Cristina Mian e Marco Frigerio
Working Class
© Cristina Mian e Marco Frigerio

Cristina Mian: In una parola, quello che conta per noi non è l’arte, la fotografia, ma la linea di fuga, la linea di vita, il divenire reale che è stato tracciato attraverso lo strumento-arte, ed il problema dell’arte concettuale è che oggi non è più in grado di tracciare alcun divenire reale, perché oramai è stata inglobata e digerita e metabolizzata dal sistema dell’arte, dal sistema del potere, cioè da tutta una serie di linee rigide e conservatrici, quindi è diventata autoreferenziale, ridondante, è diventata struttura, élite, potere, cioè quanto di più lontano ci possa essere dalle nostre vite e dalle nostre esistenze…

Marco Frigerio: E se si condivide questo nostro punto di vista, è ovvio che l’arte, quella “vera” (termine bruttissimo ed ambiguo, ma così, giusto per capirci), quella che non è un fine ma un mezzo, deve sempre essere una linea di fuga, deve sempre essere motore di un divenire reale che è destabilizzante e distruttivo nei confronti del potere/struttura, e se così non fosse allora non sarebbe proprio nulla, ma sarebbe appunto solo ridondanza, consolatorio, decorativo, struttura, linea rigida, niente scoperte, niente visioni, solo assoggettamenti.

Cristina Mian: Tra l’altro lo stesso lo si potrebbe dire per alcune delle correnti fotografiche più in voga oggi che, una volta esaurita la loro carica “eversiva”, sono diventate veramente quanto di più noioso e ridondante io possa immaginare…non so, penso ad alcuni eredi (ma anche ad alcuni lavori recenti dei capiscuola), della cosidetta Scuola di Dusseldorf, cioè veramente non so più che farmene di questa fotografia che opera una catalogazione enciclopedica del reale, quando per me la fotografia, te lo dico alla Majakovskij, è come un martello che deve forgiare il reale, non “rispecchiarlo”…

Cristina Mian e Marco Frigerio
Working Class
© Cristina Mian e Marco Frigerio

Marco Frigerio: Però non possiamo eludere il fatto che la fotografia sia anche, nella sua intima natura, uno strumento di registrazione del reale, di documentazione dell’istante…e quello che quindi mi chiedo è, non si intravede forse uno strano parallelo tra la fotografia, la sua semplice immediatezza, il suo abbandonarsi all’istante, il suo potere di simbiosi con l’immediato, dicevo non si intravede forse una “assonanza” tra la fotografia e le linee di vita, di fuga e di divenire reale di cui ho parlato prima?

Non condividono forse entrambe alcune delle condizioni della loro stessa esistenza, cioè affidarsi appunto all’istante che muta, all’immediato svanire? D’altronde qualsiasi divenire reale è continuo mutamento, qualsiasi linea di vita è continua evoluzione in altro da sé…

Quello che poi questo significhi nella concezione e nella definizione della fotografia sinceramente ancora non lo so, però io e Cristina è tanto che inseguiamo l’idea di una fotografia che sia, da una parte un mezzo di divenire reale, motore di sperimentazioni e scoperte personali/corporali, una fotografia-mezzo e non fotografia-fine, cioè noi aspiriamo ad una immagine finale che sia ancora come un pennello che continui poi a “dipingere” nella vita, nella realtà, e non che sia un quadro “finito”, “autoriale” (e scusate il brutto paragone “pittorico”), e dall’altra ad una fotografia che funga anche da potente strumento di registrazione, anche “oggettivo” e documentaristico, perché no, che sia strumento di amplificazione perpetua, di queste linee di vita, di scoperta e di fuga…forse nessuna forma d’arte può fare meglio della fotografia queste due cose insieme…

 

Fabiano Busdraghi: Torno un attimo indietro per prendere spunto per la domanda successiva. Come dicevo mi sembra che buona parte dell’arte contemporanea sia chiusa nell’incomunicabilità, insomma, che non è necessaria solo una preparazione personale dell’artista, ma che proprio ci sia un problema di comunicazione. Se non si ha il libretto di istruzioni a portata di mano non si capisce niente del concerto. Se non si legge lo statement dell’artista si rimane completamente estranei al senso di una mostra.

Insomma, un’incomunicabilità che mi pare almeno parzialmente intrinseca e non solo dovuta alle limitazioni di chi ne fruisce.

Cristina Mian e Marco Frigerio
Working Class
© Cristina Mian e Marco Frigerio

Uno dei motivi per esempio per cui la vostra ultima serie sugli effetti collaterali mi piace più di Working class sulle fabbriche e la Cina proprio perché è più direttamente comunicativa. Alla fine il messaggio può passare più o meno distorto, verrà filtrato dallo spettatore, ma in ogni caso si instaura subito un gioco di complicità, ci si sente interpellati direttamente. Direi che è il riferimento al quotidiano, alla televisione che da più di mezzo secolo è accesa in tutte le case, questo oggetto che tutti conosciamo così bene. Insomma, in qualche modo sono fotografie che parlano un linguaggio cui siamo familiari.

Inoltre mi piace particolarmente il fatto che non date nessuna chiave moralista del vostro rapporto con la televisione. Dire che che la televisione fa schifo, che si perde troppo tempo a guardarla, che è un mezzo di controllo sulle masse, e via dicendo, è un po’ troppo semplice e qualunquista. Nel vostro caso semplicemente aprite una finestra sulle vostre interazioni con la televisione, senza esprimere giudizi. Più che portare risposte suggerite domande, un altro motivo per cui ci si sente direttamente in gioco di fronte alle vostre fotografie.




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