Leggendo un’intervista a Sandro Iovine
Qualche giorno fa Max Boschini ha pubblicato per Design Radar un’intervista a Sandro Iovine. Personalmente direi che Sandro Iovine è uno degli autori più interessanti e autorevoli in lingua italiana che tratti di fotografia sul web, quindi ho letto con attenzione e interesse l’intervista, come a suo tempo mi godetti con gran piacere l’intervista video rilasciata a ideebn (in tre parti), di cui si è già parlato nell’articolo Fumo nero sull’Iraq.
Ho scritto più volte a proposito di Camera Obscura che non mi piace limitarmi a un social blog, come ormai sembra andare sempre più di moda. Ovvero un contenitore che si limita a raccogliere e citare link a portfogli, articoli e risorse online. Mi piace generare contenuto, quindi ne approfitto per ripercorrere velocemente le tappe dell’intervista, estraendo alcune frasi che mi sembrano più significative, e discutere certi punti che trovo particolarmente interessanti o che al contrario non condivido.
L’intervista a Sandro Iovine parte subito con un punto che mi è particolarmente caro, come dovrebbe essere evidente per chiunque abbia letto fotografia e verità: la puntualizzazione di come sia fondamentale conoscere e distinguere la destinazione d’uso di un’immagine e che la fotografia, utilizzata in ambito giornalistico, è di fatto un messaggio codificato, impossibile da leggere se non se ne conosce il linguaggio (e spesso se non è accompagnata da una legenda). Dal ragionamento poi segue la critica, che condivido pienamente, alla fotografia come portatrice automatica di verità:
Un grande equivoco, che ricorre intorno alla fotografia, vuole che in virtù della sua riproducibilità meccanica essa sia latrice di una verità e di riconoscibilità del soggetto raffigurato sufficienti di per se a renderne comprensibile universalmente il significato.
Sandro Iovine
Sempre completamente condivisa è la discussione che segue sul Papa e la Chiesa, argomento che esula dalla fotografia ma di cui Sandro Iovine discute con equilibrio e fermezza. Analogamente interessante la spiegazione, già presente nell’intervista video fatta da ideebn, del perché le riviste di settore presentino quasi unicamente fotografie tranquillizzanti e neutre. Con la consequenza, e questo lo dico io, di non mostrare mai la fotografia vera che si fa oggi, essere pervase da un senso di noia e già visto infinito, non insegnare praticamente niente di utile e quindi, da parte mia, il boicottaggio quasi completo delle riviste cartacee di fotografia. Molto meglio andare per mostre e esposizioni, o in giro a fare foto.
Nell’intervista segue una citazione gustosa, per me che sono un po’ in conflitto con la figura e l’insegnamento di uno dei più noti fotografi italiani:
Gianni Berengo Gardin, onesto artigiano della fotografia ingiustamente accusato da molti di essere un Maestro.
Sandor Iovine
Ecco poi subito di seguito il solito attacco ai tempi moderni, e alla mancanza di educazione all’immagine in Italia:
Manca, soprattutto nel nostro Paese, il concetto stesso di cultura delle immagini. Se qualcuno in Italia riceve dei rudimenti di lettura delle immagini all’interno della scuola dell’obbligo può considerarsi un unto del Signore. Mancano strutture universitarie che prendano in considerazione la fotografia come possibile e reale materia di analisi e non solo come uno strumento di rilevazione sul campo.
Sandro Iovine
Non me la sento di stroncare questa affermazione, perché purtroppo c’è comunque del vero. Però la vorrei in un certo senso ridimensionare.
