoghi una qualche traccia tangibile della mia esperienza, un segno concreto al di là del mio ricordo giù un po’ appassito. Ma la primavera al Bois de Boulogne non è ancora arrivata e mi rispondono solo i tronchi grigi e muti degli alberi spogli.

Festival Circulations
© Amélie Chassary e Lucie Belarbi

Non ho voglia di prendere un pullman, quindi vado a piedi, facendo un po’ attenzione perché nel Bois de Boulogne non mi oriento benissimo e non voglio perder troppo tempo. Passo davanti al museo delle arti e tradizioni popolari, che sembra abbandonato, le scritte tutte scrostate, qualche barbone che dorme avvolto in diverse coperte sotto alla tettoia dell’ingresso. Un cliente entra nel furgoncino di una prostituta coperta solo dal classico vestitino a pelle di leopardo. Mi chiedo se è solo un po’ grossa, o se le cosce importanti e le spalle tradiscono il fatto che sia in realtà un travestito. Un personaggio strano attraversa le sterpaglie sorseggiando una birra. I corridori passano uno dopo l’altro sbuffando fra gli alberi ancora completamente spogli e grigi.

Festival Circulations
© David De Beyter

Il Parc de Bagatelles, che ricordo nei fasti floreali estivi completamente stracolmo di gente che mi rimandava con la fantasia alle folle della belle époque, è invece grigio e silenzioso. Ma l’atmosfera è dopotutto pacata e piacevole, non triste. Seguo le frecce che mi portano al festival circulations, guardo senza troppa emozione le prime 2-3 serie di fotografie esposte all’aria aperta e mi infilo nella galleria che espone la prima metà della mostra. Odore di vernice fresca e sottofondo di rumori incongrui tipici dei video d’arte. Poca gente in giro, cosa che permette di ben usufruire delle opere esposte.

Come al solito, buona parte dei lavori che vedo non mi entusiasmano o proprio non mi piacciono. Certo sono piuttosto ben realizzati, le serie sono coerenti in linea con la fotografia contemporanea, però spesso mi sembra che tutti questi grandi concetti siano in realtà un po’ troppo facilotti, che le associazioni mentali siano abbastanza scontate e mi chiedo se l’arte contemporanea di fatto ha poi talmente poco da insegnarci. Le stampe poi sono passabili ma niente di particolare, si vede che son state fatte apposta per il festival, probabilmente senza troppa supervisione e controllo dalla parte degli artisti.

Festival Circulations
© Johansen Per

Naturalmente non mancano i lavori interessanti. Le situazioni vagamente incongrue di Amélie Chassary e Lucie Belarbi, il coraggioso reportage fra le prostitute brasiliane di Vincent Catala, le deliziose fotografie americane in piccolo formato di Matt Wilson, la crisi dei trent’anni di Paweł Fabjański, e per finire i misteriosi paesaggi postindustriali ottenuti mischiando fotografia e 3d di David De Beyter.

Festival Circulations
© Johansen Per

E poi il mio preferito del Festival Circulations: la serie Mæt di Johansen Per. Foto in grande formato di diversi tipi di cibo crudo infilato e pigiato dentro delle piccole taniche e bottiglie di plastica trasparente. Pesci, salsicce, polli, verdure… L’effetto è disturbante e claustrofobico, tutto questo cibo compresso che viene fuori dal collo della bottiglia quasi come vomito a mala pena trattenuto. Una serie di fotografie che leva veramente l’appetito ed è una splendida e riuscitissima rappresentazione visuale della bulimia del consumismo occidentale. Veramente un livello sopra tutti gli altri lavori esposti.

Festival Circulations
© Matt Wilson

Sto per andarmene e -come faccio spesso- rifaccio un giro rapido della mostra per fare un riassunto mentale delle fotografie esposte e ben fissare nella memoria i lavori che più mi son piaciuti. Ed ecco che in mezzo alla stanza noto una tavolino di legno che mi era sfuggito. Mi avvicino incuriosito a questo tavolino un po’ dimesso e dall’aria vagamente retrò. Sul tavolo sono posate delle scatolette metalliche, anche queste con un sapore di oggetto antico, il metallo tirato a nudo ma con una bella patina che sembra frutto del tempo. Piccole scatolette che misurano dai quattro, cinque centimetri di lato ad un massimo di una quindicina, in fondo alle quali è posata una fotografia, ricoperta da una specie di resina trasparente che la rende tutt’uno con la scatoletta che la porta dentro.

Festival Circulations
© Gregor Beltzig

Dei veri e propri gioielli, bellissimi. In primo luogo la dimensione, questa piccola miniatura, che invita a chinarcisi sopra, a guardare da vicino, a tenerla fra le mani come si fa con gli oggetti preziosi. Poi l’effetto della resina trasparente, che -vagamente irregolare- aggiunge una dimensione tattile e fisica all’immagine, un effetto che ricorda certe proprietà fisiche delle tecniche antiche di stampa. Naturalmente i soggetti malinconici delle foto, vagamente onirici e terribilmente poetici. E poi questa cosa della scatola di metallo, il fatto che alcune sono chiuse a vanno aperte per poter guardare la foto che racchiudono all’interno, l’impressione di aprire un ricordo conservato in un luogo prezioso della mente, un segreto appena confessato. Mi arriva dritta in petto la stessa emozione che provai una delle primissime volte che ebbi la fortuna di ammirare delle splendide autochrome, piccole finestre aperte sul passato.

Festival Circulations
© Gregor Beltzig

Mi guardo intorno per scoprire chi è l’autore di questa splendida opera, misto fra fotografia e installazione, mostra che sta tutta su un vecchio tavolino di legno. In un cassetto di questo un foglio trovo il nome che cercavo -Gregor Beltzig- e queste righe:

Le scatole dei sentimenti

Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, scrivevo delle poesie per te,
parlando d’amore, parlando di risa, parlando di quello che sentivo.
Quando avevamo ancora fiducia l’uno nell’altro, ti ho fotto delle foto.
Le tue spalle, il tuo seno, le tue voglie caffellatte e i tuoi capelli.
Ma visto che ormai non ci son più legami fra noi
le parole mi restano bloccate in gola.
Adesso i sentimenti sfuggono dai miei occhi,
ed è così che grido la mia sofferenza al mondo.

Festival Circulations
© Vincent Catala

Al che non ho più niente da dire, se non di correre a vedere quel tavolino e le sue scatolette riempite di poesia, perché le foto in sé, private della loro scatoletta, nonché nessuna riproduzione del tavolino renderanno mai la magia di quest’opera. Scatole dei sentimenti che mi fa ritrovare la fiducia e la passione nell’arte contemporanea. Un po’ come la mostra di Ville Lenkkeri, ogni tanto fra le tonnellate di masturbazioni cerebrali, lavori insulsi che si vorrebbe poter dimenticare subito, qualcosa di eccezionale lo si finisce per trovare.

Grazie Gregor Beltzig, grazie di cuore.

