Camera Obscura » Intervista /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 en hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.3.1 Intervista a Ars-Imago /it/2010/ars-imago/ /it/2010/ars-imago/#comments Fri, 16 Apr 2010 08:31:18 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=3694
Ars Imago
© Ars Imago

Come probabilmente sanno i lettori storici di Camera Obscura, all’origine -prima che questo sito divenisse una sorta di rivista online dedicata alla fotografia contemporanea- si trattava di un mio personale diario di esperimenti in camera oscura (da cui il nome) e più in particolare di tecniche antiche e alternative di stampa.

Devo dire che già allora lavoravo molto in digitale, riunendo spesso innovazione e tradizione grazie per esempio ai negativi digitali, ma la maggior parte delle stampe erano tutte eseguite in camera oscura. Poi, col passare del tempo, le cose sono cambiate e piano piano sono naturalmente e inevitabilmente slittato verso il digitale puro. Quando lo scorso settembre ho traslocato per spostarmi nella mia deliziosa casetta nel cuore di Parigi, ho anche chiuso per l’ultima volta la camera oscura in cui, per anni, ho passato innumerevoli, splendide notti. Chiusa a chiave per l’ultima volta sapendo che molto probabilmente sarà anche l’ultima camera oscura della mia vita. Nodo in gola e in mezzo al petto, ma nella vita capita spesso di dover lasciare qualcosa alle spalle.

Oggi sono quindi una persona, fotograficamente parlando, completamente digitale, ma che allo stesso tempo è il frutto di un percorso discretamente lungo in fotografia analogica. Una specie di ibrido, di mutante. Se fossi nato negli anni 50 avrei vissuto il ’68 e la rivoluzione sessuale, nessuno mi avrebbe rotto le scatole per la mia barba lunga e sarei un fotografo vecchio stampo, che sa tutto della camera oscura. Se invece fossi nato oggi, nel 2010, una volta arrivato al liceo farei delle foto con macchine così preformanti che oggigiorno non riesco nemmeno a immaginare, ma appena appena a sognare, e non vedrei molta differenza fra la fotografia e le immagini di sintesi generate al computer.

Ars Imago
© Ars Imago

Invece la mia formazione e la mia pratica fotografica si è costituita esattamente a cavallo fra le due epoche. Il risultato è che ho una discreta pratica della fotografia analogica come di quella digitale, senza essere un vero maestro in nessuna delle due, ma senza nemmeno aver nessun pregiudizio, nessun a priori, senza cadere nelle facili considerazioni e le diatribe sterili su quali dei due universi sia migliore dell’altro. Alla fine quello che conta è fotografare, è l’immagine. Ciò che vogliamo dire con gli occhi, il cervello e il cuore non è forse più importante di pixel e sali d’argento? Oggi sono un fotografo digitale per pura scelta, perché la fotografia digitale conviene meglio alla mia espressione creativa, a quello che voglio fare e dire. Ma allo stesso tempo sono un grande amante della fotografia analogica, e ricordo con infinito piacere la magia della chimica, la formazione dell’immagine nei bagni di sviluppo, le sorprese imprevedibili e l’atmosfera bellissima della camera oscura.

Per queste ragioni non posso che esser contento quando, in piena crisi della fotografia analogica, quando tutti i fornitori di materiale da camera oscura sembrano chiudere uno dopo l’altro, anche quelli delle grandi città come Parigi, in pura controtendenza qualcuno decide invece di aprire un negozio per la vendita di pellicole, chimica, carta fotografica tradizionale e tutti gli strumenti necessari in camera oscura. E questa è proprio la storia di Ars Imago. Non posso che esser contento perché la scelta di fotografare in analogico o in digitale deve rimanere, come nel mio caso, appunto una scelta presa liberamente dal fotografo, e non al contrario un’obbligazione dovuta più alle logiche di mercato che rendono certi prodotti introvabili, o estremamente cari.

Ecco quindi un’intervista ai responsabili di Ars Imago a proposito della loro coraggiosa scelta.

Ars Imago
© Ars Imago

Fabiano Busdraghi: Qual’è la storia di Ars Imago? Perché avete sentito l’esigenza di creare un negozio di forniture per la fotografia analogica?

Alessandro Franchini1: L’idea di questo negozio (aperto prima in Svizzera nel 2004 come www.ars-imago.ch e poi in Italia nel 2009 su questo sito www.ars-imago.com) ci venne per la pura passione che abbiamo per la fotografia analogica.

Era il 2003 quando ancora mi ritrovavo in negozi di fotografia alla ricerca di chimica e carte a discutere con i negozianti sul perché le confezioni in cartone bianco sugli scaffali si presentassero in un alquanto sospetto colore giallognolo. Sul perché per acquistare una confezione da 250ml di Rodinal dovevo ordinarne e pagarne 10, visto che il negoziante non ne teneva a magazzino.

Era il 2003 l’anno in cui mi chiesi se ero l’unico a sentirmi preso in giro sentendo che ormai la fotografia era sinonimo di bits e bytes. Come se le sensazioni che regala una fotografia siano direttamente proporzionali alla metodologia di ripresa. Per farla breve non avevo nessuna voglia di riporre la mia Leica M6 in un armadio in compagnia di palline di naftalina.

Partimmo con circa 16 prodotti esclusivamente in bianco e nero. Una specie di kit di sopravvivenza. Capimmo da subito che l’unico mercato in grado di sopravvivere fosse quello che ci poteva offrire solo internet. Era il maggio del 2004.

Ars Imago
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Fabiano Busdraghi: La scelta di aprire un negozio per la fotografia tradizionale, quando la maggior parte dei professionisti passa al digitale mettendo completamente in crisi la fotografia analogica, è una scelta coraggiosa e forse anche un po’ rischiosa. Visti i tempi che corrono è una scelta più che altro dovuta a un impegno personale e forse un po’ utopico, voler preservare qualcosa di bello che rischia di sparire, oppure è possibile lavorare con una nicchia di utilizzatori che costituiscono comunque una base solida anche dal punto di vista puramente economico? Su quali ambiti si deve puntare per poter sopravvivere nella situazione attuale?

Giorgio Di Noto2: La scelta a me per primo, che sono l’ultimo arrivato in casa ars-imago, è sembrata azzardata e rischiosa. Tuttavia il motivo di questa scelta è stato espresso, secondo me, già molto bene nell’editoriale dell’articolo: ovvero bisogna lasciare la libertà di scegliere il mezzo con quale lavorare, digitale o analogico che sia. L’imput è stato infatti proprio questo, cioè rendere disponibile materiale che stava (e sta) sparendo permettere quindi, a coloro che la utilizzano per passione e a quelli che ci lavorano, di utilizzare la pellicola e la chimica fotografica.

Alessandro Franchini: ars-imago è sicuramente una scelta coraggiosa, ma non utopica. Lo dimostra il fatto che con la “nicchia” della fotografia analogica abbiamo raccolto migliaia di clienti attorno alle nostre due società.

Francesco Ferrara3:Con il tempo abbiamo visto che una nicchia c’è eccome! Tanto che non la chiamerei nicchia. Ovvero io penso che la fotografia digitale abbia fatto avvicinare alla fotografia molte più persone di quanto accadesse prima, aumentando così i fotoamatori, che nella maggior parte delle volte “tornano indietro” per esplorare il mondo analogico. Oltre a questo ci sono comunque ancora molti professionisti che lavorano in pellicola sia nel mondo del reportage, sia nel mondo dell’arte contemporanea. Inoltre ci tenevo a puntualizzare che la fotografia è una sola e si evolve come qualsiasi altra arte, anche grazie alla tecnologia. Quindi non c’è nessun intento di demonizzare la fotografia digitale. La scelta all’ars-imago è una scelta di mercato, ovvero specializzarsi in certi tipi di prodotti, dovuta a quella che una passione condivisa da noi che ci lavoriamo.

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Fabiano Busdraghi: Qual’è l’importanza di avere un negozio online? Quali sono le caratteristiche e peculiarità del mercato su internet? Come si distribuisce la proporzione di vendite fra negozio e sito? Nel futuro pensate di potenziare i punti vendita o puntare piuttosto sul mercato online?

Giorgio Di Noto: Ormai il mercato di internet sta superando quello tradizionale e quindi, proprio per la peculiarità di prodotti che abbiamo, la vendita in internet ha un’importanza primaria. È proprio il nostro scopo raggiungere più persone possibile, soprattutto quelle che vivono in posti dove trovare un rullino in bianco e nero diventa un’impresa. Ma non solo, anche da grandi città europee, compresa Parigi, ci arrivano a volte degli ordini per prodotti che evidentemente non si trovano altrove. Nonostante questo una delle caratteristiche dell’ars-imago a Roma è proprio quella del radicamento nel territorio. Il locale ormai è molto frequentato e con la maggior parte dei clienti c’è un rapporto amichevole e di fiducia. Questo successo sul territorio ci ha portato infatti ad avere, per ora, più clienti ed ordini a Roma che in internet.

Alessandro Franchini: Il mercato di internet è il mercato globale a cui noi principalmente puntiamo. È l’unico mercato che può offrirci la massa critica necessaria a sopravvivere nella nicchia della fotografia analogica. Detto questo non escludo l’apertura di nuovi punti vendita in Italia. Considerando anche le strategie di ars-imago Svizzera l’espansione in un altro paese comunitario è comunque probabilmente il prossimo passo logico.

 

Fabiano Busdraghi: Che tipologia di clienti avete? Si tratta soprattutto di artisti riconosciuti, nomi noti della fotografia che non vogliono rinunciare alle proprie abitudini? Oppure piuttosto di fotoamatori ancora innamorati della resa della fotografia analogica?

Giorgio Di Noto: L’eterogeneità della tipologia dei clienti rende tutto molto stimolante e anche divertente. Infatti capita spesso di parlare prima con alcuni studenti delle scuole di fotografia e subito dopo trovarsi un fotografo fresco del premio World Press Photo. Tuttavia la maggior parte dei clienti sono fotoamatori, alcuni dei quali molto evoluti e con esigenze ben precise e studenti delle scuole della capitale.

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Fabiano Busdraghi: Proprio in questi tempi avete lanciato un concorso fotografico, con l’intento soprattutto di promuovere i lavori dei vincitori. A differenza della maggior parte dei concorsi fotografici che propongono premi in denaro più o meno cospicui, i lavori dei fotografi premiati verranno pubblicati sulla rivista “il fotografo” e esposti nella galleria romana di fotografia contemporanea Senza Titolo. Come avete avuto questa idea e perché avete preso questa decisione? A che tipologia di fotografi si indirizza il premio? Per un fotografo emergente quanto possono importanti le possibilità espositive come questa e che impatto possono avere sulla sua carriera?

Giorgio Di Noto: Questo premio è per noi una sfida molto importante. Lo scopo del concorso è infatti quello di promuovere nuovi lavori e nuovi fotografi, spesso giovani, che trovano sempre meno spazio. E per far questo abbiamo scelto due strade ben precise: la prima è quella della giuria, ovvero abbiamo coinvolto da una parte un insegnante di una scuola per l’aspetto, diciamo, didattico, dall’altra due fotografi molto noti, per l’aspetto professionale, e infine il direttore di una rivista per l’aspetto editoriale. Detto in altre parole, vincere e ricevere una presentazione e un commento del proprio lavoro da parte di una giuria così qualificata è più utile che ricevere centinaia di euro per aggiornare magari la propria attrezzatura. La seconda strada, che segue alla prima, è quella di offrire una prima diffusione del lavoro, per dare proprio una “spinta” al vincitore e favorirne la visibilità. La pubblicazione su una rivista a tiratura nazionale e l’esposizione in una galleria romana che si occupa di fotografia contemporanea, ci sono sembrati i mezzi migliori per promuovere i vincitori. Quello che ci auspichiamo è che col tempo il concorso acquisti prestigio e che vincerlo diventi un’importante nota nel curriculum di un fotografo.

Il concorso è rivolto a tutte le tipologia di fotografi, la quota di partecipazione è infatti molto bassa proprio per raggiungere più persone possibili. L’altra condizione che abbiamo posto è quella di consegnare o inviare fotografie solo stampate su carta, indipendentemente dalla tecnica fotografica utilizzata. Sarebbe impossibile, a mio avviso, valutare un reportage guardando una alla volta le foto su un monitor. Già questo secondo me selezionerà naturalmente lavori seriamente realizzati.

Alessandro Franchini: Partendo dal presupposto che un fotografo desideri sempre in fin dei conti esporre i propri lavori, ci sembrava la cosa più logica e interessante offrire come premio la possibilità di essere visti. Uno degli obiettivi del nostro concorso è offrire la possibilità a giovani fotografi di fare il passo giusto nella direzione giusta. Il concorso ne sia il trampolino di lancio.

Josh Goleman
© Josh Goleman – Impossible Collection

Fabiano Busdraghi: Qualcuno dei prodotti più particolari che avete in catalogo.

Giorgio Di Noto: Prima su tutte la carta positiva Kraus, interessantissima per il foro stenopeico e per la stampa di diapositive bianco e nero, anch’esse in listino. Poi i prodotti per le tecniche antiche, come il kit Cianotipo, il kit per la stampa al Platino e l’emulsione della Rollei a contrasto variabile per fotosensibilizzare molti supporti. Ed infine i fogli Pictorico per i negativi digitali.

Alessandro Franchini: Sicuramente le nuovissime pellicole Impossible Project (Polaroid). Saranno disponibili a partire da fine Marzo con le prime pellicole in bianco e nero della linea SX-70 e 600.

Francesco Ferrara: I prodotti creativi della serie Rollei, dalle usa e getta all’emulsione fotosensibille, a gradazione variabile, Black Magic. Infine i prodotti Moersch come per esempio i kit per la lith printing.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche anno fa, quando stampavo tantissimo con le tecniche antiche, era quasi impossibile trovare i Pictorico in Europa, adesso aggiorno subito la lista dei rivenditori di materiali per i negativi digitali!

Piccola nota nostalgica: qualche prodotto invece recentemente scomparso che ha lasciato un gran vuoto nel mondo della fotografia.

Giorgio Di Noto: La Carta fotografica Agfa. Un vero lutto per la stampa chimica. Ma a quanto pare ci sono delle belle novita’ a tal proposito…

 

Alessandro Franchini: Come accennava Giorgio la bella novità è che le nuove carte Adox sono praticamente le Agfa. Quindi le Agfa sono rinate. Le Adox sono state realizzate sugli stessi macchinari della Agfa con i tecnici della Agfa.

Francesco Ferrara: Innanzitutto mi vengono in mente per le loro particolarissime caratteristiche visive, le pellicole Polaroid a distacco della serie 665 e 55 per il grande formato. L’unicità e l’utilità fondamentale di queste pellicole era la resa tonale del bianco e nero dovuta alla possibilità di avere un delicatissimo negativo. Più in generale, la cessazione della produzione dell’intera gamma delle pellicole a estrazione e distacco della polaroid, serie 669, 668, 54 ecc, è davvero un lutto; infatti a breve termine non saranno più sperimentabili le possibilità creative, sfruttando la manipolabilità materica di queste particolarissime emulsioni tramite processi come emulsion lift, image transfer e le stampanti Polaroid. Rimanendo in tempo di fotografia istantanea bisogna assolutamente citare un prodotto altrimenti misconosciuto dal grande pubblico: le pellicole positive istantanee 35mm serie Polachrome e Polapan 135mm.

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Stampa Lith © Ars Imago

Fabiano Busdraghi: Qualche fotografo di cui apprezzate particolarmente il lavoro e perché.

Giorgio Di Noto: Trovo straordinario il lavoro di Arno Rafael Minkkinen sull’autoritratto e sul corpo in relazione al paesaggio. Sensazionale. Anche la maggior parte dei lavori di Hiroshi Sugimoto mi sono sempre piaciuti, anche se mi rendo conto che ormai sono passati. Per quanto riguarda le tecniche antiche trovo molto bravo il romano Massimo Attardi (che ho visto è stato segnalato anche su Camera Obscura) e il suo utilizzo della Gomma Bicromata.

Alessandro Franchini: Letizia Battaglia perché per me la fotografia non è solo immagine.

Francesco Ferrara Un nome su tutti Berengo Gardin. Può sembrare scontato ma ci tengo particolarmente dal momento in cui mi sono avvicinato alla fotografia seguendo un suo workshop. Oltre a Koudelka e a Kenna di cui apprezzo moltissimo lo stile e la tecnica, grazie a Camera Obscura ho scoperto un’artista di cui mi sono innamorato: Martha Casanave.

 

Fabiano Busdraghi: So che è una domanda cui è molto difficile rispondere, ma quale credete che possa essere il futuro della fotografia analogica tradizionale?

