Miciap, Milano Città Aperta, rivista di fotografia dedicata a Milano
Miciap, Milano Città Aperta, è una rivista online di fotografia dedicata a Milano, che ha l’obbiettivo di descriverne la realtà urbana, le tensioni sociali, le sue persone, le contraddizioni e i sogni. Ecco un’intervista collettiva alla redazione di Miciap, a proposito della rivista stessa ma anche di Milano in senso lato.
Fabiano Busdraghi: Come descrivereste Miciap? Come e perché è nata l’idea di creare una rivista dedicata alla fotografia di/su Milano?
Isacco Loconte: Non sarà eclatante, ma Milano Città Aperta ha emesso il suo primo vagito in un piccolo baretto del centro città. Le riunioni sono venute dopo. Quel giorno c’erano solo tre ragazzi seduti ad un tavolo: sorseggiavano birra e cercavano di esprime a parole un desiderio che sentivano dentro di loro ma che ai tempi era ancora poco chiaro. Si perché come spesso accade un progetto nasce da una necessità profonda che però si manifesta solo pian piano, strada facendo. Oggi, a più di un anno di distanza, penso di aver capito di che cosa stavamo parlando quel giorno. Milano è la nostra città. Certo detta così può sembrare un’affermazione banale, ma spesso ci dimentichiamo di cosa significhi. Quel “nostra” dovrebbe contenere un senso di “intimità”, quella sorta di complessa tensione che proviamo verso ciò che ci appartiene. Penso che Milano Città Aperta in fondo sia proprio questo, un gesto di scoperta e riappropriazione.
Fabiano Busdraghi: Perché avete provato l’esigenza di creare una nuova rivista? Come si differenzia Miciap rispetto alle altre riviste online di fotografia? Che obbiettivi vi ponete?
Filippo Ceredi: La nostra intenzione è quella di distinguerci dai blog di fotografia che hanno preso piede negli ultimi anni, dove le immagini vengono perlopiù valutate in base all’estetica della singola immagine e rimangono spesso confinate al racconto di un’esperienza individuale o di piccoli gruppi. La nostra rivista si propone invece di esplorare Milano come grande esperienza collettiva, cercando nei servizi fotografici – non solo nelle singole immagini – la grammatica di un racconto, un modo più articolato ed efficace per affrontare la realtà complessa che viviamo quotidianamente, come anche quelle realtà che ci circondano – e che ci riguardano – senza tuttavia trovare un posto di rilievo nel flusso accelerato della vita urbana. Credo che sia, in sostanza, un tentativo di mettersi in ascolto e allo stesso tempo un modo per dare forma alla nostra necessità di dire come vediamo le cose.
Fabiano Busdraghi: Pensate che Milano, in quanto città, abbia una sua specificità che la differenzia da tutte le altre? Quali sono, dal punto di vista fotografico, le differenze e le analogie rispetto alle altre città del mondo?
Isacco Loconte: Milano non è una città speciale. Non a prima vista. Non nel senso stretto del termine. Ogni città possiede dei tratti distintivi, ma solo alcune ne sono così intrise da trasmetterne in maniera inequivocabile l’unicità, da renderla respirabile. Milano non è tra queste. Non strega al primo contatto e, anche trascorrendoci un lungo periodo, la sensazione che generalmente infonde ha qualcosa di indistinto e caotico. Ci si potrebbe quasi convincere che questo dipenda da una totale mancanza di carattere. Ma non è così. È solo una questione di timidezza. Al di là del luccichio dei negozi, del profumo delle passerelle e del trucco degli eventi di respiro internazionale, Milano è infatti una persona introversa. Si concede poco per volta e solo a chi dimostra di essere veramente interessato. Rende necessaria una ricerca curiosa, uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice guardare. Ed ecco che entra in gioco la fotografia. A volte ho la netta sensazione che quella scatoletta metallica – come l’ha definita un caro amico tanto tempo fa – non sia una strumento che io utilizzo, ma una guida che indirizza il mio occhio.
Niccolò de Mojana: Milano è una città che offre di sé aspetti apparentemente contraddittori che purtroppo si prestano spesso a diventare rigidi stereotipi. Città-metropoli ma allo stesso tempo molto provinciale, apparentemente triste ma allo stesso tempo festaiola e mondana, moderna ed europea ma anche in gran parte “berlusconiana”, e via dicendo… La sua anima controversa è quindi quanto di più stimolante per un fotografo, che ha così la possibilità di reinventare e scoprire ogni giorno la sua essenza da un punto di vista diverso.
Fabiano Busdraghi: In un certo senso una domanda analoga alla precedente: pensate che i fotografi milanesi abbiano una sorta di visione comune? È possibile parlare di qualcosa come “la scuola di Milano”? Ha senso parlare di correnti fotografiche o oggi la fotografia è globale e le differenze sono dovute all’individualità personale dei fotografi?