Festival Circulations
© Paweł Fabjański
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Incontro con Zhang Xiao e recensione di Coastline /it/2011/coastline-zhang-xiao/ /it/2011/coastline-zhang-xiao/#comments Mon, 21 Feb 2011 22:01:41 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4360
Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Una delle ragioni che mi stimolano a continuare a scrivere questo blog è che periodicamente incontro di persona uno dei fotografi con sui sono entrato in contatto grazie appunto a Camera Obscura. Questa volta si tratta di Zhang Xiao (张晓) -l’autore di They- nonché recente vincitore dell’edizione 2011 del premio HSBC per la fotografia contemporanea.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Un paio di settimane fa Zhang Xiao mi scrive una mail, dicendomi che sarà a Parigi per qualche giorno e che gli farebbe piacere venire a rendermi visita. Gli rispondo invitandolo direttamente a cena il giorno seguente. A molte persone può sembrare un po’ avventato invitare a casa propria uno sconosciuto con cui si è scambiato solo qualche mail su internet, ma è una modalità che ho già sperimentato con successo in passato, per esempio è proprio cosi che -appena arrivato a Napoli- ho conosciuto i due fotografi Marcello Merenda e Giorgio Cossu, in seguito diventati ottimi amici che frequento ancora con una certa regolarità.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Invito quindi Zhang Xiao e la sua ragazza per le 18, giusto per fargli una piccola cortesia, visto che i cinesi spesso si mettono a tavola molto presto e sono sorpresi degli orari degli occidentali. Invece i due arrivano con un’ora e mezzo di ritardo, scusandosi mille volte perché non riuscivano a trovare il posto. Poco male, ho avuto il tempo per preparare tutto alla perfezione e sbrigare qualche faccenda in sospeso.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Zhang Xiao ha 30 anni, la corporatura robusta e appena abbondante di chi ama mangiare e non fa moltissimo sport. Il viso rotondo e gentile, gli occhi stretti come fessure e un pizzo folto come la barba di un europeo, cosa abbastanza rara per un asiatico. Abbigliamento giovane e molto casual: pantalonacci neri, una felpa dello stesso colore e una macchinetta di plastica appesa al collo. La sua ragazza è invece fine e minuta come molte cinesi, capelli raccolti dietro la testa, smalto rossissimo sulle unghie anche se nel complesso non è assolutamente una fashion victim come moltissime asiatiche che ho incontrato nel corso degli ultimi anni.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Ci mettiamo subito a tavola, menu 100% italiano: antipasto con il prosciutto fatto in casa dal babbo e giallarelli sott’olio del Poggio, pennette melanzane pomodoro e pancetta (belle piccati ma tanto abitano tutti e due nel Sichuan quindi sono abituati a cibi infinitamente più piccanti), frittata di cipolle con un pizzico di pepe, insalata verde di contorno e frutta per finire. All’inizio la conversazione stenta un pelo a decollare, forse perché non sanno di preciso cosa dire. Mi lancio allora in lunghe spiegazioni sulle abitudini culinarie italiane e le differenze con quelle cinesi, gli racconto del mio lavoro e gli chiedo del loro, quando sono stato a Taiwan e se loro sono già venuti in Europa. Poco a poco l’atmosfera si distende e scopro che forse si trattava solo di un po’ di timidezza, o forse di un certo riserbo. Tengo a precisare che la conversazione si svolge esclusivamente in cinese, perché nessuno di loro due parla inglese se non qualche rara parola pronunciata fra l’altro con un accento che fatico a capire. Purtroppo il mio cinese è un po’ arrugginito, mi son dimenticato un sacco di parole, ma finché si parla del più e del meno è largamente sufficiente. Alla fine, dopo anni di studio noioso, è comunque un piacere aver la possibilità di interloquire con l’altro lato dell’umanità, cosa praticamente preclusa alla maggior parte degli occidentali.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Dopo cena ci spostiamo in camera mia per un tè, dove scoprono tutti contenti il vassoio in legno scolpito che tanto mi ha fatto penare quando l’ho riportato da Taiwan. La fidanzata di Zhang Xiao trova anche il Zhuangzi -l’edizione in testo classico con a fronte la traduzione in cinese contemporaneo- e si immerge nella lettura mentre Zhang Xiao mi mostra le sue fotografie. Si è portato dietro quattro libri, uno per ogni serie di lavori, compresa l’ultima, Coastline, che non conoscevo per niente. I libri sono relativamente spartani, un’unica foto orizzontale per pagina, solo fronte, aspetto quasi da fotocopia a colori, copertina monocolore, rilegatura stile dispensa universitaria. Ma la qualità mi sembra discreta. Zhang Xiao in realtà si lamenta della resa non perfetta dei colori, ma il risultato è comunque più che accettabile. Devo dire che si tratta di un bel modo ordinato e pulito per portarsi dietro il proprio lavoro ed è veramente piacevole sfogliare un libro, invece del casino delle scatole e delle stampe su fogli sciolti, bisogna che ci pensi. Il tutto per 10-15 euro a libro e Xhang Xiao mi spiega che il più grande vantaggio è che la ditta che li vende è velocissima, te lo stampano e rilegano in pochissimo tempo. Quasi quasi vado in Cina a farmi stampare il portfolio…

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Coastline è un lavoro stupendo. Scopro che Zhang Xiao, durante gli ultimi due anni, ha percorso lunghi tratti della costa della Cina, una zona relativamente poco fotografata tanto dai cinesi che dai fotografi occidentali. Di solito a piedi, camminando lungamente e fotografando luoghi, paesaggi, persone, scene di vita che per caso han finito per trovarsi sui suoi passi. Le fotografie sono vagamente malinconiche e a tratti quasi tristi, molto poetiche e nostalgiche, ma allo stesso tempo oggettive e distaccate come vuole la fotografia contemporanea. Obiettivo normale o grandangolare, sempre una certa distanza fra il fotografo e i luoghi o i personaggi ritratti. Questi ultimi sempre sconosciuti, le storie che si intravedono spesso nelle foto sono solo frammenti brevissimi di queste, e completamente estranee all’autore. Lo stesso Zhang Xiao spesso non ha idea di cosa stessero facendo le persone ritratte, si possono fare solo congetture. Di volta in volta un pizzico di ironia, uno scorcio inconsueto, una scena incongruente, una situazione vagamente surreale. C’è dentro un po’ di tutto, ed ecco che piano piano, pagina dopo pagina, foto dopo foto, viene fuori un ritratto collettivo e corale di questo grande paese di cui tutti parlano ma che nessuno alla fine conosce. Ciò che è bello e toccante è che si tratta veramente della gente, della vita comune. Niente fabbriche ed eserciti di operai, niente palazzi infiniti e alienanti al posto delle case tradizionali, niente miseria delle campagne e tutti gli altri temi “caldi” della Cina contemporanea. Solo la gente normale, il ritratto umano, ecco, della Cina e dei Cinesi. Le fotografie sono splendide, ma in realtà spesso molto semplici, quasi banali, eppure la serie è coerente e strutturata, nella semplicità è comunque evidente la sensibilità e il bellissimo occhio di Zhang Xiao, grazie al quale riesce a scoprire lo straordinario nell’ordinario. Il risultato è una vera e propria costruzione della memoria collettiva, fotografie che fra cinquanta o cent’anni potranno raccontare la Cina di oggi. I colori, infine, sono semplicemente stupendi, mi ricordano un po’, forse grazie alla foschia che rende quasi sempre opaco il cielo, i bellissimi colori di Nadav Kander. Colori grigi, slavati, piatti, eppure le foto sono allo stesso tempo luminosissime e contrastate. Niente bianchi, pochissime ombre e per niente scure, immagini morbide ma che allo stesso tempo hanno un grandissimo rilievo. Insomma, Coastline di Zhang Xiao è una serie di fotografie veramente bellissima e devo ammettere che ho provato più che un pizzico di invidia.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Gli altri tre libri, ovvero i lavori precedenti di Xhang Xiao, sono anch’essi molto belli, soprattutto They, ma a mio parere con Coastline ha fatto davvero un salto in alto, in tutti i sensi. Gli chiedo come riesce a conciliare il lavoro di fotografo professionale per un giornale con quello più personale e artistico. Allora Xhang Xiao mi racconta di aver abbandonato il lavoro di fotoreporter, che per il momento fa solo foto per se.

-Per adesso funziona, in futuro non so. Spero di si. Non sono per niente ricco, ma non importa, quello che conta sono le foto.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao

Sono contentissimo di sentirglielo dire, è praticamente il primo cinese fra le decine o forse centinaia che ho incontrato che tiene propositi di questo genere. Di solito mi sento rispondere proprio il contrario, cosa che mi ha rattristito al punto di aver quasi rinunciato ad imparare il cinese un po’ anche per questo.

Nei giorni seguenti ci vediamo spesso, quasi quotidianamente. Visitiamo un po’ di gallerie insieme, assisto ad un’intervista per photographie.com, li invito ad una festa a casa di amici dove gli presento un paio di galleristi e di nuovo a pranzo a casa mia. Quando alla fine della settimana ripartono per la Cina mi dispiace un po’ se penso che non ci rivedremo per chissà quanto tempo e mi rendo conto che alla fine ho due nuovi amici.

Zhang Xiao
© Zhang Xiao
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Lotta e godimento in uno scatto di Mukhtar Khan /it/2009/mukhtar-khan/ /it/2009/mukhtar-khan/#comments Sun, 28 Jun 2009 10:16:21 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2143
Mukhtar Khan
© Mukhtar Khan – Associated Press

Le manifestazioni, i cortei di protesta, i grandi movimenti di massa, la guerriglia urbana, gli scontri con le forze dell’ordine sono tutte occasioni di emozioni e sensazioni iestranee alla vita quotidiana, in cui la tensione diventa palpabile, l’individuo si confonde nell’eccitazione della massa.

Questi eventi possono essere diversissimi fra di loro, per le motivazioni e la messa in atto, come per contesto storico, culturale, e sociale. Certo non è possibile mettere sullo stesso piano una pacifica manifestazione studentesca che sfocia nella piazza della Bastiglia, con gli scontri fra polizia e ultras all’uscita di uno stadio, o la guerriglia in Afghanistan. Nonostante questo credo si possa affermare che esiste un tratto comune: una sorta di eccitazione febbrile, a volte folle, una perdita di coscienza che trova le sue origini nel piacere dello scontro, della ribellione, del confronto di forze. Una forza primitiva, o meglio primordiale, che ci ricorda che l’uomo, nonostante la concezione tendenzialmente pacifista attualmente accettata -almeno ufficialmente- nei paesi occidentali, di fatto rimane legato alla lotta e alla guerra, e ne trae piacere.

In questa fotografia scattata da Mukhtar Khan, oltre alla tensione nervosa, al di là della drammaticità della situazione, mi pare che è proprio questo godimento primordiale dello scontro che si riesce a leggere sui volti dei protagonisti. Il giovane al centro che indoviniamo colto nella fase finale del lancio di una pietra contro le forze dell’ordine, la gamba curiosamente sollevata come se fosse un giullare o un saltimbanco, più che rabbia o disperazione sembra che abbia dipinta in volto un godimento dionisiaco, la lingua completamente fuori dalla bocca, in una smorfia di piacere vagamente folle e inquietante. A sinistra, qualche passo indietro, un uomo ha appena raccolto una pietra, che sembra tenere come se fosse una patata bollente. Invece di leggere la determinazione di un ideale o la disperazione che ha raggiunto il limite, sembra proprio che stia ridendo, pregustando il piacere del lancio imminente.