In primo luogo vorrei, a costo di ripetermi, consigliare la lettura dei “I Barbari” di Alessandro Baricco. Sandro Iovine, da quello che si capisce leggendo il suo blog e questa intervista, o come appare chiarissimamente dalla sua prosa, caratterizzata da quel gusto della parola e della citazione che marchia inconfondibilmente tantissime persone che escono dal liceo classico, Sandro Iovine dicevo, utilizzando il vocabolario coniato da Baricco, è chiaramente un difensore della civiltà. Per la maggior parte dei sacerdoti della civiltà (e anche per alcuni mutanti, che è la categoria cui appartengo) gli attacchi e le incursioni dei barbari sono praticamente incomprensibili, e facilmente tacciate di rozzi tentativi di stravolgere la raffinata civiltà e infangare gli ori dei bei tempi andati. Come Baricco sono sicuro che i mutamenti che abbiamo sotto gli occhi, e più in particolare alcuni a cui fa riferimento Sandro Iovine, saranno capiti solo fra alcuni anni, quando della vecchia civiltà resteranno solo le rovine, e gli unici sopravvissuti saranno quelli che oggi chiamiamo barbari.
Con questo non voglio dire che sono dalla loro parte parte, e nemmeno che il cambiamento sarà positivo. L’idea dell’esistenza del bene e del male, del positivismo, dell’innato miglioramento continuo dell’uomo verso qualcosa di buono, è lontanissima dal mio modo di pensare. La storia come il caso e la natura, non conosce né meglio né peggio, si è sempre scritta da sola, sufficiente a se stessa, fregandosene degli uomini e dei suoi valori etici e morali. L’unica cosa che si può dire con sicurezza e che ogni volta che ci si è rinchiusi fra le mura di una città per resistere ai barbari si è finiti in rovina, e criticare i cambiamenti alla luce dei bei tempi andati è sempre un atteggiamento fallimentare, almeno nell’ambito della storia reale, cioè della sequenza oggettiva dello svolgersi dei fatti. L’atteggiamento forse più corretto e proficuo, e che permetta di salvare parte di ciò che esiste di buono nella civiltà, distruggendo soprattutto il vecchiume dell’ortodossia, è quello di cercare di canalizzare le energie barbariche, in maniera da non andare verso un impoverimento obiettivo del mondo, sfruttarle per reintrodurre vigore nella stanca civiltà in declino. Ma per farlo occorre cavalcare l’onda che spazza via la civiltà, bisogna scordarsi i bastioni, i templi e i libri dei bei tempi andati.
Insomma, quando leggo:
Il mondo della comunicazione per immagini sta cambiando profondamente e con subdola rapidità. Assistiamo a una teorizzazione dell’apparente semplificazione di ogni livello comunicativo che quasi sempre nasconde, neppure troppo bene, la volontà di obnubilare la comprensione profonda dei fatti.
Sandro Iovine
È per me inevitabile pensare che un’affermazione del genere sia altrettanto pericolosa e semplicistica che le trasformazioni che vorrebbe criticare. Di fatto si sta rivoluzionando il modo di pensare la conoscenza e il sapere, come è già successo in passato. E come è già successo il riscrivere il modo di intendere il sapere non implica necessariamente una semplificazione e uno svilimento, anzi, può alla lunga portare aria fresca e nuovi contenuti.
La seconda cosa che volevo dire a proposito della citazione poco sopra riguarda quella che Sandro Iovine considera assenza totale di educazione all’immagine in Italia.
In primo luogo non mi pare che negli altri paesi in cui ho viaggiato e vissuto la situazione sia purtroppo tanto diversa. In secondo luogo nella maggior parte delle scuole italiane (lasciando da parte le scuole d’arte dove è normale, parlo delle medie e dei licei) si scrivono temi ma si disegna pure, esiste la lezione di filosofia come quella di storia dell’arte, si studia la letteratura ma si suona anche il flauto. Certo, nel programma di educazione artistica in genere ci si limita alla pittura antica e non si tratta la fotografia, anche se devo dire di conoscere molte persone che hanno fatto esperienza di camera oscura proprio nelle scuole pubbliche, tanto che molti dei fotografi intervistati su Camera Obscura hanno iniziato la loro carriera proprio in questo modo. Forse questi sono personaggi particolarmente fortunati, ma resta il fatto che un minimo di educazione artistica nelle scuole si fa. Certo si prediligono le arti plastiche intese in senso classico, tralasciando la fotografia, ma l’analisi dell’immagine ha sicuramente tantissimi punti comuni fra pittura e fotografia. Certo non sarà il soggetto di valutazione più incisivo sul risultato finale, ma sta di fatto che nella scuola pubblica una sorta di educazione esiste.