Daniele Pennati: Non credo che si possa parlare di una “Scuola milanese”… almeno non nel senso in cui si parla spesso della “Scuola emiliana” riferendosi, quindi, ad un Maestro (Luigi Ghirri) ed ad una serie di “discepoli” (Guido Guidi, William Guerrieri, etc…) che hanno dato vita in Italia ad un nuovo modo di guardare e interpretare fotograficamente il territorio e le sue trasformazioni. L’unico possibile esempio di “Scuola milanese” risiede forse nell’esperienza del progetto “Archivio dello spazio” promosso dalla Provincia di Milano tra il 1987 e il 1997. Un progetto imponente in cui sessanta tra i principali fotografi italiani (e milanesi) sono stati impegnati nella più grande campagna fotografica mai realizzata in Italia. Questo lavoro, oltre ad aver dato vita al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, è stato centrale nella costruzione dell’immagine e dell’immaginario della provincia milanese che ancora oggi è condiviso da molti studiosi del territorio, siano essi geografi, architetti, urbanisti o sociologi.
Milano non ha, però, un maestro, almeno non uno solo. Sono molti i fotografi milanesi di nascita o di adozione che sono diventati centrali nella scena italiana ed internazionale, ma nessuno è riuscito ad aggregare un modo di vedere comune. Forse la questione è generale e a Milano si trovano quindi i tanti linguaggi fotografici che sono presenti in tutto il mondo (dalla fotografia di architettura a quella di reportage, dalla fotografia di paesaggio a quella di territorio, etc…). Forse, invece, è la natura stessa della città che rende difficile (impossibile?) guardarla in un solo modo. Forse ogni fotografo (ed anche ogni abitante), con la sua formazione estetica e culturale, guarda Milano con occhi diversi. Io credo che la risposta sia più vicina a questa seconda ipotesi ed è anche con questa consapevolezza che la nostra rivista vuole raccontare la città usando una varietà di stili, linguaggi e visioni fotografiche, proprio per rendere giustizia alla complessità urbana che ci circonda.
Alberto Locatelli: Credo che le strade di una città indirizzino la nostra vita, la segnino dal punto di vista professionale e non solo. Cercare una strada comune, tentare di costruire un percorso il cui soggetto sia un gruppo e non un singolo individuo è una sfida che spinge a cercare uno stile capace di dare spessore ad un progetto: delle scelte poetiche e d’indagine che non costringano ad una monolitica omogeneità stilistica, che non cerchino di dare una risposta univoca alle domande sollevate dalla realtà che le ha stimolate. Un atteggiamento del genere non farebbe altro che impantanasi all’inutile ricerca di un marchio identitario in grado solo di rispondere ideologicamente alle mutevoli questioni che una città come Milano ci impone. Assumendo un atteggiamento caleidoscopico la nostra rivista dovrebbe invece porsi l’obiettivo di risvegliare sguardi obliqui, che siano capaci di sostenere il peso delle domande senza farsi schiacciare dalla fretta di trovare facili risposte che li alleggeriscano dalla zavorra.
Aver scelto il milanese come campo d’azione significa aver considerato Milano come una città dove “troppe scelte storiche hanno condannato la bellezza a una condizione marginale dell’esperienza urbana”, ma dove allo stesso tempo “è ancora possibile dire no, e rimettere la bellezza in circolo”. Al suo lato più facile, pubblicitario, leggero questa metropoli contemporanea accompagna sempre il “suo volto nascosto che ci impedisce di abbandonarla, che ci invita a provare ancora fiducia”.
Nicola Bertasi: Non esiste una scuola milanese, per ora. Credo che oggi la fotografia a Milano sia strettamente legata all’impresa che la finanzia. Milano era una città che dava spazio alle avanguardie, oggi è una città che produce enormi quantità di denaro , reinveste quel denaro per produrre immagini (di qualità) e nello stesso tempo subisce letteralmente il fascino del mainstream, distinguendosi da altre città nel mondo nell’essere incapace di vedere al di là del proprio naso e nel non riuscire a creare un legame emotivo tra arte e strada. Tra gli uomini. Ma il particolare più inquietante è che non esiste, tranne rarissime eccezioni, una ricerca artistica al di fuori di un ambiente accademico (quindi guidata dall’alto) o al di fuori di un ambiente politico/economico (quindi pagata dall’alto). E l’alto a Milano non brilla per schiarite.
Quindi si salvano le nicchie di sognatori, di artisti o di sovversivi che propongono esperimenti meno consueti e più legati alle dinamiche della vita.
Il fotografo quando crea, lo fa, seguendo un percorso che non può che essere legato al suo vissuto. Ogni ricerca è individuale, le correnti artistiche nascono se le individualità vivono un’ empatia di vissuti che porta a condividere i percorsi e a immaginare il futuro. La ricerca fotografica non potrà mai essere globale; ognuno di noi, fotografo poeta o cuoco esprime quello che ha visto, sentito, mangiato, letto, amato nella sua vita. Un cinese sarà sempre più veloce di me. In ogni caso mi auguro che la comprensione e quindi la ricezione della fotografia e dell’arte in generale, nel rispetto assoluto delle diversità, assumano proporzioni sempre più globali. Ma siamo, credo, molto lontani. E a Milano ancora di più.
Leggi la seconda e terza parte dell’intervista alla redazione di Milano Città Aperta, rivista online dedicata alla fotografia milanese.