Esiste nel fondo degli esseri umani una gioia della violenza o si tratta di un’illusione inscritta in questa foto?

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Cloni politici /it/2009/cloni-politici/ /it/2009/cloni-politici/#comments Sat, 20 Jun 2009 08:09:16 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2106
Arnd Weigmann
© Arnd Weigmann – Reuters

È raro che le fotografie di eventi politici, incontri ufficiali o conferenze stampa abbiano una qualche valenza estetica, di solito si limitano ad essere un puro e semplice documento storico, una specie di certificato che attesta che Tizio ha incontrato Caio e Sempronio a Canicattì, il lunedì di Pasqua, verso mezzogiorno.

Naturalmente esistono le eccezioni, e questa fotografia di Arnd Weigmann ne è la prova lampante. Composizione sobria e minimalista, sfondo in tinta unita di un colore neutro fra il beige e un grigio dalle dominanti verdi, rumore digitale -dovuto all’alta sensibilità inevitabile in queste condizioni- che per una volta è abbastanza piacevole, ottima composizione decentrata verso il basso che da spazio e respiro all’immagine, rigore geometrico impeccabile e linee perfettamente dritte delle scrivanie. Per Mukhtar Khanessere così precisa probabilmente la foto è stata raddrizzata e ritagliata, ma poco importa, anche in ambito giornalistico un ritocco di questo genere non toglie nulla al valore documentario dell’immagine.

Oltre all’obbiettivo rigore formale dell’immagine ho scelto questo scatto a causa dell’incredibile somiglianza -almeno nella foto- dei due personaggi. A prima vista infatti ho pensato che si trattasse di due foto della stessa persona, scattate una dopo l’altra e affiancate per creare un’unica immagine composita. Naturalmente ad un’analisi minimamente più attenta (la cravatta di colore diverso, il taglio dei capelli e i tratti del viso non perfettamente identici) è evidente che si tratta di due persone diverse, come del resto cita chiaramente la legenda che accompagna la foto:

Peter Kurer, il presidente uscente della banca svizzera UBS (destra), controlla il suo orologio mentre Oswald Gruebel della CEO è seduto accanto. Zurigo 15 aprile 2009, di fronte all’assemblea generale degli azionisti. UBS ha avuto un primo trimestre in perdita e taglierà un altro 11 per cento del personale, ha dichiarato mercoledì il suo nuovo direttore generale, avvisando che la più grande banca svizzera si trova ancora di fronte ad un futuro incerto.

Nonostante questo la somiglianza fra le due persone rappresentate mi sembra evidente, e aggiunge un tocco in più che impreziosisce sensibilmente la fotografia. Una sensazione vaga di alienazione e sdoppiamento, come se i dirigenti delle banche svizzere o i politici fossero un piccolo gruppo di androidi tutti uguali fra loro e programmati per svolgere al meglio, ma senza cuore, il loro compito dirigenziale. Del resto in Italia la gente si lamenta spesso del fatto che i politici si assomigliano tutti fra di loro, indipendentemente dal colore del loro partito. Forse la somiglianza va al di là delle abitudini e dei malcostumi, e investe addirittura le caratteristiche fisiche e corporali dei nostri “beneamati” dirigenti…

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I rischi dell’etimologia, la fotografia giapponese e i semantemi cinesi /it/2009/etimologia-cinese-fotografia-giapponese/ /it/2009/etimologia-cinese-fotografia-giapponese/#comments Sun, 24 May 2009 21:35:30 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=1879
Scrittura cinese
Scrittura cinese

Poco tempo fa su Magma (Il gruppo di discussione fondato da Roberto Vacis e Massimo Cristaldi), si è parlato di “Setting Sun – Writings by Japanese Photographers” di Ivan Vartanian, Akihiro Hatanaka e Yutaka Kambayashi, un libro sulla fotografia giapponese che sembra molto interessante. In particolare è stato scritto:

[...] Al giorno d’oggi il termine che indica l’atto di fare una foto è “satsu-ei”, 撮影, letteralmente “prendere/catturare un’ombra”. Immaginatevi le implicazioni filosofiche sulla fotografia di persone [...]

Questa frase mi ha subito stimolato a fare un commento linguistico, che ho prontamente spedito in risposta. Nei giorni successivi però ho continuato a pensarci, perché è un argomento che mi è caro. Riporto qui allora la mia risposta dopo averla sviluppata e approfondita.

Intanto premetto che non è un attacco personale rivolto all’autore della frase che ho citato. Semplicemente ho notato spessissimo la tendenza ad utilizzare l’etimologia per spiegare la realtà, il più delle volte a mio vedere in modo improprio. Invece di mordermi la lingua per una volta vale la pena dire tutto quello che penso.

Nell’articolo Il disegno di luce e la persecuzione dei greci mi sono già lamentato di quella che ho chiamato appunto “la persecuzione dei greci”. L’idea che fotografia è “scrittura con la luce”, quindi che “fotografia” è tutto ciò che è ottenuto unicamente tramite interazione fra luce e materiale sensibile è ampiamente diffusa. Nella serie di articoli fotografia e verità cerco di mettere in luce il fatto che la presenza dell’avverbio unicamente è assolutamente fuori luogo e non corrisponde alla realtà della pratica fotografica, che include invece tutta una serie di interventi esterni oltre all’unica interazione fra luce e materia. Quello che è interessante sottolineare in questo ambito è che molti partigiani della fotografia come unica interazione fra materiale sensibile e radiazione elettromagnetica cercano di spiegare cosa sia la fotografia -e più in particolare l’idea che sia frutto unicamente dell’interazione con la luce- a partire dall’etimologia della parola stessa. Come se l’etimologia fosse una prova sufficiente delle caratteristiche ultime della fotografia. È chiaro che la parola fotografia è stata inventata appunto perché gli inventori la percepivano come “disegno di luce”, ma fare il percorso inverso, partire dalla parola stessa per determinare la verità ontologica della pratica fotografica, non è a mio vedere giustificabile a rigor di logica.

Da una parte è vero che l’etimologia permette di capire i modi di pensare e di interpretare la realtà di un popolo o di una civilizzazione. Ma bisogna stare attenti all’interpretazione che si fa della storia di una porala. Intanto perché l’etimologia permette di accedere ai modi di percezione del mondo in vigore precisamente nel momento storico in cui la parola è stata inventata, ma non necessariamente a quella delle epoche successive. La percezione delle cose può essere cambiata col passare del tempo, anche considerabilmente. Inoltre non è detto che i modi di vedere degli antichi siano pienamente razionali e logici, in altre parole che corrispondano al vero, o perlomeno ad una caratterizzazione razionale della realtà. Inferire quindi delle caratteristiche fondamentali di una pratica a partire dall’etimologia della parola che la definisce è perlomeno un atto poco oggettivo.

Insomma, in molti casi l’etimologia spiega particolarmente bene perché certe parole siano state inventate proprio in questo modo, perché a partire dall’osservazione della realtà o da un’associazione di idee è stata scelta, o costruita, proprio la parola diventata poi di uso corrente. Fare però il percorso inverso, spiegare quindi lo stato delle cose a partire dalle parole, è a mio vedere spesso fuorviante. Come dicevo purtroppo è un’abitudine che vedo troppo spesso realizzata in ambito intellettuale, utilizzata con disinvoltura da tanti filosofi, psichiatri, giornalisti e analisti, che prendono l’origine greca o latina di una parola e la considerano come realtà fondante. Dall’irritazione che provo ogni volta che incappo in utilizzi di questo tipo dell’etimologia, nasce la motivazione a scrivere questo articolo vagamente polemico.

Ma torniamo a noi. In cinese1 i due sinogrammi 撮影 naturalmente non sono pronunciati come in giapponese, ma anche loro, se presi individualmente significano “raccogliere ombre”. Questo fatto non deve sorprendente, di fatto i giapponesi hanno preso la scrittura cinese e l’hanno fatta loro. Non per niente Kanji è la pronuncia giapponese di hanzi, che letteralmente vuol dire “caratteri cinesi”, o detto più correttamente “sinogrammi”.

Anche in cinese quindi fotografia significa “catturare ombre”2. Bisogna però fare attenzione a concludere che per i cinesi, fosse anche a livello inconscio, fotografia significa “catturare ombre”. Al più, questa è l’immagine più espressiva venuta in mente circa 150 anni fa agli inventori della parola “fotografia” in Cina, ma oggi? Siamo sicuri che i cinesi considerino la fotografia in questo modo?

Il cinese è una lingua in cui non è possibile creare parole senza combinare fra di loro semantemi3. Di solito, quando è necessario creare una nuova parola, vengono combinati due o più di semantemi già esistenti, per creare appunto il neologismo in questione. La creazione di nuovi sinogrammi è invece più unica che rara.

La maggior parte delle parole cinesi sono composte di due sillabe che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno entrambe un significato originale ben preciso; detto altrimenti la maggior parte delle parole cinesi sono composte da due semantemi. Le regole di costruzione sono molto varie, si può trattare di due sinogrammi praticamente sinonimi (o contrari)4, di associazioni di idee spesso molto descrittive5, di combinazioni fonetico-semantiche 6, etc. In ogni caso quando i cinesi devono inventare una nuova parola sono obbligati a ricorrere alle unità base della loro lingua, ovvero i sinogrammi.