Giorgio Di Noto: Stento a credere che scomparirà, soprattutto per quanto riguarda il bianco e nero. Sono convinto che il digitale raggiungerà la qualità anche delle pellicole medio e grande formato, però non credo che questo determinerà la morte dell’analogico. Penso invece che le tecniche di camera oscura, in particolare quelle più antiche, stanno riavendo un discreto successo così come la Polaroid che è nuovamente in produzione.

Alessandro Franchini: Non è una domanda difficile. La fotografia analogica rimarrà quella che è sempre stata. Una tecnica di espressione artistica come tante altre. Ci saranno quelli che faranno fotografie in digitale, quelli solo con photoshop e quelli con pellicole. Ci saranno quelli che lavoreranno con le nuove Polaroid (Impossible Project). Ci saranno ancora quelli che useranno i pennelli per prepararsi le carte fotosensibili.

Di una cosa sono convinto la fotografia analogica sopravviverà alle medio formato digitali che lasceranno il posto alle reflex.

 

Per ulteriori informazioni si visiti il sito di Ars Imago e il nuovo blog Ars Imago.

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Manipolazione Polaroid © Ars Imago
  1. Ideatore e amministratore ars-imago.
  2. Collaboratore ars-imago Italia.
  3. Responsabile ars-imago Italia.
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Intervista alla redazione di Miciap parte 3 /it/2010/fotografia-milano/ /it/2010/fotografia-milano/#comments Thu, 14 Jan 2010 15:38:02 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2430
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© miciap – Alfredo Bosco

Terza e ultima parte dell’intervista alla redazione di Milano Città Aperta, una rivista online e gratuita dedicata alla fotografia di Milano.

 

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di Milano di cui amate particolarmente il lavoro e perché.

Isacco Loconte: Se per fotografo di Milano si intende anche “di adozione” (a voler essere precisi infatti è nato in provincia di Brescia), la mia scelta cade sicuramente su Ugo Mulas. Le sue fotografie hanno secondo me qualcosa di magico. Mi riferisco in particolare a quelle realizzate a Milano. Spesso ritraggono momenti di vita comune – bar, stazioni, persone che camminano per strada – ma sono impregnate di sorta di mistero senza al contempo rinunciare al loro realismo. Magnifico.

Barbara Danasi: Manuel Felisi, di cui ho apprezzato l’opera Nato a Milano Lambrate l’anno scorso presso la fabbrica Eos; è nato a Milano nel 1976 e tutt’ora vi vive e vi lavora; dal 1997 partecipa a mostre collettive, e al 1999 risale la sua prima personale; Nato a Milano Lambrate e Distrato, la sua ultima personale presso Contemporanea (mente a Parma, sono curate da Alberto Mattia Martini. È un artista legato ai temi della fusione fotografica e pittorica e della stratificazione, mostrando, attraverso queste tecniche, un aspetto particolare di Milano, onirico, quasi fantascientifico, ma assolutamente reale, palpabile e inquietante; eternizza con la pittura ciò che coglie in un istante con la fotografia, e questi sono gli aspetti del suo lavoro che maggiormente prediligo e che nel mio personale percorso mi sono sempre stati cari: raccontare la città con la fotografia, rielaborarla con la fantasia, mantenendone l’anima intatta.

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© miciap – Simone-Keremidtschiev

Fabiano Busdraghi: Un lavoro fotografico su Milano che vi ha particolarmente colpito e perché.

Daniele Pennati: Non posso che rispondere “Archivio dello spazio 1987-97 Dieci anni di fotografia italiana sul territorio della provincia di Milano”, ma siccome ne ho già parlato in una precedente risposta ripiegherò su un lavoro molto poco conosciuto (poiché la pubblicazione che ne è seguita non è in vendita), ma di altissimo pregio: Senza Foce di Giovanni Chiaramonte.

Perché lo reputo importante? Innanzi tutto perché Chiaramonte è uno dei miei fotografi preferiti e trovo che abbia la capacità straordinaria di trasfigurare i paesaggi che fotografa conferendo un senso di onirica surrealità alle sue immagini. In secondo luogo perché con questo lavoro, che ripercorre il cammino del fiume Olona dalla sorgente fino a che non scompare nei condotto sotterranei di Milano, è stato capace di nobilitare un dei contesti più ambientalmente degradati di tutto il territorio provinciale. Una nobilitazione che, come in tutti i lavori di Chiaramonte, non è una ricerca del bello a tutti i costi, ma anzi un riconoscimento di un valore storico antropico e naturale che resta ancora in potenza, un valore nascosto e sommerso su cui diviene evidente (osservando le immagini) che è necessario intervenire. Questo è quello che io chiamo “potere progettuale” dell’immagine fotografica: la sua capacità di indagare il territorio facendone emergere le necessità o le opportunità di intervento, trasformazione e riqualificazione.

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© miciap – Filippo Ceredi

Nicola Bertasi: Forse i lavori dei fotografi del gruppo Prospekt. Ma Milano non è una città di fotografia, di ricerca fotografica, e così ripropone mostre di Berengo Gardin da 50 anni come fosse l’unica persona che abbia fotografato la città. È la letteratura, i racconti in dialetto, le favole dei bar del centro che ispirano molti milanesi, me compreso. È Vittorini che crea l’immaginario della città. La nostra rivista se vuole funzionare non dovrà cercare di adeguarsi alla linea di una ricerca reportagistica e artistica che di fatto non si palesa (non perché non esiste ma perché giustamente si nasconde all’assalto) e dare spazio alla turbolenza che riempie i blog, i diari, gli scatti di chi non ha i soldi per esprimersi; dovrà cercare di assemblare i dialoghi tra i non disillusi che ancora credono di poter fare qualcosa (e sopratutto di essere liberi di pensare qualcosa di diverso!). E tutto questo per creare una corrente tra le persone meno appesantite dal crescente conformismo negativo.

La fotografia è diventata ricerca da poco a Milano ed è troppo spesso costola del marketing della pubblicità. A questo proposito sarebbe bello che Milano Città Aperta si proponesse per quelli che utilizzano la fotografia per raccontare e non per vendere. Le foto belle di Milano sono spesso invisibili, nascoste perché, semplicemente, le Storie a Milano sono invisibili, nascoste, sotterrate da cumuli di pubblicità. Bisogna ricominciare a raccontare finché le storie hanno ancora la forza di parlare, con la fotografia, la scrittura, la pittura, la musica e le altre arti. E per raccontare non basta filmare, scrivere, dipingere o fotografare, bisogna sentire le cose. E per sentire le cose……Insomma per fare questo ci vuole tanto coraggio perché bisogna bucare un sistema che va nell’opposta direzione. Ma a volte, nella storia, basta un buco davvero piccolo per aprire una breccia.

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© miciap – Daniele Pennati

Fabiano Busdraghi: Passiamo ad una domanda un po’ filosofica e forse un po’ troppo vaga: che cosa rappresenta per voi la fotografia in senso generale? Come definireste la fotografia in quanto tale?

Isacco Loconte: Ad una domanda del genere non posso che rispondere citando quella che considero la mia bibbia fotografica, L’immaginario dal vero di Henri Cartier-Bresson.

“Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale.

Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore.

Per me fotografare è un modo di capire che non differisce dalle altre forme di espressione visuale. È un grido, una liberazione. Non si tratta di affermare la propria originalità; è un modo di vivere”

miciap
© miciap – Isacco Loconte

Barbara Danasi: La fotografia è uno strumento di ricerca e di analisi. È un modo di cogliere la realtà nel suo sguardo più vero e nello stesso tempo più cieco; è vero che oggigiorno e già da parecchio tempo, parlare di fotografia come di “verità” può sembrare contraddittorio, ma mi piace pensare anche che le successive rielaborazioni in post produzione siano nate dopo la fotografia, e siano tutt’oggi una scelta; la fotografia è quel processo per cui la luce prende le informazioni dalla realtà così come esse si propongono davanti l’obiettivo, quindi la fotografia in quanto tale è documentazione; tutto quello che viene oltre, compreso il ruolo che si pone il fotografo nel momento in cui scatta una fotografia, è creazione e risponde ad altre leggi: il punto di vista, l’idea, il progetto, la comunicazione.

Fabiano Busdraghi: Su quest’ultimo punto, come sanno bene i lettori fedeli di Camera Obscura che hanno avuto modo di leggere Fotografia e Verità, non posso essere d’accordo e sono obbligato a scriverlo per coerenza redazionale1. Vero che la quantità di manipolazioni cui viene sottoposta un’immagine è una scelta del fotografo o più in generale dell’artista, ma le manipolazioni non possono essere viste come un’aggiunta posteriore o accessoria, perché sono intrinseche ad ogni tipo di immagine fotografica, altrimenti bisognerebbe considerare come fotografie unicamente i negativi esposti ma mai sviluppati e fissati2. Allo stesso tempo capisco l’approccio diretto e oggettivo di chi sceglie di utilizzare la fotografia a scopi documentaristici, ma si tratta appunto di una scelta, non di una caratteristica fondante della fotografia. Chiudo qui questa piccola polemica per passare alle ultime due domande, un po’ più generali.

Che cosa amate di Milano? Perché vi piace vivere in questa città?

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© miciap – Alberto Locatelli

Isacco Loconte: Di recente in occasione dell’inaugurazione del nostro progetto abbiamo scelto un testo da recitare ai presenti sotto forma di monologo. Si intitola “Sette peccati milanesi e una virtù”. La parte riguardante i peccati è facile da immaginare (anestesia, velocità, individualismo, ecc), ma il passaggio riguardante la virtù arriva inatteso e potente. Giorgio Fontana, l’autore, la chiama “il diavolo dormiente”. È un’immagine indistinta ma al contempo estremamente vivida per chi vive questa città (o almeno per me). Perché Milano è, dopotutto, anche questo. La città dove dorme un diavolo. E io aspetto con ansia il suo risveglio”.

Niccolò de Mojana: Milano offre più possibilità di qualunque altra città italiana nel campo del lavoro e dell’espressione culturale e artistica. Inoltre si ha sempre la strana percezione di abitare in una grande metropoli che conserva allo stesso tempo molte delle caratteristiche dei tipici paesini italiani.

Fabiano Busdraghi: Che cosa detestate invece di Milano? Che cosa vorreste cambiare?

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© miciap – Barbara Danasi

Filippo Ceredi: Trovo spaventosa l’aggressività che ogni giorno si respira in città. Partendo dall’atteggiamento che molte persone di responsabilità si portano addosso, quell’aria di essere state elette da una divinità a gestire la verità (nelle università) il successo in affari (negli uffici di banche e imprese) lo stile (negli studi di moda) la socialità (nella movida). C’è qualcosa di terribilmente retrogrado in questo atteggiamento: non si risolve solo in una diffusa incapacità di ascoltare ciò che viene di nuovo dall’esterno, ma è anche un modo per diffondere in molte categorie di cittadini la paura di non essere adeguati a ciò che la società richiede da loro. Io credo che il momento storico sia difficile e ponga questioni e contraddizioni nuove, che suscitano forti tensioni sociali, ma credo anche che ci siano precise responsabilità politiche nel modo in cui questo sentimento di paura sta prendendo sempre più piede nella nostra città e altrove nel nostro Paese e purtroppo nel modo in cui tale paura si trasformi in aggressività nei confronti dei “diversi”, immigrati prima di tutti.

Alfredo Bosco: Purtroppo Milano non conosce e non riconosce un’alternativa culturale a quella che offre l’élite presente.

Se da una parte c’è un amministrazione regionale e comunale che lascia molto a desiderare, dall’altra c’è uno “zoccolo duro”, formata dalla classe benestante dedita ai buoni salotti che non produce un’adeguata soluzione per rilanciare culturalmente la città.

Ci piacerebbe cambiare questo atteggiamento “snob” proprio con il nostro progetto miciap, interessante e costituito da una generale intenzionalità artistica, senza dimenticare un sano pragmatismo redazionale.

 

Leggi la prima e seconda parte dell’intervista alla redazione di Milano Città Aperta, rivista online dedicata alla fotografia milanese.

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© miciap – Nicola Bertasi
  1. Naturalmente pubblico la risposta senza nessuna censura, visto che credo nella libertà di espressione e nel valore delle idee divergenti, ma è importante che il fatto stesso che la pubblichi non venga scambiato per una mia presa di posizione in questo senso, che condivida il messaggio contenuto nella risposta data
  2. Per dettagli si legga in particolare Quasi niente è fotografia.
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Intervista alla redazione di Milano città aperta parte 2 /it/2010/miciap/ /it/2010/miciap/#comments Sun, 10 Jan 2010 15:01:24 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2428
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© miciap – Alberto Locatelli

Ecco la seconda parte dell’intervista alla redazione di Miciap, la nuova rivista online di fotografia dedicata a Milano.

 

Fabiano Busdraghi: Come descrivereste “l’offerta fotografica” di Milano? Le mostre, gli eventi culturali legati alla fotografia, le manifestazioni e via dicendo sono numerosi e di livello?

Daniele Pennati: “Milano città della moda”… “Milano città del design e della creatività”… “Milano metropoli internazionale”…

Questi slogan che si sentono ripetere come un mantra dagli amministratori cittadini farebbe pensare ad una città viva, frizzante, ricca di novità… La situazione è in realtà abbastanza diversa, almeno paragonata al contesto europeo e mondiale. Milano è una città media, con un buon livello di attività creative, artistiche e culturali, ma non è eccellente. Milano, come altre città italiane, è ancora culturalmente provinciale, e per quanto riguarda la fotografia lo è ancora di più. L’Italia soffre da sempre di una cultura fotografica assai scarna e di poca, se non pochissima, attenzione alla fotografia come forma d’arte o anche solo come qualcosa di culturalmente rilevante.

C’è però da dire che nell’ultimo decennio la situazione sta cambiando e anche a Milano iniziano ad esserci degli attori internazionali per quanto riguarda il campo fotografico. In particolare sono tre le istituzioni di maggiore rilevanza: il Museo di Fotografia Contemporanea, lo Spazio Forma e la Galleria Sozzani. Questi tre centri sono quelli che propongono le mostre più importanti e rilevanti come calibro degli autori e numero di opere. Propongono però quasi sempre mostre “istituzionali”, vanno, per così dire, sul sicuro presentando autori affermati e lavori convenzionali.

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© miciap – Nicola Bertasi

Per trovare lavori più innovativi bisogna rivolgersi all’universo delle piccole gallerie private che sempre più spesso nascono nei quartieri “gentrificati” della città, dalla Bovisa a Corso Como, dall’Isola a Savona-Tortona. Piccole gallerie che però sono totalmente marginali nel mercato fotografico internazionale, è che sono spesso concentrante più ad inseguire il “trendy” che l’originale.

In ultimo, come in ogni città di discrete dimensioni, esiste anche un sottobosco di spazi espositivi e culturali che restano legati ad un circuito più marginale, in cui si porta avanti un discorso culturale di nicchia, slegato ai grandi numeri sia economici che di pubblico. È il circuito dei centri sociali o dei circoli ARCI in cui però è raro trovare (fotograficamente parlando) eventi di rilevanza nazionale o internazionale. Sono spazi dove prevalentemente trovano spazio autori emergenti o dilettanti, ma certamente non sono paragonabili ai lontani fratelli berlinesi o londinesi.

Qualcosa si muove, l’attenzione per la fotografia aumenta, ma come spesso accade a Milano il tutto avviene un po’ lentamente ed in ritardo con una profonda discrepanza tra realtà urbana e l’immagine autoprodotta che si cerca di esportare all’estero.

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© miciap – Alfredo Bosco

Niccolò de Mojana: L’offerta fotografica e in generale culturale di Milano è buona, relativamente al resto del nostro paese. Certo, siamo ancora lontani anni luce dalla vitalità di Parigi, Berlino o Londra, ma esistono certamente diverse realtà che promuovono eventi o mostre che non troverebbero spazio in altre città italiane. Purtroppo, il settore vive una forte depressione economica e la reazione degli addetti ai lavori per adesso sembra insufficiente. Un esempio per tutti: l’agenzia Grazia Neri sta per chiudere. La nostra rivista si propone allora (umilmente ma senza timori reverenziali) di aiutare a rinnovare il panorama muovendosi su nuovi fronti, come il web, i social network, i blog. Una nuova possibilità di organizzarsi, di fare, di costruire un futuro.

Fabiano Busdraghi: Dal punto di vista commerciale (giornalismo, editoria, etc) e espositivo (fotografia artistica e plastica), come descrivereste l’ambiente fotografico milanese, in un senso puramente professionale del termine? Detto altrimenti, come si lavora a Milano nel mondo della fotografia?

Isacco Loconte: Direi che Milano, trattandosi di un centro nevralgico per quanto riguarda la moda e il design offre numerose possibilità a chi intende lavorare in tali ambiti. Tuttavia è ormai ampiamente condivisa l’idea che il mondo dell’editoria, nel suo complesso e in particolare per quanto riguarda il fotogiornalismo, sia in crisi e Milano di certo non fa eccezione (un esempio per tutti appunto la chiusura dell’agenzia fotografica Grazia Neri). Una speranza mi viene però dai progetti indipendenti di piccoli gruppi di giovani fotografi, come il nostro per l’appunto.