L’assenza di studio di tutto ciò che è contemporaneo poi non riguarda comunque esclusivamente la fotografia, ed è questo secondo me, il vero problema. Per esempio in Italia, prima di entrare all’università, si studia storia solo fino alla prima guerra mondiale, o fino alla seconda se si è parecchio fortunati, ignorando completamente tutto quello che è successo dopo. Si passano tre anni a leggere Dante quando basterebbe un semestre per godersi gli splendidi versi dell’Inferno, senza tediare gli studenti con il noiosissimo Purgatorio e Paradiso. I due anni e mezzo così guadagnati si potrebbero utilizzare per leggere tanta splendida letteratura contemporanea, praticamente tralasciata in toto, molto più formativa, toccante, divertente e utile per qualcuno che vive nel XXI secolo. Ma come stupirsi, l’Italia è il paese dove ancora nei licei scientifici si sprecano molte ore a settimana dietro al latino, quando poi i ragazzi che hanno passato la maturità parlano ridicolamente male inglese, trovandosi ad anni luce di svantaggio dai loro coetanei tedeschi e olandesi. Sia chiaro, non sto dicendo che il latino o Dante siano da buttar via, personalmente ho amato sia l’uno che l’altro, e sicuramente hanno contribuito a farmi diventare quello che sono, ma c’è un fondamentale problema di scelte, di priorità e di quantità. Avrei preferito giusto una breve introduzione al Manzoni e sapere però perché è scoppiata la guerra del Vietnam, avere solo una vaga idea di chi fosse Catullo ma imparare cinese (come si può fare in molti licei francesi) senza doverlo studiare oggi, rubando tempo alla fotografia, studiare in modo meno approfondito i pensatori della grecia antica e non dovermi leggere da solo Nietzsche, perder meno tempo dietro le traduzioni del De bello Gallico e imparare ad utilizzare il computer, che ho acceso per la prima volta al primo anno di università di fisica, con un ritardo mostruoso.
Insomma, secondo la mia esperienza personale e quello che ho visto attorno a me, non è tanto la mancanza di educazione all’immagine ad affliggerci nei programmi di educazione della scuola dell’obbligo. Il problema vero è che in Italia l’educazione fa praticamente schifo. La formazione classica, teorica, impegnata, fondamentale, etc, puzza di vecchio e di morto, quella moderna invece è quasi unicamente superficialità e approssimazione pura. Da una parte si mantengono in vita le mummie ammuffite dei sacerdoti dell’ortodossia della civiltà, dall’altra si prende il peggio del peggio della trivialità delle orde barbariche. Nella media dell’insegnamento obbligatorio in Italia non c’è quasi niente che ti prepari alla vita reale, che ti permetta di formarti criticamente e farti un pensiero tuo, una cultura vera. Devi studiarti da solo quello che ti interessa, autoformarti, essere un autodittata curioso e insaziabile. L’unica nota positiva sono certi professori che, per questioni puramente personali, escono dalla media, ma si tratta di eccezioni, il sistema in sè, almeno per quanto riguarda la mia esperienza personale, è una catastrofe tanto nell’educazione all’immagine quanto in qualsiasi altro ambito.
Esaurita la questione dell’educazione in Italia, l’intervista a Sandro Iovine continua con l’azzeccatissima parte dove si puntualizza il fatto che, per fare professionalmente fotografia giornalistica, non è sufficiente saper fare belle immagini, ma serve molto di più.