Come dicevamo la maggior parte delle parole cinesi sono bisillabiche. In generale le parole di questo genere (e per conseguenza la maggior parte di queste) sono però “lessicalizzate”, ovvero si è perso il senso individuale delle componenti della parola, il senso dei due sinogrammi presi individualmente. Quando per esempio un cinese dice 火车 per dire treno, non pensa a “fuoco” e “vettura” ma pensa proprio a treno. Certo, è chiaro perché il treno è stato chiamato in questo modo, ma fare il percorso inverso, ovvero partire dalla parola per spiegare la visione della realtà attuale, dicendo che i cinesi percepiscono il treno come una “macchina di fuoco” è contradditorio. Se fosse possibile allora bisognerebbe ammettere che i cinesi continuano a interpretare i treni moderni come “macchine e fuoco”, anche se ormai la maggior parte dei treni sono elettrici. In realtà quando a un cinese si dice 火车 questi penserà a un treno punto e basta. Ecco che i due sinogrammi che compongono la parola sono stati lessicalizzati, il senso originario dei semantemi è stato dimenticato e rimane unicamente il senso lessicalizzato.

Non è però necessario scomodare una lingua come il cinese che è completamente esotica per la maggior parte degli italiani. Operazioni di questo genere, seppure in misura minore, le facciamo di continuo pure noi. Quando racconto a qualche amico che bicicletta in cinese si dice 自行车 letteralmente “vettura che cammina da sola”, la maggior parte della gente scuote la testa dicendo: “sono proprio fuori ‘sti cinesi, possibile che non siano mai andati in bicicletta in salita? Come diavolo fanno a immaginare che le bici vanno avanti senza che le si spinga?”. La maggior parte della gente che risponde in questo modo non si rende conto che in realtà i cinesi facevano semplicemente riferimento al fatto che non ci fosse il cavallo, e non a qualche proprietà magica della biciletta. Il sinogramma infatti indica tutti i veicoli a ruote, quindi tutto ciò che somiglia ad un carro; la bici di fatto è una specie di carretta a due ruote che per muoversi veloce non ha bisogno di un cavallo, da cui il nome. Ma soprattutto le persone che scuotono la testa con sufficienza dimenticano anche che in italiano “macchina” si dice più elegantemente “automobile”, che vuol dire esattamente la stessa cosa che bicicletta in cinese. E allora? Possibile che gli italiani non si siano resi conti che senza benzina assolutamente una macchina non si muove automaticamente?

Ma qual’è il rapporto fra fotografia e il significato della parola automobile? Semplicemente non mi sembra si possa partire dall’etimologia della parola giapponese per dire fotografia, per dedurre la visione che hanno i giapponesi della fotografia stessa. Non mi sembra corretto poter dire che i giapponesi percepiscono necessariamente la fotografia come “cattura delle ombre” perché questa è la parola usata nella loro lingua. Se questo fosse vero allora gli italiani percepirebbero le macchine con cui vanno al lavoro come dei carretti magici che viaggiano da soli, quando dicono natura hanno in realtà in testa un po’ di latino: “natus” -il participio passato di nascere- e “urus”, suffisso del participio futuro, i francobolli sono dei marchi che liberano dalle spese postali chi riceve una busta su cui sono stati incollati, e via dicendo. Senza contare poi che in una lingua come il cinese, in certi sensi molto primitiva, dove è necessario combinare costantemente diversi sinogrammi per creare l’equivalente delle parole, la lessicalizzazione è un fenomeno diffusissimo e molto più forte che in italiano. Spessissimo i cinesi, quando gli si chiede il significato individuale di due sinogrammi che costituiscono un parola disillabica, sono addirittura incapaci di rispondere, tanto il senso lessicalizzato è diventato preponderante sui due significati originali dei sinogrammi presi individualmente.

Se è evidente che nella lingua rimane il riflesso della percezione della realtà di un popolo, affermare il contrario, ovvero che a partire dalla lingua è possibile spiegare la visione della realtà di una civilizzazione, è un cammino forse un po’ troppo irto di pericoli.

  1. Discuto del cinese perché è l’ambito per il quale sono competente, ma le mie conoscenze (limitate) del giapponese mi permettono di affermare con ragionevole certezza che i meccanismi descritti per il cinese sono simili a quelli del giapponese.
  2. Iin cinese in realtà “fotografia” si scrivere differentemente che in giapponese, ovvero 摄影. Questa differenza però non ha nessuna conseguenza fondamentale sul discorso esposto, significa raccogliere e in questo contesto può essere assimilato a , che appunto significa anche lui raccogliere.
  3. Un semantema è la più piccola unità portatrice di senso di una lingua. In italiano spesso corrisponde ad una parola, ma non necessariamente. In “automatico” la parte “auto”, pur non costituendo una parola a sé stante, è comunque portatrice di senso, ed è quindi un semantema.
  4. Per esempio 认识 che significa “conoscere”, è formato da che vuol dire “riconoscere, distinguere” e che significa “conoscere, chiaroveggenza”. Conoscere non si può dire né con né con individualmente (anche se questi caratteri concorrono alla formazione di molte altre parole), ma con la combinazione dei due.
  5. Contraddizione 矛盾 letteralmente significa “lancia scudo”. Una storia nota a tutti i cinesi narra di un mercante di armi che vantando i suoi articoli diceva: “I miei scudi sono talmente solidi che niente può spaccarli. Le mie lance sono così appuntite che niente può arrestarle”. Al che qualcuno chiese: “E se si usano le tue lance contro i tuoi scudi cosa succede?”
  6. Camion 卡车 utilizza la prima sillaba della parola inglese camion 卡 (che vuol dire “carta” come in “carta da visita”, ma si pronuncia ka come “camion” in inglese) e la combina con 车 che indica tutti i veicoli a ruote.
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La neve e la magia di Muhammad Hamed /it/2009/muhammad-hamed/ /it/2009/muhammad-hamed/#comments Sun, 25 Jan 2009 22:22:21 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=975 Muhammad Hamed
© Muhammad Hamed, Reuters

Cade la neve, e il mondo si trasforma. Il vicino e il lontano perdono il loro significato, tutto diventa un’uniforme distesa bianca che abbaglia e lascia esterrefatti. I contorni delle cose sfumano l’uno nell’altro, si fondono insieme, in un’unità universale. Il tempo si cancella, esiste solo un presente eterno, che ha in se i ricordi di un mondo antichissimo e i semi di quello che verrà. I suoni sono ovattati, assorbiti dalla neve. Non ci si stupisce allora di vedere un uomo tentare un incantesimo su di una palla di neve.

Vedendo questa fotografia di Muhammad Hamed è proprio questo quello che penso. Non sto vedendo un arabo un giorno di neve, ma un mago di un mondo antico senza tempo, che saltella nel vuoto bianco tenendo in mano una gigantesca palla di neve su cui sta facendo qualche giocosa magia.

La foto è in realtà un’immagine di cronaca e questa è la didascalia che l’accompagna:

Il 31 gennaio ad ad Amman gli abitanti giordani approfittano di una rara nevicata per giocare un po’. Un’intensa tempesta di neve ha colpito la Giordania la notte precedente, facendo chiudere scuole e negozi, bloccando i trasporti pubblici, e trasformando per un momento uomini in bambini.

Ma vedendola non ci voglio credere! Voglio continuare a credere alla magia, a questo personaggio dal bellissimo mantello rosso senza tempo, che sembra danzare di gioia, la felicità più pura dipinta in viso, quest’immensa palla di neve in equilibrio su una mano, e l’altra in un gesto veramente da mago Merlino. Come l’altra persona dietro, che sembra pregare il dio della neve. Che foto stupenda!

Fra l’altro mi piace molto che per una volta il mondo arabo viene mostrato col sorriso. Di fatto nel mondo occidentale l’universo mussulmano è demonizzato come qualcosa di lontanissimo e incomprensibile, credo che alla maggior parte delle persone la vista di un arabo e di una kefiah rossa, faccian pensare immediatamente alle donne col velo e il burqa che le nasconde completamente, al programma nucleare dell’Iran e alla guerra del golfo, alle violenze della striscia di Gaza, all’ineguaglianza dei sessi, all’estremismo religioso, gli attentati suicidi, una religione e un modo di vivere che sembra inflessibile e senza un sorriso. Una cosa bellissima di questa fotografia di Muhammad Hamed è che ci presenta questo mondo sotto un angolo per noi completamente inaspettato, non solo un mondo ricoperto di neve invece di un arido deserto di sabbia, ma un modo fatto di gioia e dove la magia esiste ancora, dove basta che cada la neve per far nascere un sorriso e una felicità invidiabile sul volto delle persone.

Quale miglior dimostrazione che sotto sotto gli esseri umani son tutti uguali.

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La Cina di Yann Layma /it/2009/cina-yann-layma/ /it/2009/cina-yann-layma/#comments Sat, 03 Jan 2009 13:51:56 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=796 Yann Layma

Ormai già qualche anno fa, sulle griglie del giardino di Lussemburgo a Parigi, vidi una di quelle esposizioni che restano nei ricordi come pietre miliari: le fotografie in Cina di Yann Layma.