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© miciap – Barbara Danasi

Alberto Locatelli: “Quali tempi sono questi, quando discorre d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio!”. Così scriveva Bertold Brecht, nel 1938 in “A coloro che verranno”. La fotografia, nonostante si tenti in tutti i modi di trovarne ogni possibile sbocco commerciale, come accade peraltro ad ogni ‘prodotto’ della nostra contemporaneità, ci parla continuamente di “quel bisogno d’alberi che ci oppone al potere delle merci e delle armi, così come al “pensiero unico” che ne è espressione. Un potere e un pensiero che, con tutta la loro impersonale brutalità, non possono obbligarci a pensare il mondo da essi modellato – spoglio d’alberi e contaminato da stragi – come l’unico possibile, e la violenza dei loro fatti come la vera realtà1. Sicuramente in una situazione economicamente dissestata come quella attuale un approccio del genere non può che descrivere una fotografia che difficilmente riesce a difendere la propria professionalità e il proprio livello artistico: troppo spesso il fotografico vede il proprio spessore culturale rimpiazzato con meri surrogati commerciali che rischiano di perdere addirittura ogni dignità professionale schiacciata da semplicistiche ed ottuse logiche economico-razionalizzanti.

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© miciap – Daniele Pennati

Barbara Danasi: Dal mio personale punto di vista e esperienza, Milano offre di più e offre di meno. Indubbiamente confrontata ad altre realtà italiane, Milano sembra offrire di più: più occasioni, più lavoro, più scuole, più possibilità di usare la fotografia come un linguaggio, e non solo come un orpello decorativo nelle cerimonie religiose. Qui, a livello teorico e virtuale, le possibilità ci sono davvero; poi però ti rendi conto che di fatto, rispetto all’Europa, Milano è ancora così provinciale: per fare davvero qualcosa o ti affidi al volontariato gratuito oppure hai bisogno di conoscenze e accreditamenti. Spesso non viene valutata la bravura e la dedizione, ma la posizione sociale e le possibilità economiche; e anche nei casi in cui di fatto si riesce a conquistare una posizione, bisogna difenderla da una agguerrita concorrenza, con i denti, accorgendosi che le speranze di far valere le proprie doti comunicative sono molto meno apprezzate della vecchia stantia soluzione comunicativa adottata da decenni. Esiste, purtroppo, a livello nazionale un sistema di mercato nella comunicazione che non ripaga la qualità, punta a ridurre i budget ai minimi termini, diseduca lo sguardo comune alla visione, presta troppa attenzione alle richieste del cliente, anche se possono portare a un risultato mediocre. Milano non fa differenza, ed è sintomatico di questo particolare momento storico che -come dicevamo- la nota agenzia di fotogiornalismo Grazia Neri abbia chiuso i battenti poco tempo fa: invece di ricorrere a nuove proposte di fotografi, si preferisce ricorrere ad agenzie di microstock a prezzi inferiori o scaricare gratuitamente fotografie da siti di condivisione di immagini. Infine, nella mia personale esperienza di fotografo e studente, ho conosciuto tanti, ma proprio tanti giovani che studiavano fotografia e non sapevano spiegare nemmeno perché. Io credo che nella capitale della moda e nella città di Brera non sia impossibile trovare degli sbocchi e delle opportunità, solo è indispensabile essere tenaci, è necessario prestare attenzione alla cura che verrà prestata alle nostre immagini nel momento in cui verranno messe a disposizione del pubblico, e qualche volta bisogna scendere a sporchi compromessi con il nostro punto di vista e quello del committente.

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© miciap – Filippo Ceredi

Fabiano Busdraghi: Potete descrivere le fotografie che avete selezionato per accompagnare questo articolo e spiegare perché le avete scelte?

Daniele Pennati: Le fotografie scelte sono tratte da un lavoro svolto nel 2007 sul territorio del vimercatese. Questo è un territorio abbastanza particolare perché su di esso stanno avendo luogo fenomeni trasformativi differenti: la crisi delle grandi industrie High Tec, l’incontrollato sviluppo edilizio fatto di case unifamiliari e villette a schiera, l’istituzione di nuovi parchi per la conservazione agricola ed ambientale, …

Le immagini scelte sono quelle che ritengo più rivelatrici del territorio e soprattutto più indicative del mio approccio fotografico attento ai dettagli ed alle tracce lasciate sul territorio da pratiche e trasformazioni spesso contraddittorie. Sono immagini da guardare con attenzione, non autoevidenti, ma da leggere pazientemente… o, almeno, così mi piace pensarle.

Filippo Ceredi: Questa foto ritrae un vecchio di origine barese che vende mazzi di violette agli angoli delle strade. L’immagine fa parte di una serie di ritratti in cui chiedevo alla gente che incontravo per strada di posare con la mano bene aperta di fronte all’obiettivo e in questo caso non sono proprio riuscito a ottenere questa posa. Per tre o quattro volte ho scattato e la mano del vecchio, nonostante le mie indicazioni, rimaneva distante dall’obiettivo, come ripiegata sul suo corpo. Per me questa immagine è diventata un simbolo dell’oblio in cui sta cadendo un aspetto fondamentale del passato di questa città, quello di essere stata una meta di speranza per tanta gente che veniva da situazioni molto più difficili, un asilo per quelli che non avevano trovato nella loro terra d’origine un posto favorevole alla realizzazione della loro vita.

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© miciap – Simone Keremidtschiev

Alberto Locatelli: Pur se indissolubilmente legata, come tutto ciò che può dirsi fotografico, alla sua natura metonimica e alla sua “forza referenziale”2, questa immagine, assieme alle scelte estetiche che hanno accompagnato nella sua interezza e coerente organicità lo sviluppo del progetto Ex-pascoli, tenta di decostruire ogni “potenza di verità”3 insita in qualsivoglia tentativo volto ad una codificazione del linguaggio fotografico. una “faglia”4, un “punto”5 si apre sul piano dell’immagine, portandola così ad una inevitabile “dimenticanza dei codici6, che non le permetterà più di essere trattata come un ‘oggetto di verità. Il fotografico., dunque, come un “messaggio senza codice”7 di barthesiana memoria, opaco, muto e che, proprio per questo suo costitutivo sfuggirne, dagli stessi codici verrà ri-preso con tanta più rabbia e vigore8. Quest’immagine tenta di mostrare quella forza di irradiazione che non è uno dei minori effetti di della logica della connessione fisica che regge le basi del procedimento fotografico.

L’unicità referenziale letteralmente si propaga per contatto, per mezzo dei meccanismi della metonimia, per il gioco della contiguità materiale, come un calore intenso che corre su dei corpi conduttori che si toccano l’un l’altro e che vanno, per così dire a bruciare l’immagine nell’incandescenza della sua singolarità irriducibile. Tale è la “pulsione metonimica” e letteralmente mobilizzatrice della fotografia: partita da quasi niente, da un singolo punto (punctum), da un singolare unico, ecco che essa si espande, sensibilizza, invade tutto il campo. Essa si propaga9

Il fotografico, tra reale ed immaginario, trasfigurazione della propria referenzialità.

Nicola Bertasi: Non c’è mai una ragione precisa, credo, dietro alla scelta che fa il fotografo. Per questo hanno inventato i photoeditor, proprio per poter rispondere a questa domanda.

 

Leggi la prima e terza parte dell’intervista alla redazione di Milano Città Aperta, rivista online dedicata alla fotografia milanese.

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© miciap – Isacco Loconte
  1. R. Signorini, Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni, C.R.T. (Coscienza Realtà Testimonianza), Milano 2001, p. 5, nota a pié di pagina.
  2. P. Dubois, L’acte photographique, Labor, Bruxell 1983, poi apparso come L’acte photographique et autres essais, Nathan, Paris 1990, tr. it. e cura di B. Valli, Quattro Venti, Urbino 1996, p. 87.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 88.
  5. Ibidem.
  6. Ibidem.
  7. R. Barthes, Le message photographique, in “Communications 1”, Paris 1961, tr. it. in Aa.Vv., La comunicazione audiovisiva, Paoline, Roma 1972, poi “Le message photographique”, in L’obvie et obtus. Essais critiques III, Seuil, Paris 1982, tr. it. di C. Benincasa, G. Bottiroli, G. P. Caprettini, D. De Agostini, L. Lonzi, G. Margotti, “Il messaggio fotografico”, in Id., L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 1985, 20012, p. 7.
  8. Cfr. P. Dubois, op. cit., p. 88. È dipingendo ogni “foto” (ivi, p. 80) come “un messaggio autosufficiente” (ivi, p. 81) o come “una singolarità esistenziale primaria” (ibidem) che i pieni significati successivi “non si propongono che di ricoprire, trasformare, riempire successivamente, a titolo di effetti” (ibidem), infatti, che Dubois “spiega un buon numero di usi e di valori del mezzo (medium) – valori e usi più o meno personali, intimi, sentimentali, amorosi, nostalgici, mortiferi, ecc… – usi sempre resi nei giochi del desiderio e della morte e che tendono tutti ad attribuire alla foto una forza particolare, qualcosa che ne faccia un vero oggetto di «credenza», al di là di ogni razionalità, di ogni principio di realtà o di estetismo. La foto, letteralmente, come oggetto parziale (nel senso freudiano), oscillante tra la «reliquia» e il «feticcio», che spinge la «Rivelazione» fino al «miracolo»” (ibidem).
  9. P. Dubois, ivi, p. 79.
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Miciap, Milano Città Aperta, rivista di fotografia dedicata a Milano /it/2010/milano-citta-aperta/ /it/2010/milano-citta-aperta/#comments Wed, 06 Jan 2010 20:09:15 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2405
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© miciap – Filippo Ceredi

Miciap, Milano Città Aperta, è una rivista online di fotografia dedicata a Milano, che ha l’obbiettivo di descriverne la realtà urbana, le tensioni sociali, le sue persone, le contraddizioni e i sogni. Ecco un’intervista collettiva alla redazione di Miciap, a proposito della rivista stessa ma anche di Milano in senso lato.

 

Fabiano Busdraghi: Come descrivereste Miciap? Come e perché è nata l’idea di creare una rivista dedicata alla fotografia di/su Milano?

Isacco Loconte: Non sarà eclatante, ma Milano Città Aperta ha emesso il suo primo vagito in un piccolo baretto del centro città. Le riunioni sono venute dopo. Quel giorno c’erano solo tre ragazzi seduti ad un tavolo: sorseggiavano birra e cercavano di esprime a parole un desiderio che sentivano dentro di loro ma che ai tempi era ancora poco chiaro. Si perché come spesso accade un progetto nasce da una necessità profonda che però si manifesta solo pian piano, strada facendo. Oggi, a più di un anno di distanza, penso di aver capito di che cosa stavamo parlando quel giorno. Milano è la nostra città. Certo detta così può sembrare un’affermazione banale, ma spesso ci dimentichiamo di cosa significhi. Quel “nostra” dovrebbe contenere un senso di “intimità”, quella sorta di complessa tensione che proviamo verso ciò che ci appartiene. Penso che Milano Città Aperta in fondo sia proprio questo, un gesto di scoperta e riappropriazione.

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© miciap – Alfredo Bosco

Fabiano Busdraghi: Perché avete provato l’esigenza di creare una nuova rivista? Come si differenzia Miciap rispetto alle altre riviste online di fotografia? Che obbiettivi vi ponete?

Filippo Ceredi: La nostra intenzione è quella di distinguerci dai blog di fotografia che hanno preso piede negli ultimi anni, dove le immagini vengono perlopiù valutate in base all’estetica della singola immagine e rimangono spesso confinate al racconto di un’esperienza individuale o di piccoli gruppi. La nostra rivista si propone invece di esplorare Milano come grande esperienza collettiva, cercando nei servizi fotografici – non solo nelle singole immagini – la grammatica di un racconto, un modo più articolato ed efficace per affrontare la realtà complessa che viviamo quotidianamente, come anche quelle realtà che ci circondano – e che ci riguardano – senza tuttavia trovare un posto di rilievo nel flusso accelerato della vita urbana. Credo che sia, in sostanza, un tentativo di mettersi in ascolto e allo stesso tempo un modo per dare forma alla nostra necessità di dire come vediamo le cose.

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© miciap – Daniele Pennati

Fabiano Busdraghi: Pensate che Milano, in quanto città, abbia una sua specificità che la differenzia da tutte le altre? Quali sono, dal punto di vista fotografico, le differenze e le analogie rispetto alle altre città del mondo?

Isacco Loconte: Milano non è una città speciale. Non a prima vista. Non nel senso stretto del termine. Ogni città possiede dei tratti distintivi, ma solo alcune ne sono così intrise da trasmetterne in maniera inequivocabile l’unicità, da renderla respirabile. Milano non è tra queste. Non strega al primo contatto e, anche trascorrendoci un lungo periodo, la sensazione che generalmente infonde ha qualcosa di indistinto e caotico. Ci si potrebbe quasi convincere che questo dipenda da una totale mancanza di carattere. Ma non è così. È solo una questione di timidezza. Al di là del luccichio dei negozi, del profumo delle passerelle e del trucco degli eventi di respiro internazionale, Milano è infatti una persona introversa. Si concede poco per volta e solo a chi dimostra di essere veramente interessato. Rende necessaria una ricerca curiosa, uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice guardare. Ed ecco che entra in gioco la fotografia. A volte ho la netta sensazione che quella scatoletta metallica – come l’ha definita un caro amico tanto tempo fa – non sia una strumento che io utilizzo, ma una guida che indirizza il mio occhio.

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© miciap – Simone Keremidtschiev

Niccolò de Mojana: Milano è una città che offre di sé aspetti apparentemente contraddittori che purtroppo si prestano spesso a diventare rigidi stereotipi. Città-metropoli ma allo stesso tempo molto provinciale, apparentemente triste ma allo stesso tempo festaiola e mondana, moderna ed europea ma anche in gran parte “berlusconiana”, e via dicendo… La sua anima controversa è quindi quanto di più stimolante per un fotografo, che ha così la possibilità di reinventare e scoprire ogni giorno la sua essenza da un punto di vista diverso.

Fabiano Busdraghi: In un certo senso una domanda analoga alla precedente: pensate che i fotografi milanesi abbiano una sorta di visione comune? È possibile parlare di qualcosa come “la scuola di Milano”? Ha senso parlare di correnti fotografiche o oggi la fotografia è globale e le differenze sono dovute all’individualità personale dei fotografi?

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© miciap – Nicola Bertasi

Daniele Pennati: Non credo che si possa parlare di una “Scuola milanese”… almeno non nel senso in cui si parla spesso della “Scuola emiliana” riferendosi, quindi, ad un Maestro (Luigi Ghirri) ed ad una serie di “discepoli” (Guido Guidi, William Guerrieri, etc…) che hanno dato vita in Italia ad un nuovo modo di guardare e interpretare fotograficamente il territorio e le sue trasformazioni. L’unico possibile esempio di “Scuola milanese” risiede forse nell’esperienza del progetto “Archivio dello spazio” promosso dalla Provincia di Milano tra il 1987 e il 1997. Un progetto imponente in cui sessanta tra i principali fotografi italiani (e milanesi) sono stati impegnati nella più grande campagna fotografica mai realizzata in Italia. Questo lavoro, oltre ad aver dato vita al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, è stato centrale nella costruzione dell’immagine e dell’immaginario della provincia milanese che ancora oggi è condiviso da molti studiosi del territorio, siano essi geografi, architetti, urbanisti o sociologi.

Milano non ha, però, un maestro, almeno non uno solo. Sono molti i fotografi milanesi di nascita o di adozione che sono diventati centrali nella scena italiana ed internazionale, ma nessuno è riuscito ad aggregare un modo di vedere comune. Forse la questione è generale e a Milano si trovano quindi i tanti linguaggi fotografici che sono presenti in tutto il mondo (dalla fotografia di architettura a quella di reportage, dalla fotografia di paesaggio a quella di territorio, etc…). Forse, invece, è la natura stessa della città che rende difficile (impossibile?) guardarla in un solo modo. Forse ogni fotografo (ed anche ogni abitante), con la sua formazione estetica e culturale, guarda Milano con occhi diversi. Io credo che la risposta sia più vicina a questa seconda ipotesi ed è anche con questa consapevolezza che la nostra rivista vuole raccontare la città usando una varietà di stili, linguaggi e visioni fotografiche, proprio per rendere giustizia alla complessità urbana che ci circonda.