Occorre sapersi relazionare, essere manager di stessi, saper intuire, prevedere, rischiare, avere la capacità di sviluppare reti di contatti infinite e poi, solo dopo aver dimostrato di saper fare tutto questo, bisogna anche saper fare buone foto.
Sandro Iovine
Questo è un punto a cui sono particolarmente sensibile, anche se personalmente faccio fotografia artistica e non giornalistica. Spesso sento che sono carente in certe doti al contorno, che per quanto riguarda l’immagine fotografica ci siamo, ma manca poi qualche cosa per farla uscire e diffondersi. Il tutto è purtroppo una vera noia, perché vorrei fare il fotografo e non il manager, vorrei che il tempo che passo a fare fotografia fosse al 100% dedicato a produrre immagini, e non piuttosto un misero 20%. Effettivamente in questo campo una formazione ad hoc potrebbe servire, anche se credo che molte di queste doti ancora una volta siano determinate dalla voglia di riuscire di ognuno, da quanto si è agguerriti e ostinati. Idealmente comunque, e questa probabilmente è un’utopia, mi piacerebbe pensare che la soluzione non sarebbero delle scuole che tiinsegnino tutto questo, m un sistema dove il fotografo fa il fotografo e basta. Ma visto lo stato delle cose probabilmente è un sogno destinato a restare tale.
L’intervista finisce con una domanda cara a Max Boschini: il rapporto fra digitale e analogico. Se condivido con Sandro Iovine l’idea che, presa la fotografia come strumento, non conta assolutamente niente se la macchina era analogica o digitale, ho invece le mie riserve su quello che segue.
La fotografia analogica ha una natura profondamente indicale in quanto deriva dal principio dell’impronta a tratto continuo. Ma la fotografia digitale porta con sé le caratteristiche dell’icona, in quanto sfrutta il meccanismo dei tratti discreti organizzati e ricostruiti a partire da un codice. Interessante quindi come in questo senso la fotografia digitale sia teoricamente più vicina al disegno manuale, in quanto icona, di quanto non lo sia quella analogica, in quanto indice. In realtà il discorso è assai lungo e complesso e immagino non sia questa sede per approfondirlo. Ecco direi che il mio rapporto con il digitale potrebbe incentrarsi al momento sull’interesse per il recupero da parte della fotografia di un forte principio di codificazione, rispetto allo statuto privo di codice della fotografia analogica, ovvero sulla trasformazione epistemologica che ne può derivare per la nostra cultura visiva.
Sandro Iovine
Questo è un punto che proprio non capisco. La natura di indice della fotografia mi sembra comune tanto al digitale che all’analogico. Cambia lievemente la natura della traccia, modificazione chimica da una parte e elettronica dall’altra, ma siamo vicini vicini. Senza contare che chimica e elettronica alle fondamenta sono praticamente la stessa cosa. Alla fine comunque che importa, il fumo di un fuoco e l’orma di un gabbiano sulla spiaggia sono tracce ben diverse, ma entrambe condividono chiaramente la natura essenziale dell’indice.
Inoltre il digitale è spesso additato per la sua facilità di manipolazione, di stravolgimento della realtà, o se vogliamo dirlo in modo diverso, di essere un’icona inaffidabile. È una tesi che non condivido minimamente, ma è curioso notare come Sandro Iovine veda la natura intima della fotografia digitale esattamente all’opposto del sentire comune a moltissime persone.
Per quanto mi riguarda il digitale non è più icona dell’analogico, entrambi sono indici a tutti gli effetti, e questa è la natura fondamentale della fotografia, analogica o digitale che sia. Sarei curioso di sapere cosa ha portato Sandro Iovine a pensarla diversamente. Se un giorno dovesse leggere queste righe e pensasse che Camera Obscura o il suo blog sono dei luoghi adeguati ad approfondire questo punto sarò felice di contribuire alla discussione.