Me ne innamorai a prima vista, molte foto di Yann Layma le ricordo perfettamente ancora oggi, a distanza di anni, con la stessa chiarezza, lo stesso stupore e ammirazione, e sono entrate a far parte del mio immaginario iconografico sulla Cina.

Studio Cinese e faccio fotografia per mille ragioni, che possono essere riassunte in un banale e lapidario “perché mi va”. Perché sono sempre stato affascinato da ciò che è diverso, lontano, incomprensibile, difficile, sconosciuto. Perché il viaggio è la dimensione di vita che mi è più congeniale, l’unica che mi fa sentire veramente vivo, che possa dare un rilievo all’esistenza, una traccia qualunque di senso. Queste sono le ragioni principali e non sono una persona cui piace identificare dei maestri più o meno spirituali, che vede le scelte della vita come un seguito di eventi chiave imposti dall’esterno, che fa riferimento ad una figura speciale per addossargli i meriti, ma anche la responsabilità, delle proprie scelte. Nonostante questo devo confessare che uno dei momenti che ha determinato prepotentemente il mio interesse tanto per la Cina che per la fotografia è stata la scoperta delle fotografie di Yann Layma.

Yann Layma
Dettaglio ombrelli e persone.
© Yann Layma

Le foto della mostra sono raccolte insieme a centinaia d’altre, in uno splendido libro, che naturalmente ho comprato appena trovato da Mona Lisait, intitolato semplicemente China, e che è diventato uno dei miei libri di fotografia preferiti in assoluto. Si possono ammirare le favolose terrazze delle risaie del Sichuan, illuminate da un tramonto che le trasforma nello scenario del sogno più poetico e visionario che si sia mai fatto, monaci in contemplazione su terrazze che si affacciano su dei precipizi che sembrano profondi e inscrutabili come i misteri dell’universo, distese di binari, treni, locomotive fumanti di un mondo monocromatico dipinto solo col bianco della neve e il nero del carbone e dei vagoni, spiagge affollatissime, senza un solo angolo di sabbia o di mare che non sia occupato, distese intricate e interminabili di biciclette, costruzioni di grattacieli immensi e naturalmente una miriade di volti, personaggi, situazioni, fatti quotidiani, che costituiscono un documento corale e toccante di quello che è il teatro della vita.

La forza delle fotografie di Yann Layma mi pare risieda proprio in questo, nella loro universalità. Non si tratta di documentare un conflitto in qualche regione lontana del mondo, o le ultime tradizioni che rischiano di sparire di qualche tribù della steppa. Le fotografie di Yann Layma sono un ritratto a 360° della Cina, una rappresentazione collettiva di quello che è un continente intero, sono la storia di una vita dedicata al viaggio e alla scoperta, di cui si riesce appena ad intuire la portata, l’infinità varietà di situazioni, di cui si immagina a mala pena la quantità sicuramente infinita di aneddoti e storie. Storie e situazioni che si riconoscono immediatamente come universalmente umane, lasciando cadere con un’unica decisa folata di vento le pretese diversità fondamentali fra oriente e occidente, le fotografie di Yann Layma mi pare siano una bella prova di come, alla fin fine, nell’esistenza umana ci sia un sostrato comune indipendente tanto dal colore della pelle che dalla cultura e le tradizioni, un qualcosa cui siamo tutti sensibili.

Yann Layma
Dettaglio scogliera.
© Yann Layma

Inoltre quelle di Yann Layma sono fotografie che, nonostante la coralità e l’apparente eterogeneità, alla fine documentano in modo vibrante e vivido un momento ben preciso, un paese a cavallo fra tradizioni e innovazioni, la Cina come ce la immaginiamo qui in occidente e la Cina moderna e industrializzata, una Cina fatta di trasformazioni che sicuramente già non esiste più, già è lontanissima da quella attuale. Si sente sempre dire che il fotogiornalismo impegnato racconta storie coscientemente articolate attorno ad una scelta coerente e solida di immagini, la famosa serie coerente che tutti consigliano come prerogativa indispensabile di qualunque serio lavoro fotografico. Forse le fotografie di Yann Layma sono nate anche loro come elementi di una serie. Una volta presentate nel libro però non diventano assolutamente aneddotiche, non perdono assolutamente della loro incisività e precisione documentaria. Guardandole sento la stessa coerenza e forza che percepisco in una retrospettiva di un grande nome della fotografia, la stessa impressione di solidità che trovai nella mostra alla MEP di Marc Ribaud. È tutta la vita di Yann Layma che costituisce una serie coerente di immagini.

Dal punto di vista artistico, dove per arte, a difetto di una definizione precisa impossibile da dare, si intende ciò che si vede e si vende nelle gallerie e nei musei di arte contemporanea, a rigor di logica le foto di Yann Layma stanano un po’. Nel panorama odierno, banalizzando provocatoriamente, nella maggior parte di casi quello che conta per la fotografia artistica è il concetto, lo statement, una qualche esplorazione visionaria di una qualche idea esistenziale. Il tutto unito, nella maggior parte dei casi, ad una freddezza e oggettività formale, all’immagine spoglia e priva di sentimento e di pathos, come se non ci fosse nessuna ricerca fotografica al di là dell’idea, se quello che conta in un ritratto è il fatto che quella persona sia davanti alla macchina fotografica e perché, punto e basta. In altri casi invece, al contrario, è proprio la manipolazione dell’immagine a fondare la presupposta artisticità delle immagini: utilizzo di tecniche antiche o alternative di stampa, fotomontaggi al computer, deformazioni dei volti e tutti i possibili interventi che riescano a far uscire in qualunque modo l’immagine dal già visto o dal già fatto, donandogli un carattere individuale e originale. Ma anche stratagemmi stilistici vari in fase di ripresa, come ho già in parte discusso a proposito di Photo Quai e dell’accademismo moderno. vari in fCome se fare semplicemente fotografie non fosse più sufficiente, come se fosse necessario aggiungere qualcosa in più, sul piano concettuale o formale poco importa.

Yann Layma
Dettaglio alberi e pagoda.
© Yann Layma

Nelle fotografie di Yann Layma non è presente, né l’asettica oggettività del concettuale né la ben minima manipolazione delle immagini, nella maggior parte si tratta addirittura di diapositive. Guardandole si percepisce subito come non si tratti del tipo di fotografie che girano nelle gallerie, ma piuttosto per un circuito editoriale. Yann Layma fa fotografie un po’ come si faceva cinquant’anni fa, va in giro e coglie la bellezza che vede attorno a lui, senza aggiungere nulla di più e nulla di meno del proprio occhio, del proprio sguardo. Forse per la maggior parte degli addetti ai lavori, degli “artisti” questo implicherebbe l’instaurarsi di una sorta di gerarchia di artisticità fra i loro lavori e le foto di Yann Layma. Personalmente preferisco le foto di Yann Layma. Saranno anche meno artistiche, nell’accezione sviluppata poco sopra, ma sono infinitamente più vicine al mio gusto della maggior parte delle opere che vedo nelle gallerie d’arte. E sono anche più vicine alla fotografia, se mi si permette l’abuso di linguaggio.

Mi pare infatti che ancora la fotografia soffra di un complesso di inferiorità rispetto alle arti visive. Sembra che ancora, nella testa della gente, una foto non possa essere un prodotto nobile e sufficiente a se stesso, e ne do questa definizione per non utilizzare il termine abusato “opera d’arte”, se non è nobilitata da un’iniezione di concettualità o la deformazione delle manipolazioni formali. Le fotografie di Yann Layma in un certo senso superano questo problema, lo trascendono in maniera naturale. Sono bellissime, e per esserlo i mezzi propri alla fotografia gli sono perfettamente sufficienti, non hanno bisogno di cercare altrove nessuna giustificazione esterna aggiuntiva, né nel concetto né nella manipolazione. La cosa divertente è che in un certo senso le fotografie di Yann Layma sono straordinariamente pittoriche, e questo senza utilizzare nessuno degli espedienti proprio del pittorialismo, senza voler cercare di imitare la pittura, ma mantenendo una intatta la purezza fotografica. Sono pittoriche, perché delle grandi opere pittoriche del passato condividono la magnificenza e universalità, perché nella nostra educazione all’immagine siamo abituati a vedere tanta grandiosità solo nei grandi quadri epici e storici del passato.

Dopo questa lunga introduzione passiamo alla fotografia che accompagna quest’articolo, fin dal primo giorno la mia preferita. Delle foto di Yann Layma ce ne sono almeno una decina che meriterebbero un posto in questa categoria “attorno ad una foto” ma questa in particolare è fin dall’inizio quella che più di tutte mi è rimasta nel cuore.

Yann Layma
Dettaglio attracco.
© Yann Layma

Come già detto (a proposito della foto di Jean Claude Louis) ho sempre avuto un debole per le fotografie scattate nei giorni di intemperie, e gli ombrelli sono sempre stati un elemento importante nel mio personale panteon nostalgico. Il luogo è da sogno: un lago gelido contornato da ripide scogliere rocciose, un chiosco a forma di pagoda su un isolotto sperduto e imbiancato di neve. Cos’è, un tempio? Il gazebo dove un saggio va a meditare o dove si incontrano gli innamorati? Gli alberi sembrano disegnati, i rami sembrano i tratti rapidi e decisi di una calligrafia cinese. Lo sfondo, sembra un dipinto pure lui, perso in una tempesta di neve che stempera i contorni delle cose, li rende dolci e immaginari, come i sogni subito prima del risveglio del mattino. Una barca, lunga e affilata scivola veloce sull’acqua nera e nel vento impetuoso. Tre persone a bordo, qualcuno che rema, qualcuno che si intuisce è subordinato agli altri due, personaggi misteriosi che trasportano chissà cosa, che vanno chissà dove, mentre stanno seduti su una barca da sogno in un lago da sogno e tentano vanamente di ripararsi sotto ai loro ombrelli, dalla neve di una tempesta da sogno.