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© miciap – Isacco Loconte

Alberto Locatelli: Credo che le strade di una città indirizzino la nostra vita, la segnino dal punto di vista professionale e non solo. Cercare una strada comune, tentare di costruire un percorso il cui soggetto sia un gruppo e non un singolo individuo è una sfida che spinge a cercare uno stile capace di dare spessore ad un progetto: delle scelte poetiche e d’indagine che non costringano ad una monolitica omogeneità stilistica, che non cerchino di dare una risposta univoca alle domande sollevate dalla realtà che le ha stimolate. Un atteggiamento del genere non farebbe altro che impantanasi all’inutile ricerca di un marchio identitario in grado solo di rispondere ideologicamente alle mutevoli questioni che una città come Milano ci impone. Assumendo un atteggiamento caleidoscopico la nostra rivista dovrebbe invece porsi l’obiettivo di risvegliare sguardi obliqui, che siano capaci di sostenere il peso delle domande senza farsi schiacciare dalla fretta di trovare facili risposte che li alleggeriscano dalla zavorra.

Aver scelto il milanese come campo d’azione significa aver considerato Milano come una città dove “troppe scelte storiche hanno condannato la bellezza a una condizione marginale dell’esperienza urbana”, ma dove allo stesso tempo “è ancora possibile dire no, e rimettere la bellezza in circolo”. Al suo lato più facile, pubblicitario, leggero questa metropoli contemporanea accompagna sempre il “suo volto nascosto che ci impedisce di abbandonarla, che ci invita a provare ancora fiducia”.

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© miciap – Alberto Locatelli

Nicola Bertasi: Non esiste una scuola milanese, per ora. Credo che oggi la fotografia a Milano sia strettamente legata all’impresa che la finanzia. Milano era una città che dava spazio alle avanguardie, oggi è una città che produce enormi quantità di denaro , reinveste quel denaro per produrre immagini (di qualità) e nello stesso tempo subisce letteralmente il fascino del mainstream, distinguendosi da altre città nel mondo nell’essere incapace di vedere al di là del proprio naso e nel non riuscire a creare un legame emotivo tra arte e strada. Tra gli uomini. Ma il particolare più inquietante è che non esiste, tranne rarissime eccezioni, una ricerca artistica al di fuori di un ambiente accademico (quindi guidata dall’alto) o al di fuori di un ambiente politico/economico (quindi pagata dall’alto). E l’alto a Milano non brilla per schiarite.

Quindi si salvano le nicchie di sognatori, di artisti o di sovversivi che propongono esperimenti meno consueti e più legati alle dinamiche della vita.

Il fotografo quando crea, lo fa, seguendo un percorso che non può che essere legato al suo vissuto. Ogni ricerca è individuale, le correnti artistiche nascono se le individualità vivono un’ empatia di vissuti che porta a condividere i percorsi e a immaginare il futuro. La ricerca fotografica non potrà mai essere globale; ognuno di noi, fotografo poeta o cuoco esprime quello che ha visto, sentito, mangiato, letto, amato nella sua vita. Un cinese sarà sempre più veloce di me. In ogni caso mi auguro che la comprensione e quindi la ricezione della fotografia e dell’arte in generale, nel rispetto assoluto delle diversità, assumano proporzioni sempre più globali. Ma siamo, credo, molto lontani. E a Milano ancora di più.

 

Leggi la seconda e terza parte dell’intervista alla redazione di Milano Città Aperta, rivista online dedicata alla fotografia milanese.

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© miciap – Barbara Danasi
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I micro-mondi icona della televisione italiana, luoghi noti e mai vissuti di Fabio Severo e Alessandro Imbriaco /it/2009/fabio-severo-alessandro-imbriaco/ /it/2009/fabio-severo-alessandro-imbriaco/#comments Fri, 07 Aug 2009 10:28:46 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2195
Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie La città dei fiori
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco (agenzia contrasto) sono i due creatori di Hippolyte Bayard (attualmente mantenuto solo da Fabio Severo), un ottimo blog di fotografia artistica contemporanea, cui è dedicato l’articolo una mappa nel regno dei barbari.

Oltre a scrivere di fotografia Fabio Severo e Alessandro Imbriaco hanno lavorato insieme su di un progetto fotografico ad ampio respiro, dedicato all’immaginario collettivo italiano veicolato dalla televisione, inteso come un insieme di micro-mondi che diventano icone, luoghi che si crede di conoscere senza esserci mai stati. Il potere della televisione di creare luoghi della mente a uso del telespettatore, surrogati di conoscenza (e di emozioni), che danno l’illusione di un rapporto reale con le cose di cui parlano, viene esplorato nelle fotografie dei luoghi di celebri delitti recenti, del paese natale di Padre Pio o del festival di San Remo.

In questa intervista Fabio Severo ci parla del suo lavoro con Alessandro Imbriaco e della sua esperienza di blogger.

 

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie La città dei fiori
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Qual’è la tua storia di fotografo? Come ti sei avvicinato alla fotografia?

Fabio Severo: Passione di bambino, un papà con macchine fotografiche, camera oscura e tanti libri, grandi mostre di grandi autori, primi lavoretti per giornali, poi la camera oscura come lavoro, poi i primi veri progetti personali, un percorso piuttosto tipico. Poi in realtà nella vita “adulta” con la fotografia ho avuto un rapporto abbastanza altalenante, che si è in qualche modo ricompattato da quando è nato Hippolyte Bayard.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie La città dei fiori
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Fabio Severo: Difficile rispondere a questa domanda, difficile anche considerarla come una singola domanda: diciamo sommariamente che la fotografia è da una parte un insieme di strumenti per produrre immagini (mettiamo un attimo da parte quanto il digitale possa aver aumentato le implicazioni di questa definizione in apparenza semplice) e dall’altra parte è un insieme di qualità che vengono considerate proprie di determinate immagini. Voglio dire che se certamente esistono le ‘fotografie’ come oggetti reali, altrettanto esiste un insieme di qualità di tali immagini che le porta a essere più o meno riconosciute come immagini ‘fotografiche’. E qui le tradizioni, gli stili, le modalità di fruizione entrano in gioco a determinare ciò che in un dato momento viene riconosciuto più di altro come prettamente ‘fotografico’. Io personalmente preferisco partire dal considerare la fotografia come un insieme di mezzi per produrre immagini, mi piace guardare le immagini pensandole semplicemente come l’opera di qualcuno, come cose ‘realizzate’, o create da una persona.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie La città dei fiori
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Puoi descrivere Crime Scenes, la serie di fotografie che hai realizzato insieme ad Alessandro Imbriaco?

Fabio Severo: Il lavoro è nato da una commissione che ci è stata proposta dal Corriere della Sera, avevano bisogno di immagini notturne realizzate nei luoghi della recente cronaca nera italiana, la cronaca nera di quei piccoli paesi di provincia che negli ultimi anni tanto spazio ha occupato nei media italiani. L’abbiamo presa come un’occasione per proseguire in una linea di lavoro che avevamo già aperto, ovvero lavorare sulla suggestione dei luoghi, sul carico di significato che precede l’esperienza di tali luoghi e come tale carico di significato pregresso possa influenzare la visione delle immagini di questi luoghi.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Il villaggio di Cogne
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: A volte mi piace giocare e immaginare che i luoghi trattengano qualche cosa del vissuto delle persone che vi transitano, come se i fatti emanassero un’essenza che impregna un luogo, come se una parte di questi rimanesse per sempre nei luoghi che ne sono stati testimoni. In realtà non ci credo, da bravo fisico e materialista ateo so perfettamente che non è vero. Ma mi piace tornare, anni dopo, nel posto in cui vissi un evento speciale. Mi piace tornare e cercare di scoprire se i muri, gli alberi e i marciapiedi hanno trattenuto qualche cosa. Credi che i luoghi dei delitti possano in qualche modo veramente trattenere i fatti accaduti?

Fabio Severo: In realtà il lavoro più che della natura dei luoghi parla dello sguardo che si poggia su di essi, parla dell’ambiguità delle immagini e del peso delle “aspettative” e dei discorsi pregressi che gravano sulle immagini. I luoghi non trattengono realmente, ma vengono investiti piuttosto da uno sguardo che mentre vede ricorda, da una sorta di atto di memoria. Come la maggior parte delle fotografie, del resto.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Il villaggio di Cogne
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Il villaggio di Cogne
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Fra le fotografie dei luoghi dei delitti molte sono state scattate a Cogne. Questa serie in realtà fa parte di un lavoro a più ampio respiro dedicato all’immaginario collettivo italiano, lavoro articolato in tre capitoli: Cogne, San Remo e San Giovanni Rotondo. Puoi parlarci di questo grande progetto?

Fabio Severo: Si tratta di una sorta di viaggio attraverso quei luoghi virtuali che popolano la cultura di massa italiana, luoghi che la maggior parte delle persone non ha mai visto ma di cui ha un’immagine apparentemente chiara e netta, quelle proposta e riproposta dai media negli anni. Ci è venuta la curiosità di vedere cosa sarebbe successo andando lì e cercando di rappresentare questi posti, toglierli dalla cornice televisiva, fare quel “passo indietro” che magari riesce a dare quella distanza di visione che permette di leggere i luoghi, piuttosto che semplicemente riceverli passivamente.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Il villaggio di Cogne
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: In questi lavori esplorate quindi il modo in cui questi insiemi di micro-mondi diventano icone, luoghi che si crede di conoscere senza esserci mai stati. Credete che questo approccio immaginario sia tipicamente italiano o è comune a tutti i paesi?

Fabio Severo: Difficile parlare di altri paesi, o al contrario di un’eventuale specificità italiana. Diciamo soltanto che senza dubbio in Italia c’è una forte propensione all’appiattimento di luoghi e persone su immagini simbolo, icone a cui si ritorna costantemente per descrivere o rappresentare qualcosa, contribuendo così ad un’immobilità di significato di questi luoghi e di queste persone.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Il villaggio di Cogne
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Come realizzate le vostre fotografie dal punto di vista tecnico? Perché le vostre scelte hanno una particolare importanza sul risultato finale?

Fabio Severo: I lavori sono stati realizzati in pellicola di medio e grande formato. La scelta del supporto e degli apparecchi fotografici ha una duplice ragione: da una parte un certo tipo di qualità e ‘risoluzione’ necessarie al tipo di immagini realizzate, dall’altra parte la ricerca di una modalità di lavoro piuttosto “posata” (cavalletto, fase di inquadratura laboriosa, etc), funzionale al tipo di approccio visivo “distante” che cercavamo per raccontare questi micro-mondi.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Crime Scenes
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Come dicevamo hai realizzato i lavori descritti in coppia con Alessandro Imbriaco. Che cosa significa per voi lavorare a due? Come ripartite i compiti? Vi influenzate reciprocamente oppure ognuno porta avanti indipendentemente un aspetto complementare della vostra ricerca?

Fabio Severo: Lavorare insieme per noi ha voluto dire realizzare effettivamente tutte le immagini insieme, abbiamo deciso di non dividerci i compiti e magari procedere in parallelo, ma piuttosto di decidere ogni inquadratura di comune accordo. La collaborazione porta a un approccio visivo necessariamente diverso da quello che si ha lavorando da soli, il processo che porta a realizzare o al contrario “abbandonare” un’immagine avviene secondo dinamiche differenti, sia nella fase di scatto che nell’editing successivo.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Crime Scenes
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Dopo le domande dedicate al vostro lavoro approfitto per fare qualche chiacchiera fotografica, cominciando per un tema attualmente sulla bocca di tutti. L’economia mondiale sta attraversano un periodo particolarmente difficile, alcuni grandi giornali hanno licenziato la maggior parte dei loro fotoreporter, alcune grandi agenzie di stock sono fallite. Come stai attraversando questo periodo di crisi e recessione?

Fabio Severo: Faccio diversi lavori, di cui alcuni non direttamente collegati alla fotografia, ma sicuramente la crisi in fotografia è percepibile. Le redazioni sembrano essere molto caute nel comprare lavori, trovare finanziamenti per progetti di mostre e pubblicazioni appare molto complicato, insomma è una fase piuttosto difficile.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Crime Scenes
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Crime Scenes
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Come potrebbe venir ridisegnato il panorama della fotografia dalla tempesta in atto? Credi che gli effetti alla lunga possano esser positivi?

Fabio Severo: Come sensazione personale direi che potrebbe verificarsi un’ulteriore separazione tra le immagini di consumo e quelle che possiamo definire di fruizione “alta”, per capirci. Voglio dire che potrebbe anche succedere che una gran parte del mercato editoriale interpreti sempre di più la produzione di immagini come un lavoro a basso costo: si presume che la produzione delle immagini richieda un impegno relativo da parte del fotografo, si abbassano i compensi, si svaluta l’essenza del prodotto in sostanza. Ma dall’altra parte questa dinamica potrebbe portare a meglio distinguere un lavoro ‘di consumo’ da un autentico impegno progettuale (sia per il fotografo che per il committente o acquirente), insomma la distinzione tra i diversi prodotti, che spesso è mistificata, si presenterebbe come più netta. Ovviamente non sto parlando delle conseguenze da un punto di vista lavorativo, che sono altre e sarebbero (e forse già sono) drammatiche; mi chiedo solo se una tale separazione non possa portare a una migliore comprensione della forza espressiva delle immagini e del lavoro che c’è dietro. Ma questo riguarda solo il mercato editoriale, rispetto alle gallerie non saprei, sono mesi e mesi che si legge della contrazione del mercato dell’arte.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Crime Scenes
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Quando torno in Italia sento spesso dire che la situazione fotografica è disastrosa. Che gli spazi espositivi si trovano solo grazie a raccomandazioni e nepotismo. Che la gente non ha nessuna cultura fotografica e dell’immagine. Che tutto è fermo e stantio. Mi chiedo spesso se alla fine la situazione è così disperata, oppure se l’erba del vicino sembra sempre più verde di quello che è in realtà. Secondo te qual’è la situazione della fotografia in Italia? I rumori di corridoio corrispondono al vero o si tratta soprattutto di stereotipi e lamentele?

Fabio Severo: Di nuovo, non pretendo di conoscere lo stato delle cose in modo pieno e esaustivo, ma ci sono comunque una serie di fattori che vanno tenuti in considerazione: in Italia la fotografia è poco studiata, è poco diffusa, è poco conosciuta come linguaggio, molto come costume. Poi è anche vero che esistono una serie di realtà che localmente (intendo in determinate città) fanno un ottimo lavoro, quindi volendo cercare molte volte si trovano cose belle, in contatto con quello che succede nel resto del mondo, e esiste anche un discreto numero di autori di ottimo livello. Resta comunque il fatto che una cosa se non viene insegnata, non viene promossa e non viene diffusa in modo ampio è chiaro che non può neanche conseguire un alto valore commerciale, e quindi vende poco, quindi i libri di fotografia nelle librerie non ci sono e le opere fotografiche, mi chiedo, nelle gallerie quanto e come si riesce a venderle?

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Padre Pio
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Passiamo ad un altro argomento, che mi è particolarmente caro. Come abbiamo già detto, oltre a fotografare, scrivi uno splendido blog dedicato alla fotografia artistica, Hippolyte Bayard, di cui sei l’unico autore ormai da un anno e mezzo. Che cosa ti ha spinto a scrivere di fotografia?

Fabio Severo: Forse in primo luogo la tentazione di creare un luogo dove creare dei contenuti relativi alla fotografia contemporanea è stata agevolata dall’immediatezza offerta da internet, un luogo dove un momento non esiste nulla e quello dopo hai messo on-line una cosa nuova, poi che cosa sia in realtà e quanto possa valere e durare nel tempo è un altro discorso. Secondo, la curiosità, la voglia di inserirsi nella scia dei vari blog e aggregatori di informazioni fotografiche che già esistevano, sullo stimolo anche della scarsità di esempi analoghi allora presenti nel panorama italiano, quindi la classica domanda “perché non fare qualcosa del genere anche in lingua italiana?”. E poi rimane un ottimo modo per scoprire continuamente nuovi autori, sia perché li vai a cercare per poterne scrivere, sia perché spesso sono i fotografi stessi che mi scrivono per segnalare il proprio lavoro.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Padre Pio
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Credi che l’attività di blogging sia utile per la carriera fotografica, le due attività sono strettamente legate o invece completamente diverse? Il blog ti ha permesso di trovare contatti interessanti, sia dal punto di vista umano che professionale?

Fabio Severo: Scrivere on-line può essere un modo per entrare in contatto con molte persone e con diversi ambienti, ma penso che di base resti sostanzialmente separato dalla professione del fotografo. Piuttosto può aprire ulteriori prospettive di scrittura, partecipazione a workshop, iniziative di diffusione della cultura fotografica, progetti curatoriali, etc. Personalmente mi ha permesso di partecipare a dei progetti interessanti e di entrare in contatto con molte persone che probabilmente non avrei mai incrociato, e trovo che questa sia una bella possibilità.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Padre Pio
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco

Fabiano Busdraghi: Pensi che oggi internet possa sostituire i canali tradizionali di diffusione delle immagini, o rimane essenziale esporre il proprio lavoro nelle gallerie, e nei musei e pubblicarlo in libri e riviste?