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Le ricostruzioni di Iosif Kiraly /it/2008/iosif-kiraly/ /it/2008/iosif-kiraly/#comments Fri, 26 Dec 2008 16:11:42 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=751 Iosif Kiraly

Iosif Kiraly è un fotografo artista di Bucarest. Sul suo sito sono presenti numerose fotografie, appartenenti ad una decina di progetti diversi. Le immagini sono tutte “molto artistiche”, nel senso della parola arty in inglese, ovvero l’interesse maggiore è nel concetto, nell’istallazione, nel messaggio, e meno nella produzione di fotografie curate e estetizzanti nei canoni della fotografia pura. Insomma, Iosif Kiraly usa più la fotografia come mezzo di espressione artistica che come media in sé.

Nei vari progetti sul sito di Iosif Kiraly, come Reconstruction, Triaj ma anche Tinseltown, è ricorrente l’uso dello stitch di immagini, ovvero il riassemblare insieme diverse fotografie scattate individualmente per creare un’unica grande immagine. Si tratta di una tecnica che mi è sempre stata cara, per la possibilità che offre di costruire file giganteschi, e di abbracciare angoli di campo immensi, addirittura a 360° attorno al fotografo.

Iosif Kiraly
© Iosif Kiraly

La maggior parte dei fotografi che utilizzano lo stitch si sforzano di eliminare ogni difetto di incollaggio delle immagini. In fase di scatto si utilizza una testa panoramica in modo da girare attorno al punto nodale della macchina fotografica e eliminare in questo modo gli errori di parallasse; si scatta il più rapidamente possibile per conservare l’uniformità fra le istantanee da incollare insieme. In fase di incollaggio ogni fotografia poi viene deformata tramite tecniche complesse di triangolazione matematica, in modo da minimizzare le distorsioni dell’ottica e far coincidere perfettamente ogni elemento dell’immagine. Il colore e la luminosità di ogni foto viene trattata in maniera che le transizioni siano lisce e uniformi fra ogni scatto, cosa particolarmente difficile sui cieli.

Iosif Kiraly non fa niente di tutto questo, incolla semplicemente le immagini una sopra l’altra, con dello scotch, allineando solo approssimativamente le foto, non restando esattamente nello stesso posto, e soprattutto lasciando passare giorni o mesi fra uno scatto e l’altro. Un buon esempio di come gli “errori” se utilizzati creativamente diventano pregi di una fotografia, di come non esistano regolare da rispettare, basta lavorare utilizzando il cervello e il cuore e si può percorrere ogni strada.

Iosif Kiraly
© Iosif Kiraly

Ma la procedura di Iosif Kiraly è qualcosa che aggiunge del senso alle immagini? O un semplice giochino che permette di trasformare fotografie banali valorizzandole unicamente grazie al procedimento scelto? Le foto hanno un reale valore artistico è solo uno stitch volutamente fatto male?

Il dubbio resta con praticamente tutti i lavori dei fotografi-artisti contemporanei. Personalmente però trovo gli assemblaggi di Iosif Kiraly particolaramente piacevoli. Sul suo sito dice di investigare il tempo e la memoria, come la nostra mente dimentica e ricorda. Queste fotografie dalle prospettive multiple e frammentate, dove nella pseudocoerenza spaziale si annida una evidente discontinuità temporale (che ci fanno le persone in maglietta e una strada innevata inseme?), mi fanno cadere in una sorta di vertigine, come se stessi guardando la struttura del mondo uscendo dal cerchio dei metodi di percezione sensoriali, come se stessi guardando nell’armadio dentro il gioco Nirvana del celebre film di Salvatores. L’effetto ricorda in parte quello ottenuto con le pose lunghe o molte immagini sovrapposte. Una confusione strutturata che ho sempre trovato affascinante e intrigante.

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Le quattro bellezze di Liu Zheng /it/2008/liu-zheng/ /it/2008/liu-zheng/#comments Sat, 13 Dec 2008 17:06:04 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=724
liu zheng
Diao chan – © Liu Zheng

Liu Zheng è un fotografo di origine cinese che ha a lungo ritratto una Cina lontana dalle immagini ufficiali, dallo sviluppo, dalla modernizzazione. Fotografie di monaci Taoisti dai volti scolpiti di rughe, di budda imprigionati in gabbie posate in un nulla nebbioso, cadaveri disseccati di feti umani, minatori dal volto nero e stanco, personaggi che sembrano pazzi e vagamente deformi… il tutto con un bel bianco e nero classico e dal sapore antico.

Questo gusto per un mondo diverso e vagamente morboso si è poi ulteriormente sviluppato in una serie di fotografie di messe in scena di ampio respiro, con diversi personaggi rappresentati, di solito uomini e donne nude implicate in scene erotiche più o meno esplicite e allusive. Il tutto in una coreografia ridondante e barocca, che ricorda molto certe fotografie di Witkin, anche per l’uso molto simile del bianco e nero, dei fondali teatrali, delle modifiche della superficie dell’emulsione.

Liu Zheng
Wang Zhaojun – © Liu Zheng

Entrambe queste serie mi piacciono molto, sia per i temi che per la realizzazione, ma il lavoro di Liu Zheng che è più vicino al mio gusto fotografico attuale è “Le quattro bellezze”.

Una specie di evoluzione naturale delle messe in scena erotiche, dove ancora si ritrovano i nudi femminili e la presenza di diversi personaggi in interazioni complesse. Questa volta però si tratta di foto a colori, pulitissime e impeccabili. Stampe di grande formato, dalle composizioni estremamente eleganti e grande ricchezza di dettagli. All’interno di ognuna delle quattro fotografie che compongono la serie è infatti possibile ritagliare decine e decine di fotografie che non sfigurerebbero minimamente come immagini isolate, sufficienti a se stesse.

Liu Zheng
Xi shi – © Liu Zheng

Questa è una delle caratteristiche che più mi attira in “Le quattro bellezze” di Liu Zheng. Questa sovrabbondanza di bellezza, questo fasto ai limiti del lusso, riunire in una sola imagine tutta la bellezza, la composizione, la luce e la cura che di solito sono necessarie per decine di fotografie diverse. In ogni fotografia non c’è un’unica scena in atto, ma una molteplicità di azioni più o meno concatenate o slegate fra loro, che creano un continuom dinamico particolarmente avvolgente. Non si sa mai se la scena principale è quella dell’uomo che cerca di strangolare il ragazzo con una corda, la fanciulla sdraiata con le gambe divaricate, il vecchio in ginocchio che sembra suicidarsi con la sua spada.

Un’altra particolarità rispetto agli altri lavori di Liu Zheng è che le scene sono tutte in costumi antichi, di grande ricchezza e bellezza. Personalmente ho sempre amato i libri e i film di questo genere, anche se di qualità obiettivamente non eccelsa ho sempre avuto un’attrazione speciale per le storie di spade e cavalieri. E in particolar modo ho sempre amato i film cinesi di arti marziali, specialmente quelli che raccontano storie antiche. Queste fotografie di Liu Zheng mi fanno ricordano con prepotenza tutte queste emozioni e questi ricordi cinematografici, mi fanno pensare in modo confuso a Hero e La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou, a L’imperatore e l’assassino di Chen Kaige, The warlords di Peter Chan o Three Kingdoms: Resurrection of the Dragon di Daniel Lee, giusto per citarne qualcuno.

Liu Zheng
Yang Guifei – © Liu Zheng

Non so se le fotografie di Liu Zheng rappresentano fatti storici reali ben noti in Cina, o romanzi e leggende famose nel regno di mezzo. Non mi interessa poi tanto. Per amare queste fotografie mi basta guardarle e perdermici dentro, in un viaggio di fantasia in un tempo e in un regno che forse non è mai esistito.

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Dalla Finlandia di Markku Lahdesmaki alla storia epica di Siberiade /it/2008/markku-lahdesmaki-siberiade/ /it/2008/markku-lahdesmaki-siberiade/#comments Sat, 08 Nov 2008 14:31:18 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=642 Markku Lahdesmaki

Markku Lahdesmaki è un altro di quei fotografi il cui lavoro amo quasi incondizionatamente, tanto che mi chiedo perché ancora non gli ho proposto di pubblicare una galleria su Camera Obscura. Per il momento mi accontento di citare una sua foto che mi ha risvegliato particolari ricordi, sperando di poter fare presto un’intervista con questo bravissimo fotografo finlandese. Nel frattempo vale comunque la pena una visita approfondita del sito di Markku Lahdesmaki, cosa che consiglio veramente a tutti.