Fabio Severo: Non saprei rispondere globalmente, non penso di conoscere davvero tutta una serie di dinamiche che permetterebbero di collegare l’andamento della circolazione “reale” dei lavori fotografici con la loro presenza sul web. Quello che è certo è che in rete stanno prendendo piede una serie di progetti e modalità di diffusione che indubbiamente vanno considerati vere e proprie finestre sullo stato della fotografia contemporanea: gallerie on-line, riviste, siti tematici, blog, diverse forme di produzione e diffusione di contenuti che indubbiamente hanno raggiunto una loro solidità. Un aspetto che si nota dal basso e che trovo bello resta sempre l’attitudine della rete verso una sorta di democrazia di diffusione e circolazione, ovvero la possibilità di affiancare nello stesso luogo virtuale l’autore affermato e quello emergente o ‘amatoriale’: una dinamica che in qualche modo attenua il peso del nome e sposta l’attenzione sul progetto, sul lavoro proposto, sulle immagini.

Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
Dalla serie Padre Pio
© Fabio Severo e Alessandro Imbriaco
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Intervista a Sophie Tramier /it/2009/intervista-a-sophie-tramier/ /it/2009/intervista-a-sophie-tramier/#comments Sat, 02 May 2009 06:50:33 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=3584 Sophie Tramier

Il lavoro fotografico di Sophie Tramier, rigorosamente in luce naturale, è dedicato alla materia, le trasparenze, le forme. Pesci, frutti di mare, dolci, piatti, posate, bottiglie… tutti questi oggetti prendono vita davanti al suo obbiettivo, costituendo immagini dalla composizione elegante e raffinata. Al di là delle semplici nature morte, costituiscono un modo per rivelare il suo universo e la sua storia personale.

Ecco le fotografie e un’intervista a proposito del suo lavoro e della sua visione fotografica.

 

Fabiano Busdraghi: Puoi raccontarci la tua storia di fotografa?

Sophie Tramier: Fin dall’infanzia sono stata attirata dalla fotografia, dalla sua magia!

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Tutto è iniziato con le foto di famiglia, le grandi scatole dai nonni dove erano custodite tutte quelle foto: quelle storie di vita (di antenati a me sconosciuti). Era un viaggio nel tempo, attraverso i paesaggi e sopratutto attraverso gli uomini. Mi piacevano tantissimo anche le diapositive delle vacanze, che mi riportavano alla memoria bei momenti e mi permettevano di ripercorrere il filo della mia storia.

 

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Sophie Tramier: La fotografia è il viaggio degli uomini: il tempo, l’immaginario, l’emozione, i luoghi, i ricordi. Un modo per svelare un universo, una memoria.

 

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Fabiano Busdraghi: Quali sono le ragioni che ti hanno portato a lavorare sulla natura morta?

Sophie Tramier: “Natura morta” è un termine che viene dalla pittura e che non mi pare particolarmente adatto per quanto riguarda la fotografia.

Ho cominciato col fare foto di personaggi che mi appassionavano, non immaginavo che avrei fatto altro. Non si trattava di reportage, ma piuttosto d’immagini scattate con la complicità di quelle persone, che si trattasse di un ritratto o di moda. Cercavo di andare al di là dalle apparenze, la personalità e la bellezza di ciascuno.

Poi mi hanno proposto dei reportage d’interni, che facevo con la frustrazione di non poter intervenire a sufficienza sull’immagine. Erano come una sorta di constatazione di bei posti, nonostante questo ci vogliono delle qualità artistiche anche per fare questo tipo di lavoro.

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Quindi ho cominciato a fare delle “Nature Morte”, per avere più libertà nella scelta dei soggetti, delle materie, delle composizioni, delle luci.

Non ho l’istinto del reporter, mi piace svelare la realtà mentre lavoro su un’immagine.

 

Fabiano Busdraghi: So che spesso costruisci direttamente le tue composizioni. Ciò che è importante è soprattutto l’immagine finale, il risultato fotografico, oppure questo lavoro di composizione e costruzione, vicino alla scultura, è importante anche in sé stesso?

Sophie Tramier: Costruisco le mie immagini in modo istintivo, partendo da elementi diversi come un luogo, una materia… ma sempre alla ricerca di un senso, di una molteplicità di letture.

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

L’immagine non può essere soltanto puro estetismo, bisogna innanzitutto che racconti una (o delle) storia/e perché ognuno possa farla sua.

 

Fabiano Busdraghi: In generale hai un progetto preciso della tua immagine, costruisci una sorta di set organizzato oppure lasci evolvere le cose, improvvisando, seguendo piuttosto il tuo istinto?

Sophie Tramier: Ho una visione sfocata del progetto, che si svela pian piano a partire dai primi scatti.

Ho bisogno di prendere le distanze, di rinnovare la lettura sulla o sulle prime immagini scattate che mi rivelano la scrittura del progetto finale.

 

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Fabiano Busdraghi: Un giorno mi hai detto che lavori quasi unicamente in luce naturale. Si tratta di una scelta puramente tecnica, preferisci la resa della luce diurna, si tratta piuttosto di giocare con delle possibilità limitate o ancora è una scelta puramente teorica? Che cosa ami della luce naturale?

Sophie Tramier: Sono sensibile alla luce naturale, l’osservo molto, mi adatto a lei. La luce naturale svela un volto, un corpo, una materia, un’immagine; è lei che determinerà la mia posizione al momento di scattare. Non c’è niente di meglio della luce naturale; mi piacciono particolarmente i controluce, la penombra e le luci morbide.

 

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Fabiano Busdraghi: Lavori molto con gli alimenti: libri di ricette, dolci, pesci… sei una grande amante della buona cucina?

Sophie Tramier: Sono arrivata alla fotografia culinaria senza rendermene conto. Le mie prime “Nature Morte” sono state con delle erbe aromatiche, ma senza intenzioni culinari, era un pretesto come un altro per fare delle immagini. In seguito quelle foto hanno fatto nascere delle commissioni in ambito culinario e tutto si è messo in piedi in modo naturale.

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Inconsciamente mi sono fatta incastrare dalla mia golosità.

Quando ho cominciato, la foto culinaria mi sembrava agli antipodi di ciò che volevo fare e non potevo concepire la fotografia senza le persone. La fotografia culinaria in quell’epoca era molto diversa, molta leccata, molto seria, per nulla nella semplicità o nel naturale. A parte qualche grande maestro come Irving Penn che -senza essere un fotografo culinario- ha fatto delle foto magnifiche di questo genere.

Non mi considero come una fotografa culinaria, piuttosto come una fotografa golosa e attratta dalla materia culinaria che vedo come viva, sensuale e ispiratrice.

 

Fabiano Busdraghi: Tutti i fotografi hanno delle “foto mai fatte”. Delle immagini che per ragioni tecniche, lentezza, mancanza di materiale, errori e via dicendo, non sono mai state scattate, e vengono perse per sempre. Ci puoi raccontare una delle tue “foto mai fatte”?

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Sophie Tramier: Non considero mai un’immagine attraverso una tecnica. In genere non mi piacciono le immagini troppo lavorate tecnicamente (come le post-produzioni che si fanno oggi o la luce artificiale), si perde ogni spontaneità, ogni verità; anche se la verità non si trova per forza nel realismo.

Veramente non mi sento cristallizzata o frustrata da “un’immagine mai fatta”. Mi darebbe più fastidio l’aver perso delle immagini fatte o non poterle condividere. Con il digitale, la grande incognita è la conservazione, ho difficoltà ad utilizzarlo nel lavoro o per fare foto di famiglia.

 

Fabiano Busdraghi: E la storia di qualcuna delle immagini che accompagnano l’intervista?

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Sophie Tramier: Ho una tenerezza particolare per i ritratti di pesci. È un lavoro personale cominciato con un’amica stilista Nathalie Nannini, che ha la mia stessa passione per le materie. Quando Nathalie Démoulin e Stéphanie Svukovic delle edizioni Minerva hanno visto quelle immagini, mi hanno commissionato un libro nel quale avremmo potuto continuare quel lavoro con lo stesso spirito e la stessa libertà.

Questa libertà e l’essere circondati da collaboratori che hanno una sensibilità comune permettono la riuscita, al di là delle immagini, di un libro.

Quelle immagini hanno trovato una bella vetrina in quel libro, che ne ha permesso l’esistenza per un pubblico più vasto.

Ho passato la mia infanzia sul Mediterraneo, tra la Corsica e la Provenza. Sulla spiaggia e sulle rocce, giocavo con i polipi facendo gioielli a forma d’anello o braccialetto con i tentacoli a ventosa, assieme alle mie amiche dopo le scorpacciate di ricci di mare.

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Mi piace sviare i miei soggetti dalla loro lettura originale. Questa modalità mi s’impone probabilmente per via di una dislessia che mi svia da una lettura più classica.

Mi s’impone anche una sensualità, una sessualità, un simbolismo: dentro e attraverso le materie, le forme, le pelli, le testure, il cibo, i vegetali…

Nella serie Œuf-NI (NdT: Gioco di parole intraducibile che combina la parola francese per UFO con “uovo”), come attraverso un telescopio, l’uovo raggiunge l’universo sul piano simbolico.

Le “Bottiglie velate” e “le posate di pizzo” fanno parte di una serie d’immagini “ristretta” di oggetti e di forme imballate che evocano la censura o la reclusione imposta alle donne.

La serie “uomo-oggetto” è un confronto di materie, di sensualità: tra pelli, fibre, testure.

Come in un gioco dove i ruoli sarebbero a “specchio”, la nozione di “ritratto” o “nature morte” si sposta, si aggroviglia, si confonde.

Sophie Tramier Sophie Tramier Sophie Tramier
© Sophie Tramier

 

Fabiano Busdraghi: Si dice spesso che la fotografia è praticata quasi unicamente dagli uomini. Certamente ci sono tanti esempi di donne fotografe molto note e che hanno prodotto opere indimenticabili, ma è vero che nell’immaginario comune il fotografo è soprattutto un maschio. Pensi che le fotografe del gentil sesso hanno una visione differente dai loro colleghi uomini? Se è così, quali sono le differenze nel tuo lavoro, la tua specificità femminile?

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Sophie Tramier: Da un punto di vista generale non abbiamo lo stesso approccio, la stessa sensibilità, la stessa sensualità nella vita e quindi anche nella foto, nell’arte in generale… Ma queste differenze si possono trovare anche nell’ambito di uno stesso sesso. Mi è difficile determinare quello che caratterizza la femminilità in un’opera, a ciascuno di percepirla oppure no… Tutto è un fatto di sguardo, di punti di vista.

 

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui ami particolarmente il lavoro e perché.

Sophie Tramier: Uno solo è frustrante!

Tra i miei preferiti, scelgo una donna: Sarah Moon per il suo universo poetico, onirico, la sua femminilità… Ogni sua immagine mi tocca in modo particolare, il viaggio o il sogno sono presenti.

Sophie Tramier
© Sophie Tramier

Più o meno conosciuti che mi toccano… alla rinfusa: Irving Penn, Richard Avedon, le photo impressioniste e i nudi del 19° secolo primi 20°, Gustave Legray, Felice Beato (e altre fotocromie esotiche), Edward Steichen, August Sander, Dorothy Lange, Paul Fusco “RFK Funeral Tran” (libro che ho aperto senza vedere il titolo ne conoscerne il tema, che mi ha profondamente toccato), Robert Parke Harrison, Ismo Holto, Koto Bolofo, Joakin Eskildsen (il suo lavoro sui gitani che ho appena scoperto), Joakin Eskildsen e tanti altri…

 

Fabiano Busdraghi: libro stai leggendo in questo momento? Che musica ami? E i tuoi film preferiti?

Sophie Tramier: Il libro che sto leggendo in questo momento: un libro che mi hanno appena offerto e che mi piace e fa ridere: “Il mio cane stupido” di John Fante.

La musica: jazz blues, soul, funk, reggae, tutta la musica afro-americana. Ma mi piace anche tanta altra musica…!

Cinema: sono una fan del cinema italiano: Fellini, Antonioni, Bertolucci… e l’ultimo film che mi ha sconvolta è “Respiro” di Emanuele Crialese.

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Follia e poesia, i ritratti stenopeici di gUi mohallem /it/2009/gui-mohallem-stenopeico/ /it/2009/gui-mohallem-stenopeico/#comments Sun, 18 Jan 2009 21:32:28 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2623
gUi mohallem
© gUi mohallem

“Quando ero un bambino di mia zia era abituata a portarmi a quei rituali.
Sono stato al centro di questo cerchio di candele
e queste donne hanno continuato a cantare
cose che non poteva capire.
Temo che abbiano fatto qualcosa su di me.”

gUi mohallem è un fotografo brasiliano i cui ritratti stenopeici sulla follia hanno catturato la mia attenzione fin dal primo momento che li ho visti.

Oltre alle fotografie scure, mosse e intense di gUi mohallem, ho molto apprezzato i testi di accompagnamento: citazioni raccolte durante le sue discussioni con le persone ritratte. Sono sempre stato affascinato dalla scrittura, oltre che dalla fotografia, e gli estratti che gUi mohallem associa alle immagini sono come lapidarie e intense poesie moderne, una poesia corale nata dalle persone che raccontano la loro verità di fronte alla macchina fotografica.

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fare fotografia? Qual’è la tua storia come fotografo?

gUi mohallem: Penso che avevo 17 anni quando ho avuto la mia prima macchina fotografica. Sono andato in Australia per un programma di scambio durante le scuole superiori. Questo è quando ho studiato per la prima volta i media di comunicazione e ho fatto un documentario sul programma di scambio. Quando sono tornato in Brasile, sono stato affascinato dalla cinematografia e ha deciso di candidarmi per la Film School di San Paulo.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“A volte mi sento distaccato da me stesso
e vado avanti per giorni in questo modo, come se non fossi realmente me stesso.
Ecco quando ho bisogno di venire qui e guardare la gente.
Li guardo fino a quando sento di aver catturato la loro essenza.
(o ciò che ho deciso essere la loro essenza)
Questo è l’unico modo per tornare in me.”

La fotografia era già un hobby e avevo già iniziato a visitare gli studi e mini laboratori nella mia città natale. Mi ricordo quando ho visto per la prima volta un’immagine venire sulla carta bianca mentre ero dentro una delle ultime camere oscure della città. È stato magico! In questo momento ero già interessato alla distruzione delle immagini e volevo sperimentare tutti i tipi di sostanze chimiche disponibili sulla carta trattata, per vedere come potevano modificarla. Una volta che ho saputo controllare il procedimento che ho iniziato a scrivere sulle mie immagini per farne cartoline personalizzate per i miei amici e amanti.

La Fotografia è venuto a me mentre Università, a partire dall’anno successivo. Sono stato dipendente della camera oscura. E ho amato fare ogni tipo di prova, ed ogni tipo di errori. Ho anche amato il sapore delle sostanze chimiche sulle mani.

Mi sono laureato specializzandomi in cinematografia e fotografia. Volevo spendere un sacco di tempo supplementare in camera oscura. Sono stato così tanto lì dentro che ho avuto la chiave di scorta e l’autorizzazione ad utilizzare l’ingranditore speciale, un impeccabile Leitz.

 

Fabiano Busdraghi: Amo anche io l’odore della chimica e mi ricordo che la mia prima stampa è stato veramente magico come dici. Ancora oggi un briciolo di magia è ancora presente quando scatto o stampo, anche se in digitale. Ma andiamo avanti con la seconda domand: cos’è la fotografia per te?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Ero un bambino molto triste.
Come ho cresciuto ho imparato a ragionare
e dipinto diversi strati sulla tristezza.
Ma è ancora lì, sotto.
E penso che ci sarà sempre…”

gUi mohallem: La fotografia è il mio modo di cercare di tranquillizzare la mia più profonda solitudine, credo. Mi dà l’illusione di riuscire a comunicare con le persone, davvero. Non potrò mai sapere se è per davvero, ma questa illusione mi mantiene sano di mente.

L’altro giorno, poco tempo fa, mi trovavo nella metropolitana di New York e ho visto questa ragazza con l’hula hoop e sembrava così triste e stanca tenendolo in braccio. Ho scattato 3 immagini. Poi alcune persone sono ante a parlarle. Era la notte di Halloween. E si è scoperto che non era per niente triste e affatto stanca. Quando il treno è venuto ho cominciato a parlare con lei. Sono stato sorpreso da quanto di questa scena avevo costruito con la mia fantasia. Voleva vedere la foto, era preoccupata per la sua immagine e le ho risposto, senza pensarci: “Non ti preoccupare, non ho una foto tua, ho solo preso in prestito il tuo corpo per ritrarre i miei sentimenti.”

 

Fabiano Busdraghi: Sono d’accordo, la fotografia non mostra quasi mai la verità, ma solo i nostri sentimenti, le idee, e il punto di vista. Hai anche detto che la fotografia è un modo per minimizzare la tua solitudine. Come te penso che sia un meraviglioso mezzo per comunicare, per far sì che altre persone guardino dentro di te. Ma a volte penso che la fotografia aumenti la mia solitudine, a volte sono come uno schiavo della fotografia. Durante l’enorme quantità di tempo che passo all’interno della camera oscura, a ritoccare al computer, alla ricerca della perfetta combinazione per esprimere i miei sentimenti, o addirittura s scrivere questo blog, sono sempre solo. Tutto il tempo che dedico a tali attività è tempo sottratto alla mia vita sociale. Altre persone, al contrario, sono in grado di utilizzare la fotografia per interagire con agli altri, magari, come hai fatto con la ragazza della metropolitana. Cosa ne pensi?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Nella casa dei miei genitori abbiamo avuto un sacco di regole rigorose,
per esempio ci era consentito usare solo 4 quadrati di carta igienica alla volta.
Obbedivo chiaramente. Se mi chiedevano di farlo non potevo mentire.
Una ragazza cristiana non deve mentire.”

gUi mohallem: Non credo che funzioni per aumentare l’interazione. Lei non era a conoscenza di niente e non si era nemmeno accorta di me. Stavo interagendo solo con me stesso. E non sfuggo la solitudine. Allo stesso tempo, cerco di rimuoverla ma ne ho anche molto bisogno. Difficile da spiegare. Forse è per questo motivo che viaggio.

Rainer Maria Rilke una volta ha scritto:

…vi è una sola solitudine, ed è grande, pesante, difficile da sopportare, e quasi tutti hanno momenti la scambierebbero volentieri per qualsiasi tipo di socialità, banali o comunque a basso costo, per il più piccolo accordo con la prima persona che passa, il più indegno… Ma forse queste sono le ore durante le quali ci si sviluppa, la crescita è dolorosa come la crescita dei ragazzi e triste come l’inizio della primavera. Ma questo non deve confondervi. Che cosa è necessario, dopo tutto, è solo questo: la solitudine, la grande solitudine interiore. Per camminare dentro di te e incontrare nessuno per ore ed ore – che è ciò che si deve essere in grado di raggiungere. Per essere solitari come lo siete stati quando eravate bambini…

 

Fabiano Busdraghi: Come è nata l’idea di Reharsal to Madness? Ci puoi descrivere questo lavoro?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Ogni volta che sono solo
Ho sempre pronto il 911 sul mio cellulare.
Non si può mai sapere quelli chi sono
e quando ti attaccheranno.
Chiunque può essere uno psicopatico.”

gUi mohallem: Si tratta di una questione difficile. Perché non è nato da un unico sguardo. È venuto a poco a poco. Ho avuto questo titolo in testa per un po ‘di tempo (di solito i titoli vengono sempre prima), quando ho visto una delle mie zie avere uno sfogo. Tengo i miei titoli nelle annotazioni e tutto ad un tratto faccio qualcosa che si incastra correttamente. Di solito li titoli arrivano con uno o due anni di anticipo.

Questo ha aspettato 5 o 6 anni. Avevo già sperimentato con lo stenopeico digitale e il movimento quando ho incontrato Juan Betancurth, un artista colombiano, con sede a New York. Il primo giorno siamo andati a fare una passeggiata, abbiamo parlato per 7 ore e conversato di cose molto intime. Due giorni dopo siamo andati sul tetto del suo atelier e abbiamo fatto qualche bello scatto, anche se c’era veramente poca luce.

Continuo a fotografare le persone quando mi sento costretto a farlo, ma in un certo senso continuo ad ignorare la ragione che mi spinge a farlo. Fino al giorno che, parlando in un bar con Juan e il suo fidanzato, ho capito. Stavo fotografando queste persone per quello che mi avevano detto. Questo lavoro era a proposito anche di queste esperienze.

 

Fabiano Busdraghi: Questo è particolarmente interessante. Perché hai deciso di combinare insieme fotografia e parole? Quali sono le conseguenze di questa scelta?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“C’è qualcosa dentro di me
che vuole uscire.
Non riesco a lasciarmi andare
Se lo facessi la mia vita sarebbe un casino…”

gUi mohallem: È stato naturale. È venuto fuori naturalmente dal lavoro, come ho capito che cosa mi fa venire voglia di ritrarre alcune persone e non altre.

Ma questo progetto ha attraversato diverse fasi di coscienzae, se posso dire così. In un primo momento, sono andato son solo il mio coraggio. E mi sono ricordato la citazione a memoria, perché erano i sentimenti che rimasti bloccati dentro di me. Poi, durante la fase di selezione di queste immagini, scegliendole e combinandole con le citazioni, lentamente ho capito che parlavo della mia follia. Proprio come la ragazza in metropolitana, stavo cancellando le immagini e parole di queste persone per parlare di me stesso, in qualche modo.

La follia qui assume un senso molto specifico. Considerando che uno la può usare come distanza, io la uso in un senso di prossimità. Folle è ciò che è simile.

Facendo nuovi lavori mi sono reso conto che era veramente una sfida. A quel punto sono tornato nella mia città natale e ho fotografato i miei genitori. Stavo spingendo i limiti. Quando ho fatto la mostra a New York ero ancora imbarazzato da certe immagini. Il lavoro stesso stava parlando verso di me, così ho passato un sacco di tempo ad ascoltarlo.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Sono andato in tribunale perché ho bruciato una vera agenzia di stato.
Ho rotto la finestra con un mattone.
Versato dentro la benzina, acceso il fuoco, e sono andato via.
Mi sentivo bene. Mi sentivo veramente bene.
Ricordo che quando tornai a casa ho sognato di uccidere un serpente …
e ho avuto sempre paura dei serpenti”.

Quando stavo preparando la mostra, la cosa più difficile è stata quella di decidere come mettere il testo con le immagini. Mi piaceva l’idea di chiedere allo spettatore una sorta di atteggiamento, un qualche tipo di domanda su ciò che è sta cercando. Inoltre, mi piace dare allo spettatore la possibilità di non vedere, se non vuole. Dal momento che queste citazioni sono molto intime non volevo che le prendessero per scontate. La gente dovrebbe vederle solo se si sentono connessi con la specifica immagine. Nel mio sito web, puoi vedere le citazioni solo se passi sopra le immagini col mouse, per esempio. Per la mostra a NY ho preparato una serie di timbri. Al fine di vedere le citazioni, la gente doveva timbrare se stessi, lasciarsi contaminare dalla follia.

E inoltre, era difficile vedere tutte le citazioni di tutte le immagini. La gente doveva quindi scegliere scegliere le immagini che erano spinti a studiare di più, per scoprire. Ero tutto pieno d’apprensione, ma la risposta è stata sorprendente. Le persone si timbravano dappertutto. Volevano sapere.

Nella discussione artistica che abbiamo avuto, Shawn Lyons, il gallerista che mi ha invitato per l’esposizione, mi ha convinto ad aprire le iscrizioni per il progetto. Le persone che vogliono essere raffigurate come una delle mie nuove follie possono firmare per un colloquio e una eventuale sessione di posa. Persone che sono venuti per la mostra, la gente che ha sentito parlarne da amici, nuove persone che ho incontrato, ho cominciato a ricevere tutte queste e-mail chiedendo di far parte del progetto.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“La gran cosa dell’amnesia è che si può ripartire da zero.
Il tuo cervello è come un disco rigido vuoto in un computer.
A 16 anni ho capito che l’amnesia è l’opportunità della vita…
a buttare via i pezzi che non mi piacevano e costruirmi un nuovo ego,
qualcuno con cui potrei essere più soddisfatto… “”

Poi, ha raggiunto una fase in cui ho fatto foto di sconosciuti. Ho trascorso la settimana seguente intervistando e riprendendo questi perfetti stranieri cui ora mi sento così vicino. Su 8 o 9 persone che ho intervistato ce ne è stata una sola, che ho deciso di non fotografare. Poiché questa persona non mi ha lasciato arrivare abbastanza vicino.

Sono molto entusiasta di questo nuovo materiale. Ecco perché ho deciso di aprire le iscrizioni per il pubblico sul mio sito web. Chiunque abbia interesse a far parte del progetto può compilare un formulario molto semplice, e non importa da dove venga. Visto che viaggio abbastanza, la prossima volta che sarò da quelle parti, si potrà organizzare l’intervista. Le persone selezionate per partecipare al progetto riceveranno una stampa firmata della loro foto in un edizione unica. Questo è il modo che ho trovato per dire grazie.

La gioia che mi da questa esperienza è sconvolgente, è sorprendente. Voglio fare questo per un bel po’ di tempo ancora.

 

Fabiano Busdraghi: Spero che un giorno ci incontreremo e accetterai di farmi un ritratto! Questo è un buon esempio di come la fotografia può a volte farti interagire con gli altri e ridurre la solitudine!

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Dopo avermi lasciato ho incontrato un ragazzo che ti assomigliava.
Siamo diventati amici.
Il mio amico è morto due settimane fa. Le onde lo hanno preso.
Ero così spaventata volevo scendere ma non l’ho fatto.
Ora sei tornato.
Questo è tutto: i pianeti devono essere allineati.”

gUi mohallem: Si potrebbe sicuramente fare. Prima si parla, poi la posa. La parte migliore per me è stare in giro con la persona. Perché mi dovresti portare nel tuo posto preferito, da qualche parte importante per te. In questo modo posso conoscere un mondo cui avrei mai potuto accedere altrimenti. Il mondo dell’altra persona. Ma questo non è dove finisce la solitudine. È difficile da spiegare. Ho la sensazione calmante quando si parla e sento che la persona è anche lei un po’ pazza. Allora non sono solo. C’è qualcuno là fuori un po ‘come me.

 

Fabiano Busdraghi: Tutte le foto della serie rehearsal to madness sono stenopeiche. Perché hai deciso di utilizzare il foro stenopeico per la tua serie di immagini? Cosa ti attrae in particolare di questa tecnica?

gUi mohallem: Non mi piace la nitidezza delle immagini digitali. Mi da fastido. Quando scatto in stenopeico, però, è molto più simile a ciò di cui faccio esperienza. È vicino alla mia realtà, se posso dire così.

Inoltre, c’è questa cosa divertente: così facendo, si elimina una cosa in più tra il soggetto rappresentato e la loro immagine. Le lenti. Non vi è l’aberrazione cromatica, distorsione otticai. Non vi è che luce, un buco e un CCD. Mi piace come qualche volta sia semplice e quasi un po’ stupido. Questo è uno dei motivi per cui ho fatto un tutorial stenopeico nel mio sito. La tecnica in sé non è una grande difficoltà.

Non mi piace il dettaglio delle immagini digitali. Mi da fastidio. Il foro stenopeico, però, è molto più vicino a quella che è la mia esperienza. È vicino alla mia realtà, se posso dire così.

 

Fabiano Busdraghi: La fotografia stenopeica sembra dare accesso ad un mondo di fantasia, stravolgere la percezione umana, riscrivere quella che è la realtà. Io credo, un po’ come dicevamo prima, che la fotografia in ogni caso non possa mai descrivere la verità in modo oggettivo. Sei d’accordo con questa idea? Oppure credi che la fotografia permetta anche di riprodurre fedelmente la realtà?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Non ho amici.
Tutta la storia dell’amicizia è una stronzata.
Si tratta solo di interesse.
meno ci si aspetta da parte della gente
meno delusioni finirai per avere.
fidati di quello che dico.”

gUi mohallem: L’unica realtà che puoi descrivere e la tua propria realtà. Questa è l’unica etica possibile in fotografia. Ti do la mia realtà in modo che tu ci possa costruire sopra la tua.

 

Fabiano Busdraghi: Monti i tuoi fori stenopeici su delle macchine fotografiche digitali. Si tratta di una questione di praticità, di rapidità nel verificare i risultati? Oppure è l’unico modo che ti permette di ottenere questo risultato, per esempio grazie alla possibilità offerta dal fotoritocco di gestire contrasto e cromia? O infine ti interessa particolarmente mischiare una tecnica veramente di base come lo stenpeico con gli ultimi ritrovati della tecnologia?

gUi mohallem: Beh, ad essere onesto, penso che sia una miscela di tutte e tre le opzioni. Ormai faccio tutti i miei editing in Photoshop, anche nel mio lavoro sulla pellicola, è molto ritoccato. In genere non uso digitale per il mio lavoro personale. Penso che mi piace aspettare. Mi piace che io non sappia mai come l’immagine verrà fuori. L’altro giorno stavo fotografando un amico per la copertina del suo CD e ho lavorato sia su pellicola che in digitale. Stessi obiettivi, stesse scene, ma le immagini su film hanno hanno un’emozione molto più forte. Sto ancora cercando di capire perché.

Con questo progetto, di solito tengo le immagini invisibili per un po’, dico alle persone che è cotto a fuoco lento.

Mi piace anche il modo in cui il grano in queste immagini sia molto digitale. La fotocamera è agli iso più alti quindi ci sono un sacco di artefatti. In Photoshop li controllo e talvolta li alleggerisco un po ‘. Ma c’è addirittura un po’ di sporcizia che lascio li. Mi piacciono alcune delle imperfezioni, è come la vita stessa.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Amo il profumo del mio amante.
Può stare giorni senza un bagno e non mi dispiacerebbe.
In realtà mi sento mezza triste quando si fa la doccia”.

Il digitale è grande anche perché mi permette di prendere un sacco di foto in una sequenza di ogni persona. È un processo molto catartico per entrambi. So che foto userò solo dopo avere le loro citazioni. Questo può richiedere fino ad alcuni mesi.

 

Fabiano Busdraghi: Insegni fotografia stenopeica per delle associazioni di supporto dei più poveri in Brasile. Ci puoi raccontare quanto è importante l’insegnamento per te? In qualche caso la fotografia ha cambiato al vita di queste persone?

gUi mohallem: Ho insegnato per circa 4 anni. Mi piace da matti. Ho insegnato cinematografia, elettronica e fotografia a questi bambini, in modo che possano entrare nell’industria cinematografica brasiliana (piuttosto tipo televisione e spot pubblicitari). Ma ciò che stavo insegnando mi importa davvero. È stato solo un pretesto per stimolare questi bambini a pensare loro stessi, per costruire il proprio apprendimento, per farsi la propria strada. Lo stenopeico è stato il primo soggetto. Per prima cosa abbiamo trasformato la classe in un enorme camera obscura per capirla dal di dentro. “Così è come la macchina fotografica e l’occhio lavorano” e poi li ho introdotti alla carta fotografica, la sperimentazione dei prodotti chimici, facendo tutti i possibili errori, in modo di costruire in questi ragazzi la passione per il test, e l’apprendimento che parte dalla valutazione delle prove.

Dopo due settimane di stenopeico e camera oscura e li aiutavo solo a distanza per trovare le domande giuste, e non le risposte giuste. La cosa grandiosa dello stenopeico è che ogni macchina è unica. Ha il suo buco, la sua distanza dalla carta e ogni studente deve fotografare tenendo presente tutti questi particolari. Non hanno potuto imparare da nessun altro, se non dalle loro prove. È stata una grande gioia ottenere la loro prima immagine. Visto che non avevano nessuno da ringraziare ad eccezione di se stessi e della loro perseveranza.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Non capisco perché le persone insistono sul dolore.
Andare ai cimiteri, visitare le tombe…
Perché mettersi in questo stato miserevole?
Fare credere che stanno viaggiando.
Questo è quello che faccio”.

Una volta capito come funziona la fotografia stenopeica è stato facile cominciare a parlare di luce e dei suoi principi, l’occhio, la macchina, qualunque cosa. Ma la cosa più importante di tutto questo è che ormai avevano capito che erano alla ricerca di domande, non risposte.

Se vuoi sapere se sono diventati grandi fotografi, non saprei. So che ce ne sono uno o due cche ho beccato su flickr. Ma molti di loro ha cominciato a comprendere la propria vita e sono cresciuti professionalmente tanto da essere indipendente da qualsiasi insegnante o i datori di lavoro in cui possono essere incappati. Ho sentito dire che due di loro hanno guadagnato abbastanza soldi da potersi comprare una macchina ormai.

 

Fabiano Busdraghi: Vivi in Brasile, ma hai viaggiato anche a New York e in diversi altri posti. Qual’è la conseguenza del viaggiare sul tuo lavoro fotografico?

gUi mohallem: Viaggiare mi spinge lontano della mia zona, i miei amici, la mia famiglia, il mio lavoro, e in aggiunta di solito mi metto in situazioni difficili. Di solito mi fermo a casa di uno sconosciuto. Non pianifico nulla. Non so mai dove andrò a dormire, per esempio. Ho anche sempre di viaggio da solo. Credo che sia una ricerca di solitudine.

Quando sono in viaggio mi sento più connesso con me stesso, è come un esilio.