I portfolio presentati sono numerosi e tutti di ottima qualità, sono molto rare le fotografie che non mi piacciono o mi lasciano indifferente. Anche lavori un filo più concettuali sono esteticamente impeccabili, cosa che non smetterò mai di ripetere è -per quanto mi riguarda- di un’importanza fondamentale. Altra cosa che apprezzo particolarmente è che le foto spaziano su molti temi e soggetti e anche lo stile evolve di progetto in progetto. Mi son sempre piaciuti i fotografi che non si limitano ad esprimersi su un unico tema e in un unico modo, e mi sento particolarmente vicino a loro. L’unica cosa che ho da ridire è, a tratti, un ritocco al computer un filo troppo stridente per i miei gusti, o delle maschere evidenti, degli aloni e dei bordi troppo netti. Ma in un certo senso sono un po’ ossessionato dal ritocco perfetto, e la bellezza delle sue fotografie mi fa perdonare qualche imperfezione tecnica di questo tipo.

Da vedere in particolare la serie di fotografie sulla corsa allo spazio della Cina, la stazione di petrolio e gli animali surreali rovesciati in un paesaggio completamente desolato. Tutti portfolo veramente entusiasmanti.

La fotografia che ho scelto per questo articolo appartiene ancora ad un’altra serie di Markku Lahdesmaki. Fotografie che intuisco sono ambientate nella sua Finlandia natale, nei boschi, le campagne e i villaggi. Si vedono grandi omaccioni con abiti all’antica, donne che escono dalle loro case di legno, un fazzoletto legato in testa come si faceva una volta, un vecchietto che falcia l’erba, due amanti che si baciano in un bosco… Oltre ad essere pervase da un’atmosfera dolce e sognante le fotografie sono tutte estremamente narrative, ognuna sembra raccontare una storia, un aneddoto, un evento. Immagino siano tutte messe in scena, ma la freschezza e spensieratezza delle immagini è piacevolissima. Le foto sono molto ritoccate, si sente il digitale, ma questa impressione un po’ finta in questo caso non fa che rafforzare la sensazione di trovarsi in una favola, di aprire gli occhi su un mondo in cui il tempo si è fermato, un mondo dei paesi del nord, rimasto prigioniero di una leggenda che ancora continua ad esser raccontata.

Markku Lahdesmaki
© Markku Lahdesmaki

Nella fotografia di Markku Lahdesmaki che ho scelto per questo articolo, due omaccioni si stanno battendo proprio nel centro del fotogramma, tirando con forza le rispettive maglie, guardandosi negli occhi con furia e rancore, l’altra mano protesa indietro, la rabbia così forte che non riusciranno a frenarla ancora per molto. Appena più indietro un uomo, più anziano e di uno stato sociale più elevato dei due che si strattonano, è seduto al sole, osservandoli con la stessa impassibile calma della donna che si trova sull’altro lato della fotografia, anche lei guardando la scena da qualche passo di distanza, una camicia bianca orlata di pizzo e i capelli rossi che splendono al sole. Sullo sfondo uno splendido lago, verdi praterie e una foresta di quelle in cui di sicuro si trovano ancora fate e folletti.

Perché questa rissa fra i due? Uno di loro ha subito un torto da parte dell’altro? Si tratta forse di un rito popolare, di una tradizione arcaica, cosa che spiegherebbe la compostezza degli spettatori? Che lavoro fanno i due uomini? Sono boscaioli o traghettatori? E chi sono le due persone più ricche? Quante domande che non avranno mai risposta. Quante storie si riescono a inventare. Questa foto è una porta sulla fantasia, basta guardarla per viaggiare lontano, per entrare dentro un mondo ed una fiaba, una fiaba senza inizio e senza fine.

Ma c’è un motivo in più che mi ha spinto a redigere un articolo. Appena ho visto questa foto infatti ho pensato a Miguel, conosciuto in Antartide, un omaccione grande e grosso alla fine del suo secondo inverno, un omone poi non troppo diverso dai due che fanno a pugni nella foto di Markku Lahdesmaki. Un tipo un po’ matto, che mi mostrava tante suo foto incredibili. Durante il primo inverno in Antartide, alla base San Martín mentre faceva il sub con maschera e boccaglio, con gli sci da fondo ai piedi, sull’infinita banchisa polare, punteggiata da migliaia di foche di Weddell, rosso in viso per lo sforzo, sulla ghiaiosa vetta a 7000 metri d’altezza dell’Aconcagua, la montagna di cui si dice che il mal d’altitudine resti misteriosamente mortale pur somministrando ossigeno o riportando chi ne soffre a bassa quota.

Markku Lahdesmaki
© Markku Lahdesmaki

Miguel un giorno mi dette un film, dicendo con grande enfasi che era veramente magnifico: Siberiade. Il film è effettivamente stupendo, lungo, epico e toccante. Personaggi mitici, il vecchio eterno che non muore mai o il padre di Nikolai, ostinato ad aprire la sua strada nella foresta che conduce ad un’irraggiungibile stella. L’amore, il tempo che passa. La guerra, la distanza, le speranze tradite, l’attesa, i ricordi, la malinconia, le vite sprecate. Un film corale che lascia in gola una voglia di piangere, piangere per l’umanità intera, per le vite che scorrono attorno a noi, per tutto quello che passa e se ne va, per i ricordi e le impressioni.

Ebbene, per qualche ragione, la foto di Markku Lahdesmaki mi ha ricordato subito le scaramucce fra Nikolai e i membri della famiglia Solomins, quando si batte con i fratelli della sua amata. Ma la connessione si spinge più in là. Rivivo un po’ le stesse belle immagini, gli stessi luoghi stupendi, i personaggi incredibili e soprattutto il ricordo delle grandi emozioni vissute vedendo Siberiade. E naturalmente Miguel, il mio secondo viaggio in Antartide, e tutte le storie e le sensazioni di quei giorni. A volte nella memoria si creano dei ponti, una specie di rete che connette i ricordi cari, le opere amate. Allora ricordi, fotografia, cinema, poesia diventano tutt’uno e rimane solo l’emozione.

Per finire con quest’immagine mi pare si possa dire che tecnicamente la foto è veramente ammirevole. La composizione è impeccabile. Idue uomini al centro, che danno stabilità e forza all’immagine, i due personaggi indietro, che aprono lo spazio come se fosse infinito, molto più grande di quello che riusciamo a vedere, il tronco in primo piano a decorare l’erba e infine lo sfondo di questo paesaggio fantastico per caratterizzare geograficamente la scena che abbiamo sotto agli occhi. La luce è splendida, come sa esserlo alle alte latitudini. I vestiti e i volti dei personaggi, così espressivi e pieni di vita. Il ritocco, tutto giocato su un aumento dei contrasti, mantenendo una cromia pastello, senza nessuna saturazione eccessiva.

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Il fascino dell’Asia in Mimi Ko /it/2008/cina-mimi-ko/ /it/2008/cina-mimi-ko/#comments Wed, 01 Oct 2008 07:55:42 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=599 mimi ko

Devo ammettere che in generale, quando faccio qualcosa, mi ci appassiono completamente e senza riserve. Questo è molto bello, perché si ha l’impressione di vivere sempre su una vespa senza casco, con il vento nei capelli e la velocità che ti scorre sotto i piedi, ma ha anche i suoi risvolti negativi. Finisco sempre per infilarmi al 100% in una qualche attività, a dedicarmi anima e corpo, a indossare una vita che poi piegherò e metterò in un cassetto, per indossarne una nuova. Qual’è allora la mia vita vera? Le mie vere passioni, le cose che veramente mi piacciono? Questi innamoramenti passeggeri, per quanto intensi, non saranno forse un modo per nascondere una mancanza di fondo?

Probabilmente la verità, come al solito, sta nel mezzo. Da una parte tutto lo scibile umano, se ti ci interessi, è affascinante per davvero. Dall’altra sono fatto per saltare di palo in frasca, la mia vita sarà sempre così, e conviene prenderne atto piuttosto che battersi inutilmente contro questa tendenza. Sto comunque sempre attento che non diventi una mania, vivere a fondo, con l’accelleratore pigiato al massimo, ma se c’è una curva comunque non finire fuori strada. Insomma, cercare un equilibrio. A volte basato sugli eccessi, ma comunque un equilibrio.

Da un anno studio cinese e nell’ultimo mese ho fatto il salto di qualità. Ormai arrivo a parlare quasi correntemente, capire la maggior parte dei dialoghi fra due persone e il senso generale di un articolo di giornale. Ma la conoscenza della lingua non è venuta da sola. Ho modificato le mie amicizie, e ormai frequento soprattutto asiatici o persone che si interessano alla Cina. Quasi tutti i giorni cucino e mangio cinese, da solo o con qualche ragazza che mi insegna a cucinare e parlare allo stesso tempo. Non mi ricordo più quando è stata l’ultima volta che ho mangiato in un ristorante francese qui a Parigi. Degli ultimi venti film che ho visto 19 sono stati sicuramente girati nella Repubblica Popolare. Quasi tutte le ragazze per strada che mi fanno girare la testa hanno gli occhi a mandorla. Una passione totale.

Per quanto riguarda la fotografia succede un po’ la stessa cosa. Un po’ è alla moda un po’ lo cerco io. Ho visto moltissime mostre di fotografi cinesi, uno dei feed più letti sul mio reader è Asian Photography Blog, le immagini con persone, luoghi, allusioni cinesi mi stanno automaticamente simpatiche.