 

Fabiano Busdraghi: Qual’è la situazione fotografica in Brasile? Le manifestazioni, le mostre, gli eventi legati alla fotografia sono numerosi e seguiti? La vita culturale è attiva e interessante?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Sono così normale. Tutto ciò che faccio è così normale,
Ci penso così tanto prima di farlo…
Anche quando mi drogo o dormo con un estraneo
è molto normale, lo sai,
talmente inquadrato nei confini della normalità … “

gUi mohallem: San Paolo è come qualsiasi altro grande centro. C’è così tanto da fare allo stesso tempo che è difficile decidere dove andare, e devi fare delle scelte. Devo confessare che non frequento molto le mostre, soprattutto perché di solito sono molto concentrato sul montaggio della mia roba o sulla finitura di un progetto, lascio appena il mio studio. Devo dire che avrei da fare alcune ricerche per rispondere a questa domanda correttamente.

 

Fabiano Busdraghi: Credi che per avere una buona carriera fotografica si debba vivere a Londra o new York o oggi grazie ad Internet il posto in cui si vive non conta poi così tanto?

gUi mohallem: Mi piace internet e mi piacciono le sue possibilità di connessione. Ho trovato lavori e persone veramente sorprendenti grazie a siti e blog come il tuo. Ma penso anche che niente possa sostituire l’esperienza reale. Mi piace essere in luogo ed incontrare la gente. Mi piace vedere come il lavoro viene montato e presentato. Vedendo le opere di altre persone, le buone opere, è una cosa importante per la tua evoluzione d’artista. A volte i libri possono darti una idea abbastanza buona, ma prendi le opere di Sophie Calle o Gregory Crewdson, per esempio. Perdono tantisimo nei libri. Per avere una buona carriera, ritengo altresì che sia importante incontrare la gente. Per stabilire la connessione, per vedere le facce dietro i nomi, sai. Pertanto, ritengo che per me è importante avere accesso a grandi centri, non necessariamente però abitarci

 

Fabiano Busdraghi: Per quanto riguarda la fotografia e più in generale l’arte, credi che ci siano differenze fondamentali fra il Brasile, l’Euroa e gli stati uniti? Oppure oggi si può solo parlare di un’unica fotografia globale e le differenze sono unicamente dovute alla ricerca individuale e alla personalità degli autori?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“L’abbiamo fatto una sola volta. Lui era così gentile, così dolce…
Ma non so cosa è successo
mi evitara da allora…
Penso che semplicemente non può gestire i suoi sentimenti.
Ma so che lui mi ama.
Sì che mi ama “.

gUi mohallem: Beh, forse io non sono la persona giusta per rispondere.Non sono uno storico e mi riferisco all’arte, in termini di continenti e paesi. Guardo dalla prospettiva di un artista, alla ricerca di artisti e opere che comunicano con me. Ci possono essere differenze, ma non saprei come discuterne, perché non ci ho badato.

 

Fabiano Busdraghi: La diffusione del tuo lavoro è fatta dalle gallerie, mostre, pubblicazioni cartacee etc o è affidata soprattutto ai circuiti artistici su internet? Cosa pensi di queste iniziative?

gUi mohallem: Tutti hanno il loro posto nel mondo e non sono in concorrenza, a mio avviso. Un buon gallerista può essere come un tutore per l’artista, aiutare a trovare vie e modi all’interno del suo lavoro, credo che questo sia un ruolo molto importante, specialmente per i giovani artisti, ma a volte anche in alcuni casi anche quelli più affermati. L’altra cosa importante che una galleria potrebbe o dovrebbe fornire l’artista è trattare la parte commerciale, la promozione, la vendita, seguendo i consumatori. Questa è una parte importante del gioco e l’artista di solito o non è capce o non è interessato a giocare.

Per quanto riguarda lo scambio, a mio avviso Internet è una grande cosa. Perché non si sa mai quello in cosa si potrebbe incappare. Per esempio ho trovato un artista georgiano che vive in Argentina, su Flickr e questa è una grande cosa che solo i circuiti più democratici come Internet possono darti.

 

Fabiano Busdraghi: Quali sono i tuoi siti preferiti di fotografia e di arte? Leggi qualche e-zine, blog o rivista online di fotografia?

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Ho fatto delle stupide cose su me stesso.
Ecco perché mi hanno chiuso dentro”.

gUi mohallem: Non sono proprio adatto a rispondere. Amo le riviste stampate, come Aperture, ma non sono abituato a seguire nessun on e-zines. Però faccio un sacco di ricerca su flickr…

 

Fabiano Busdraghi: Hai qualche sogno fotografico? Qualcosa che vorresti fotografare e non puoi, una macchian fotografica che sogni di avere, un posto dove vorresti andare…

gUi mohallem: Il mio sogno è di vivere del mio lavoro, di poter vivere grazie alle foto che faccio.

 

Fabiano Busdraghi: Puoi parlarci del tuo fotografo preferito che usa il foro stenopeico? Perché ami il suo lavoro?

gUi mohallem: È una cosa buffa. Io non sono di solito un tipo da foro stenopeico. Non seguo o cerco chi lo usa. Ma c’è un tipo in Brasile idi cui ho scoperto per caso il lavoro (è un amico di un amico) e mi piace da matti. Il suo nome è Luish Coelho e ha molto interessanti progetti di trasformare gli appartamenti delle persone in macchine fotografiche, fotografando la persona con la proiezione del paesaggio nei loro appartamenti. Meta-meta-fotografia. È un maestro nel pinhole, è appassionato e sa tutto sul foro. Ma non è lo stenopeico in sé che mi attira. È lo stesso motivo che mi ha condotto ai film di Charlie Kauffman come Adaptation, o Synecdoche, NY. È la semplicità dell’idea e la complessità del risultato.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche altro fotografo brasiliano che ti piace particolarmente?

gUi mohallem: Ci sono un sacco di grandi fotografi in Brasile che io ammiro per svariate ragioni… Amo il modo in cui Dimitri Lee scatta i suoi lunatici paesaggi di città abbandonate, per esempio. E mi piace l’intimità e il rispetto che mostra Wainer João delle persone che vivono nelle baraccopoli e del loro universo. Ha anche fatto un lavoro incredibile, molto difficile da trovare, da un’enorme prigione, pure questa in Brasile.

gUi mohallem
© gUi mohallem

“Non credo nella morte.
Non riesco ad avvicinarmici col pensiero.
Non importa quello che dicono, nessuno morirà.
Semplicemente, non credo nella morte come una possibilità.”

Ma al tempo stesso, e so che può sembrare pretenzioso, ho spesso avuto l’impressione di camminare su una lunga strada con davanti nessuno, nessuno a cui guardare. Questi incredibili fotografi di cui ammiro il lavoro sono molto diversi da me, come se parlassero delle lingue diverse dalla mia. Nel mio ultimo viaggio a New York, ho incontrato una fotografa inglese, Muzi Quawson e smi sono innamorato del suo lavoro. È come per la prima volta da anni che vedo qualcuno che parla la stessa lingua che cerco di parlare, o meglio, qualcuno che è fluente in una lingua che sto ancora sviluppando.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche questione sui tuoi gusti personali. Quali sono i tuoi film, libri e musica preferita?

gUi mohallem: È sempre dura fare una classifica, perché dipende molto dal momento e dal posto in cui ti trovi.Ma adoro “una giornata particolare” di Ettore Scolla. Questo film ha cambiato il mio modo di inquadrare. L’ho visto al teatro venerdì sera. Il mattino seguente stavo prendendo un 35mm. Ne avevo bisogno.

Anche un realizzatore indipendente ha avuto molta influenza sul mio lavoro. Il suo nome è Jonathan Caouette e ha fatto un documentario autobiografico veramente forte che si intitola “Tarnation”.

Esteticamente adoro le composizioni e i patterni di Won Kar Waie lo stesso vale per Wim Wenders, Amo il modo in cui usa i colori, specialmente Paris Texas.

Alcuni dei miei scrittori preferiti sono Gabriel Garcia Marquez, Miranda July, Vladimir Nabokov, Dostoyevsky, Sam Shepard e Sartre.

Difficile dire per quanto riguarda la musica.

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La fotografia in Asia secondo Ch’ng Yaohong /it/2008/fotografia-asiatica/ /it/2008/fotografia-asiatica/#comments Sun, 21 Dec 2008 21:54:39 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2645 Ch'ng Yaohong
© Ch’ng Yaohong

Ch’ng Yaohong è un giovane fotografo di Singapore.

Oltre a fotografare per i suoi progetti personali e i lavori di commissione, Ch’ng Yaohong è anche l’autore di uno dei mei weblog di fotografia preferiti, Asian Photography Blog, ed è facile capire perché. Il sito di Ch’ng Yaohong riunisce infatti due mie grandi passioni attuali: la fotografia e l’Asia. Ogni settimana è possibile scoprire splendidi lavori di fotografi dal grandissimo talento, la maggior parte dei quali sono praticamente sconosciuti in Europa, anche ad un pubblico specializzato. A volte i blog di arte e fotografia contemporanea ripropongono un po’ gli stessi autori, gli stessi stili, le stesse visioni del mondo. Il blog di Ch’ng Yaohong nella blog-sfera attuale è un bell’esempio di novità e differenze.

Per queste ragioni sono stato molto contento quando Ch’ng Yaohong ha accettato di partecipare ad un’intervista a proposito della fotografia asiatica in generale e del suo lavoro personale.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch’ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: In occidente è ormai difficile parlare di una fotografia americana o europea, la fotografia contemporanea è estremamente variegata. Credi che la fotografia asiatica sia piuttosto uniforme, caratterizzata da un’unitarietà fondamentale, oppure è al contrario molto varia e eterogenea come quella occidentale?

Ch’ng Yaohong: Dalla mia esperienza nella gestione del blog sulla fotografia asiatica, ho visto opere che variano a seconda delle diverse culture e nazioni. I fotografi asiatici hanno molti stili, diversi, concepiscono e scattano seguendo tanti generi. Credo che la fotografia asiatica sia così diversa, se non più dei lavori provenienti dall’Europa o l’America. Molti fotografi di ritorno dalla scuola al di fuori dall’Asia portano con loro il carattere distintivo o stili di approcci adottati nei paesi che hanno visitato. Anche in Asia, diversi paesi hanno i loro approcci alla fotografia. Questo è particolarmente vero in Giappone, dove la fotografia ha avuto molti decenni di tradizione. Se uno immagina di entrare in una stanza piena di fotografie da tutto il mondo, può essere facile identificare le varie località geografiche basate sul soggetto delle foto, ma in ultima analisi, i fotografi dietro ogni foto potrebbero facilmente essere asiatici, americani, europei o africani!

 

Ch'ng Yaohong
© Ch’ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Le possibili differenze della fotografia asiatica secondo te sono dovute più all’origine o alla personalità dei fotografi? Credi si possa parlare di una fotografia Cinese, Indiana, Giapponese, Tailandese, etc oppure una distinzione basata sui paesi non ha molto senso, ed è la personalità dei fotografi che conta?

Ch’ng Yaohong: In ogni paese, i fotografi lavorano in modi diversi ed è difficile classificarli in questo modo. Il tema politico di fondo o il soggetto possono essere gli stessi, ma è la personalità del fotografo, le sue esperienze di vita e di pensiero che danno forma alle sue opere. Tracce della storia e della cultura di un paese possono essere infuse in alcune opere, ma l’individuo fa la differenza. Le differenze stilistiche possono essere diverse, fotografi giapponesi tendono a fare foto di strada nello stesso modo a causa della pesante influenza di Daido Moriyama, fotoreporter indonesiani coprono gli stessi eventi come i loro omologhi occidentali, ma ogni immagine è la distillazione della mente e l’anima del fotografo ed è inutile dire che un particolare lavoro del fotografo è cinese, indiano o giapponese.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Credi che la fotografia asiatica sia fondamentalmente diversa da quella occidentale? Oppure al giorno d’oggi la fotografia contemporanea è mondiale, in ogni paese del mondo si fa fotografia attuale ed è impossibile parlare di « scuole » basate sul paese di provenienza dei fotografi?

Ch’ng Yaohong: Mi permetto di dire che i singoli paesi hanno le loro scuole di pensiero, ma Internet ha smussato i confini tra le scuole. La globalizzazione svolge un ruolo enorme sul modo in cui la gente pensa. Stiamo diventando più occidentalizzati, mangiamo lo stesso tipo di cibo, siamo esposti agli stessi tipi di media. Inoltre, molti fotografi asiatici hanno studiato in America o in Europa e hanno adottato simili modi di pensare e di vedere. Quindi quando tornano a casa infondono la loro nuova cultura nel loro lavoro. Fondamentalmente, la fotografia è la fotografia. Scuole di pensiero dettano come un individuo può rivolgersi ad un soggetto, ma è la persona che fa la differenza.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: In Asia la tradizione è molto importante, il passato ha un peso ancora molto forte. Per quanto riguarda la Cina, il paese di cui conosco meglio la cultura, le idee filosofiche e le teorie artistiche si sono sempre confrontate con il passato, reinventandolo continuamente, ma sempre partendo da questo. Nell’ultimo secolo invece la situazione sembra essersi invertita. I paesi asiatici sembra che facciano a gara a rinnegare il proprio passato, a innovarsi, a scoprire una nuova modernità, a fare un grande salto in avanti. Negli ultimi anni, sempre in Cina, si assiste invece ad un contemporaneo ritorno alle origini e alle tradizioni.

Credi che la fotografia in Asia segua la stessa strada? Pensi che tradizione e evoluzione siano ugualmente presenti o una delle due prevarica sull’altra?

Ch’ng Yaohong: Credo che la nuova generazione di fotografi in Cina tenda a recuperare le loro tradizioni a causa della Rivoluzione Culturale. Cinicamente, vorrei dire che si avvantaggiano di questo per entrare nel mercato occidentale dell’arte, in quanto questo è ciò che domandano i consumatori. La situazione in Cina è diversa da altri paesi asiatici visto che si sta muovendo in avanti a grande velocità, cercando di diventare una superpotenza mondiale. Questo crea uno squilibrio e il passato è rapidamente spazzato via per fare spazio al futuro. Alcuni fotografi sono alla ricerca di modi per collegare ciò che è scollegato, per guardare attivamente al passato e formulare critiche sulla direzione del paese.

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Nonostante questo, molti paesi sono ricchi di tradizioni e culture millenarie, che vengono spazzate via da una omogeneizzazione della cultura. Eppure, penso che molti fotografi e artisti si stanno sforzando molto per preservare la propria identità culturale; a fare dichiarazioni contro la palese cancellazione del proprio passato.

Recentemente vedo una maggiore confluenza della fotografia e della tradizione. Mentre alcuni fotografi romanticizzano il passato, altri lo usano come trampolino di lancio per creare qualcosa di nuovo. Credo che sia importante per noi conoscere il nostro passato, prima di poter andare avanti. Tuttavia, non possiamo permetterci di essere vincolati da esso, rifiutando di accettare nuovi modi di pensare o di lavorare. La tradizione e l’evoluzione esistono mano nella mano, tutto dipende dal singolo artista. Non direi che l’una ha la precedenza sull’altra, ma sono sicuramente reciprocamente influenti.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Quali sono i fotografi asiatici il cui lavoro consideri più interessante?

Ch’ng Yaohong: Devi semplicemente visitare il mio blog! Pubblico solo lavori che trovo interessanti.

La mia preferenza cambia ogni anno in funzione di ciò su cui sto attualmente lavorando. Mi piacciono i lavori inquietanti, le cose fuori dallo straordinario. In giro ci sono troppi bei lavori!

 

Fabiano Busdraghi: Puoi descrivere il panorama della fotografia artistica contemporanea in Asia? Le esposizioni, i festival, gli eventi culturali sono frequenti e seguiti? Gli stati sovvenzionano la fotografia artistica?

Ch’ng Yaohong: Ci sono così tanti eventi in tutta l’Asia che il numero mi oltrepassa. C’è una pletora di festival ogni anno: Chobi Mela in Bangladesh, Fotofest Beijing e Pingyao International Photography Festival in Cina, Angkor Photography Festival in Cambogia, il mese della fotografia in Thailand, il mese della fotografia di Singapore e l’inaugurale festival internazionale di fotografia a Singapore. Questo escludendo le numerose mostre in varie città che aprono ogni giorno a Tokyo, Shanghai, Pechino, Manila e New Delhi. Francamente, penso che sia impossibile essere a disposizione per ogni singolo evento! Non sono particolarmente sicuro di sovvenzioni statali in altri paesi, ma a Singapore, il Consiglio Monetario Nazionale per l’Arte prevede assistenza per i grandi eventi a livello nazionale.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Qui in Europa un sacco di gente dice che la produzione si sta spostando in Asia, che in Europa non c’è praticamente più posto per gli affari. Per quanto riguarda la fotografia commerciale in Asia qual’è la situazione? Si lavora bene e in che condizioni?