Per quanto riguarda la fotografia di Mimi Ko che accompagna questo articolo sicuramente all’inizio si tratta di questo. la molla che fa scattare l’apprezzamento, l’interesse. L’istintiva empatia e attrazione per la bella ragazza che occupa il centro del fotogramma. La curiosità, il tentativo di capire, di compenetrare una cultura che, nonostante un anno di sforzi, mi resta ancora quasi completamente oscura.

Poi naturalmente non basta, ci sono mille ragioni che mi spingono a scegliere questo scatto per un articolo. L’inquadratura centrale, la luce fredda e bluastra, il senso di leggerezza e distacco della cromia quasi completamente assente, il viso nascosto della modella, gli occhi invisibili, una particolarità che mi ha sempre affascinato nei ritratti e nella fotografia dei corpi.

Ma la serie intorno ad una foto è sempre stato il luogo dove raccontare qualcosa di più della fotografia. I suoi riflessi nella poesia, la musica, il cinema il quotidiano. Ed oggi volevo parlare delle mie passioni quasi monomaniacali, o più nello specifico il grande fascino che negli ultimi tempi la Cina, e l’Asia in generale, esercita su di me. Un fascino potente e totalizzante, che non lascia quasi più posto per niente. Fino a che sarà soppiantato da qualcos’altro, in un ciclo che si rinnova senza fine. A ben vedere non siamo poi così lontani dal 天命 che in Europa conosciamo come il mandato celeste, che ha regolato la successione dinastica di 3000 anni di storia cinese. Non siamo poi così lontani dall’interpretazione degli esagrammi del libro delle mutazioni e le infinite divinazioni e speculazioni dei millenni successivi. Dalle scuole di pensiero del regno di mezzo, che per secoli e secoli hanno pensato e descritto l’universo e le cose umane in termini di successioni e cicli.

Se in tutto ciò esiste un po’ di saggezza oltre alla superstizione e all’amministrazione del potere, allora sono sulla via giusta.

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Desirée Dolron e l’illusione dell’amore /it/2008/xteriors-desiree-dolron/ /it/2008/xteriors-desiree-dolron/#comments Thu, 18 Sep 2008 19:44:22 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=573 Desiree Dolron
Xteriors
© Desirée Dolron

È da quando ho iniziato questa serie di articoli dedicati a foto speciali che ho intenzione di parlare di Desirée Dolron e dei suoi ritratti della serie Xteriors.

Fare classifiche è stupido e non porta lontano, in nessun campo e nemmeno in fotografia. Ma se fossi obbligato a scegliere 10 foto di fotografi contemporanei che porterei su un’isola deserta alla fine del mondo, sicuramente Desirée Dolron sarebbe nella selezione. Mi innamorai a prima vista delle sue fotografie, la prima volta che le vedi pubblicate su Zoom, ed ebbi poi il piacere di contemplare le bellissime stampe quando vennero esposte qui a Parigi, splendido modo per consolidare quello che sarà un sentimento stabile e duraturo.

Di tutti i suoi lavori la serie Xteriors è sicuramente la mia preferita, seguita da vicino da Gaze, magici ritratti subacquei. I due portfolio Te di todos mi sueño su Cuba e Exaltation sulle pratiche religiose sono interessanti ma non all’altezza delle magnifiche due altre serie di fotografie. Di Xteriors le mie preferite sono senza dubbio l’albero (di cui non riesco ancora a capire il segreto di tanta bellezza) e i ritratti femminili in primo piano. Fra queste immagini è difficilissimo scegliere, fare una classifica, prendere una foto per farne un articolo. Si va sulle finezze, la perfezione di un viso, la bellezza di una ragazza, perché la purezza della composizione e della luce è presente in tutte le immagini.

Ma alla fine scelgo, anche se un filo a malincuore, ed è la fotografia che accompagna questo articolo, è questa per me la più bella delle fotografie di Desirée Dolron.

Mi rendo conto che in questo caso non è solo la foto in se stessa, visto che ormai è la perfezione totale, ma il soggetto a determinare la scelta finale. Dal punto di vista tecnico niente da dire. Perfezione totale, basta provare a fare un ritratto dello stesso sapore per rendersi conto di quanto sia difficile ottenere quella luce, quella cromia così riuscita, quella resa morbida dei volti. Perfezione assoluta.

La luce infatti è fantastica, la composizione classica e riuscitissima. I giochi di chiaro e di scuro disegnano i volumi del viso, dei capelli e dei vestiti come nei più bei quadri antichi. I colori della fotografia sono tenui e lividi, il biancore della pelle di una purezza sovraterrena, la pettinatura misteriosa e perfetta. I tratti del viso sono sottilissimamente modificati dal ritocco, mai palese: le sopracciglia e le ciglia sono inesistenti, gli occhi sono più grandi, il collo più lungo. Le forme del viso sono lisce, levigate ed armoniose, la pelle morbidissima. L’espressione del viso è misteriosa, assorta, sfuggente, concentrata, malinconica, sovraterrena. Cosa chiedere di più dal punto di vista tecnico ad una fotografia? Qui si tratta di una di quelle immagini che ti fanno venir voglia di buttare nella Senna tutte le tue macchine fotografiche e obiettivi e andare a fare altro.

xteriors
Xteriors, dettaglio.
© Desirée Dolron

Al di là dell’aspetto puramente fotografico, a questi livelli, è quindi qualcosa in più che ti fa amare incodizionatamente quest’immagine. È la bellezza della ragazza, il modo in cui ti guarda. Sono le sensazioni che ti fa nascere in petto. Senti in qualche modo di amarla. In modo astratto, fragile e lontano, ma sempre di amore si tratta. Lo so benissimo che le sensazioni vere sono quelle della vita reale, che l’amore va al di là di un bel viso e si basa soprattutto su quello che due persone condividono. Ma in italiano mancano due parole distinte per indicare questi due sentimenti, uno reale e l’altro illusorio. E pur sempre di amore si tratta.

Esiste comunque un sentimento, una pulsione dettata unicamente dalla bellezza purissima, che è nota a tutti quelli che abbiano mai sognato. Come non amare infatti Scarlett Johansson in Lost in translation quando Bill Murray le sussurra all’orecchio che non lascerà la distanza separarli? Come non innamorarsi follemente di 章子怡 (Zhang Ziyi) quando, in 我的父亲母亲 (the road home), appena ventenne, corre fra gli alberi tutti illuminati, le foglie gialle che le splendono intorno in uno sfavillio di luci e colori? Come non capire lord Evandale de le roman de la momie di Théophile Gautier, che non si sposerà mai perché innamorato della mummia della bellissima fanciulla egiziana vissuta migliaia di anni prima? Come non sentirsi innamorati di Boccadirosa, con cui se ne parte la primavera?

Di fronte a questa fotografia di Desirée Dolron sento in petto gli stessi sentimenti confusi e contraddittori, la stessa gioia, tristezza, euforia, dolore, felicità. Lo stesso senso di amore. Gli stessi sentimenti certo irreali ma pur sempre bellissimi.

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Il primo capitolo del Corpo Senza Organi di Cristina Mian e Marco Frigerio /it/2008/corpo-senza-organi-cristina-mian-marco-frigerio/ /it/2008/corpo-senza-organi-cristina-mian-marco-frigerio/#comments Mon, 08 Sep 2008 16:46:06 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=558 Corpo Senza Organi
Corpo Senza Organi, Searching heads
© Cristina Mian e Marco Frigerio

Capito quasi per caso sul sito di Cristina e Marco Frigerio e scopro che la loro nuova serie di fotografie Corpo Senza Organi è finalmente online.

Ne avevamo lungamente parlato durante tutto l’anno scorso, era uno degli argomenti centrali dell’intervista le linee di vita, di fuga e di divenire reale, avevo persino avuto modo di vedere alcuni negativi grande formato poggiati sulla tavola luminosa, quando il progetto era ancora nel pieno della fase realizzativa.

Oggi trovo la serie online, o meglio il primo capitolo della serie, che dovrebbe articolarsi in 3 parti distinte.

L’impianto teorico e le motivazioni concettuali che stanno dietro a questa serie di fotografie sono, come è il solito per i lavori di questa coppia di fotografi, incredibilmente imponente. Sul loro sito c’è unicamente un accenno di tutto questo, l’unica via, comunque ostica, sarebbe leggersi e studiarsi tutto Artaud e tutto Deleuze e poi andarsi a fare una chiacchierata direttamente con loro.

Body without Organs
Corpo Senza Organi, Searching heads
© Cristina Mian e Marco Frigerio

Le foto però restano godibilissime, perché hanno una coerenza interna molto forte, a cui si aggiunge un pizzico di ironia e una certa bellezza formale che è una direzione su cui mi pare si Marco e Cristina Frigerio si stanno sempre più spostando, a partire dal lavoro Side Effects, che personalmente impreziosisce il loro lavoro, che altrimenti sarebbe un esercizio troppo colto e sterile. In questo caso le trovate stilistiche sono a mio gusto veramente azzeccate, i colori quasi sempre belli presenti, le scene e le immagini molto riuscite.

La fotografia nell’ascensore è in assoluto la mia preferita, ed è per questo che metto questo breve articolo in attorno ad una foto, ma anche quella della giacca appesa è molto bella.

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