Ch’ng Yaohong: Vi è sicuramente del lavoro da fare qui, dalla fotografia editoriale al lavoro pubblicitario. Il foto-giornalismo qui va forte e bene, specialmente nei luoghi in cui le lotte sociali sono prevalenti. Qui per ottenere le commissioni dipende soprattutto da quanto sei bravo e dalle persone che conosci. Tuttavia, i margini sono più spesso spinti verso il basso a causa della proliferazione della fotografia digitale. Ognuno può acquistare un reflex digitale e trasformarsi istantaneamente in un professionista. Come l’offerta supera la domanda negli strati bassi, i margini di profitto sono più bassi e la concorrenza più severa. Ma agli alti livelli, i grandi nomi ancora ottengono commissioni dai prezzi impressionanti.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Come le due ultime domande, ma per quanto riguarda più particolarmente Singapore, la città dove vivi. Gallerie, festival, manifestazioni e musei dedicati alla fotografia sono frequenti ?

Ch’ng Yaohong: Negli ultimi anni Singapore sta cominciando ad aprirsi artisticamente e ho visto un crescente numero di mostre che si terranno qui. Inoltre, grandi nomi come la galleria Valentine Willie stanno aprendo delle basi qui per sfruttare l’emergente mercato dell’arte. Inoltre, il governo sta spingendo per far si che le diverse forme d’arte decollino, con una crescente attenzione sull’educazione artistica.

Quest’anno l’inaugurale Singapore International Photography Festival (in cui ho giocato un piccolo ruolo) è stato forse il più grande evento di fotografia cui ho assistito qui. Il Mese della Fotografia organizzato dall’ambasciata francese è al suo terzo anno. Anche il Museo Nazionale ha iniziato a promuovere la fotografia nella sue ultime “Stagioni della Fotografia”, mostre del lavoro del fotografo della Magnum Chien-chi Chang e dell’americano Robert Wilson. Credo che piano piano Singapore sta progredendo verso una città rinascimentale, vedremo aprire sempre più gallerie ed eventi all’interno della nostra piccola città-stato.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Passiamo a qualche domanda più personale. Qual’è la tua storia di fotografo ? Come ti sei avvicinato alla fotografia?

Ch’ng Yaohong: Come la maggior parte dei fotografi, ho preso in mano una macchina fotografica quando avevo 10 o 11 anni e ho fatto comprare a mio padre una SLR quando avevo 13 anni. Ho trascorso i 3 a 4 anni seguenti in camera oscura sviluppando la mia foto e quando ero al liceo si è trattato di una vicenda fatta di alti e bassi. Dopo di che, mi sono ritrovavo nell’esercito per 2 anni e mezzo, dove ho risparmiato fino ad ottenere abbastanza per un kit digitale nel corso del 2005. Mi ero appena immatricolato all’università. Pochi mesi più tardi, sono riuscito a entrare ad un workshop della Objectifs’ Shooting Home, un programma di tutoraggio volto a sviluppare talenti locali. Questo è stato il punto di svolta per me, che mi ha introdotto in un mondo della fotografia più ampio.

Ho iniziato a fare il fotografo freelance tra le lezioni, mentre in concomitanza dirigevo il club fotografico della mia scuola. Ho anche fatto qualche collettiva e ho iniziato a scrivere sulla fotografia nello scorso anno, il 2007. Visto che frequento una scuola di business, ho dovuto imparare molte cose attraverso le mie letture personali. Ho divorato libri sulla teoria critica, storia della fotografia fotografia, storia dell’arte e arte contemporanea.

Il web mi ha aiutato molto visto che mi ha introdotto alla fotografia contemporanea di ogni angolo di mondo, specialmente grazie a Conscientious di Jörg Colberg, e all’oggi blog defunto di Alec Soth.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Ch’ng Yaohong: Un modo esilarante per meditare sulla vita.

 

Fabiano Busdraghi: Su cosa stai lavorando? Quali sono i tuoi progetti attuali e futuri?

Ch’ng Yaohong: Proprio ora sono alle prese con un serie di ritratti che cerca di esplorare la reazione individuale alle molte incertezze della vita. Sono anche rivedendo la mia serie precedente sulla spazzatura lasciata alle spalle dalle persone. Il prossimo anno, spero di imbarcarsi in una serie sulle mie radici, che mi porterà in Malesia e in Cina.

 

Fabiano Busdraghi: Oltre a fotografare, come abbiamo detto prima, scrivi un blog dedicato alla fotografia asiatica. Che cosa ti ha spinto a scrivere di fotografia?

Ch’ng Yaohong: Alla base è stata la creazione del mio portafoglio on-line e stavo cercando il modo per differenziarmi dalle masse. Mi piace scrivere (Sono stato un blogger prima che che si chiamassero blog nel 1998) e amo scoprire lavori su Internet. Come un raccoglitore, vorrei salvare le immagini e i link di opere che mi interessano. Ho visto cosa facevano Jörg Colberg e Shane Lavalette e mi sono reso conto che nessuno parlava della fotografia asiatica. Dal momento che sono bilingue in inglese e in cinese, ho pensato che avrei potuto fare qualcosa di più. Ho messo tutto insieme in un mese e ha lanciato il blog durante il mese d’agosto 2007. Credo di avere iniziato a tirare dopo 3 mesi e il resto, come si dice, è storia.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch’ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Credi che l’attività di blogging sia utile per la carriera fotografica, le due attività sono strettamente legate o invece completamente diverse? Il blog ti ha permesso di trovare contatti interessanti, sia dal punto di vista umano che professionale?

Ch’ng Yaohong: Haha! Penso che sia effettivamente piuttosto dannoso. Sono più conosciuto come uno scrittore/blogger che come un fotografo. Non ho ottenuto alcun incarico commerciale fuori dal mio blog, ma molte persone mi hanno contattato per scrivere a proposito di fotografia.

Tuttavia, è stato un ottimo argomento di conversazione e mi sono fatto molti contatti e amici via blog. Arrivo nelle diverse città del mondo e c’è sempre qualcuno per mostrarmi ciò che sta succedendo sulla scena fotografica locale.

Ho appena iniziato ad avere la mia colonna sulla Singapore Art Gallery Guide. Ma sto sempre aspettando che qualcuno mi abbordi per scrivere un libro a proposito della fotografia asiatica.

 

Ch'ng Yaohong
© Ch'ng Yaohong

Fabiano Busdraghi: Esattamente quello che è successo a me! Un sacco di lavoro, di tempo speso a scrivere e studiare. Però allo stesso un bel po’ di formazione personale qualche amico virtuale, e molti contatti e scambi di opinioni con persone interessanti. E questo è veramente l’aspetto di Internet che preferisco.

Pensi che oggi internet possa sostituire i canali tradizionali di diffusione delle immagini, o rimane essenziale esporre il proprio lavoro nel mondo reale?

Ch’ng Yaohong: In sostanza, adesso è più facile per i fotografi mostrare le loro opere on-line Si sono concessi un pubblico senza molti costi. Tuttavia, ancora preferisco guardare le fotografie in gallerie d’arte e sui libri. Non c’è niente di meglio che vedere una fotografia stampata e appesa su una parete di una galleria. Avere una mostra personale è ancora il sogno di molti, ed è una forma di dire che uno è finalmente ce l’ha fatta.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche domanda sui tuoi gusti personali : che musica ascolti? quali sono i tuoi libri e film preferiti?

Ch\'ng Yaohong
Autoritratto
© Ch’ng Yaohong

Ch’ng Yaohong: Ascolto un miscuglio particolarmente eclettico di musica, che dipende dal mio umore. Tendo a gravitare attorno alla musica in cui i testi non sono poi così importanti, visto che che le mie capacità auditive non sono poi così sviluppate. Mi pare che i gruppi islandesi come Mum e Sigur Ros sono veramente ispiranti. Ma sono un gran fan di Damien Rice.

Sono avido di letture e i miei autori di narrativa preferiti comprendono Haruki Murakami, Neil Gaiman e Jonathan Safran. Leggo anche dei libri non di narrativa su finanza e economia, ma detesto completamente i miei libri di testo. Sto cominciando a tornare verso poesia e filosofia. Sono anche film dipendente! Fra i miei film preferiti ci sono Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Pulp Fiction, Amelie, Fight Club e Donnie Darko.

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Raffaello Di Lorenzo e l’esplorazione di sé stesso /it/2008/raffaello-di-lorenzo/ /it/2008/raffaello-di-lorenzo/#comments Wed, 03 Dec 2008 12:28:09 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=701&langswitch_lang=fr Raffaello Di Lorenzo
Abbraccio, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Le fotografie di Raffaello Di Lorenzo, sia quando l’obiettivo è rivolto direttamente su sé stesso, che quando documenta la malattia dei suoi cari, sono sempre un’esplorazione esplicita del proprio io, di quello che costituisce il proprio mondo visivo, il proprio orizzonte. Sono un autoritratto in senso lato di sé stesso.

Fotografie alla ricerca di conoscenza e interiorizzazione di quelle che sono le esperienze dell’autore, non rifiutano di guardare in faccia dolore e disperazione. Fotografie a tratti inquietanti, buie, senza via d’uscita. Frammenti di un corpo che emerge dall’ombra, scuro e contrastato, con un sapore antico e fuori dal tempo. La sofferenza di una malattia che strappa i tuoi ricordi, la tua mente, le persone che ti sono vicine, senza lasciare niente dietro di sé.

Ecco un’intervista a proposito della ricerca visiva di Raffaello Di Lorenzo e dei suoi metodi di lavoro.

 

Raffaello Di Lorenzo
Artiglio, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Raffaello Di Lorenzo: Una terapia ma anche un gioco con tutte le sfumature all’interno. Mi permette di esprimermi in modo naturale, conoscere me stesso e ciò che mi circonda, è la mia mappa del mondo. È la conferma che siamo circondati dalla bellezza, basta cercarla e mostrarla.

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?

Raffaello Di Lorenzo: A dire il vero la prima volta che ho iniziato a fotografare è stato quando sono stato a Roma, ero ancora un ragazzino. Avevo la macchina del mio babbo tutta manuale e il bugiardino delle pellicole che ti indicano la coppia tempo-diaframma a seconda delle condizioni metereologiche. Beh mi sono detto: “chi se ne frega faccio a modo mio, vedrai che foto alternative verranno fuori”… non so se era più imbarazzato il fotografo o io quando mi ha consegnato le uniche 3 stampe che è riuscito a tirar fuori da un rullino da 36… 3 stampe e anche bruciate… Da quell’esperienza ho capito che per improvvisare bisogna avere delle base tecniche importanti.

Raffaello Di Lorenzo
Croce, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Poi anni fa, come conseguenza di una esperienza emotiva molto intensa ho iniziato a utilizzare la fotografia come strumento di ricerca sul mio corpo e sul mio universo emozionale. Sono nati i primi lavori e le prime mostre. Poi mi fu chiesto di partecipare alla documentazione di una mostra di arte contemporanea e alla compilazione del suo catalogo. Le foto dovevano essere esclusivamente in bianco e nero, iniziai così a occuparmi della stampe bn. E per moltissimo tempo lavorai esclusivamente in bn, in quanto mi permise di avere il massimo controllo sul risultato finale.

 

Fabiano Busdraghi: Immagino che ti riferisci al fatto che, in ambito domestico, solo la fotografia in bianco e nero permetteva di eseguire tutte le tappe personalmente, dallo sviluppo della pellicola alla realizzazione della stampa. Oggi con il digitale è possibile dedicarsi in casa anche al colore. È stato l’avvento del digitale a farti iniziare a lavorare anche con il colore?

Raffaello Di Lorenzo
Nascita, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Mi viene in mente anche un’altra possibile risposta. Hai detto che per moltissimo tempo hai lavorato in bianco e nero per avere il massimo del controllo. Con l’esperienza accumulata dopo tutti questi anni pensi si possa dire che si tende sempre verso uno stato di perfezione totale? Oppure quello del controllo è un’illusione, tanto meglio lasciarsi andare e sfruttare il caso?

Raffaello Di Lorenzo: Si. Grazie al digitale ho potuto ampliare le mie capacità espressive limitate prima solo al bianco e nero. Per il bianco e nero, a parte per stampe più o meno tradizionali, non avevo punti di riferimento con cui scambiare informazioni, conoscenze e con cui sperimentare qui in Valtellina. Alcuni fotogrammi in bianco e nero infatti li ho ripresi elaborandoli in digitale per avvicinarmi maggiormente al tipo di immagine che volevo estrarre.

Il digitale ha democratizzato la fotografia.

Raffaello Di Lorenzo
Spalle, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Cosa intendo? Nel senso che prima la stampa in bianco e nero, per quanto relativamente diffusa, è sempre stata o considerata un’attività elitaria e sicuramente per stampare a certi livelli è necessaria un’esperienza e una dedizione notevole, e anche una grande quantità di tempo e sforzi. Questo faceva si e fa si che chi stampa in camera oscura sia considerato a metà tra un alchimista e un mago. Onestamente vedendo la qualità di certe opere in bianco e nero è così che mi immagino lo stampatore. Il digitale ha accelerato notevolmente la curva di apprendimento. Adesso un ragazzino di 16 anni crea immagini con il fotoritocco che fanno impallidire molto fotografi della vecchia guardia (che poi il contenuto sia assente, beh, questo è ovviamente un altro discorso), cosa che coi processi chimici era altamente improbabile.

Entrambi i processi permettono di avere il massimo controllo del risultato, e qui c’è un pericolo, divenire succubi del processo. Qualsiasi abilità tecnica non può compensare totalmente una mancanza di contenuti. L’immagine, la fotografia, è un testo visivo. La tecnica è la grammatica che veicola il contenuto dell’immagine. La grammatica deve asservire il contenuto. Rimanendo nell’esempio del testo visivo, per esprimere un concetto posso usare un haiku o una ricca prosa d’annunziana. Ma se manca il contenuto quello che ottengo è la famosa frase della “supercazzola” di Tognazzi, riempie la bocca ma quando la senti dici “eh?”. Adams disse “Non c’è niente di peggio dell’immagine esattissima di una idea confusa”.

 

Raffaello Di Lorenzo
Pubertà di Shiele, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Nella serie di fotografie “Corpografie” il soggetto delle foto sei tu stesso, o meglio il tuo corpo. Che cosa ti ha portato a fare questa scelta? Si tratta di un lavoro sul corpo in senso assoluto, e utilizzi te stesso perché sai esattamente quello che vuoi ottenere da ogni immagine, diventando il modello perfetto? Oppure più che un lavoro sul corpo in generale è un’esplorazione di te stesso, di quello che sei?

Raffaello Di Lorenzo: È entrambe. Come dissi prima, in un dato momento ho avuto la necessità di affrontare delle tensioni emotive. La fotografia è stata lo strumento a me più naturale. Non avevo “modelli o modelle” a disposizione, ero appena agli inizi, e soprattutto essendo emozioni interne l’autoscatto era la logica conseguenza.

 

Fabiano Busdraghi: Nelle immagini sono presenti puntini bianchi, peletti, aloni, che rendono le immagini antiche e nostalgiche. Come se tu avessi utilizzato dei negativi senza pulirli prima dell’ingranditore. Allora tutti i “difetti” come la presenza di polvere, pelucchi, graffi, calcare diventa evidente. Puoi spiegarci i perché questa scelta? Che cosa rappresentano per quanto riguarda la percezione dell’immagine questi elementi?

Raffaele Di Lorenzo
Triangolo, Corpografie.
© Raffaello Di Lorenzo

Raffaello Di Lorenzo: Corpografie è nata in analogico. Scelsi una pellicola inadatta per la resa dei ritratti che poi fu scansionata. Nella scansione sporcai deliberatamente la superficie dello scanner.

Perché e cosa significano i pelucchi, graffi ecc? Riguardo a certe scelte stilistiche, in alcuni casi, non sempre una spiegazione razionale risulta esplicita ed evidente. Spesso rappresentano una traccia che si presta a diversi tipi di lettura. D’altronde è evidente che l’autoreferenzialità di una immagine è un grande bluff. Nello specifico l’aver introdotto dello sporco o dei graffi nell’immagine è stata una forma di sabotaggio al solo godimento dell’immagine, un invito ad andare oltre, a porsi delle domande. Alcuni mi hanno addirittura chiesto, offesi, perché non avessi fatto almeno lo sforzo di pulire le fotografie prima di presentarle… questo la dice lunga sulla analfabetizzazione visiva.

 

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Bellissima e ridicola vignetta, mi sarebbe proprio piaciuto essere presente! Certo che questi “elementi esterni” sono così evidenti nell’immagine che faccio fatica a capire come possa una persona non immaginare che sono chiaramente volute dal fotografo… Stendiamo un velo pietoso, mi sa che è meglio, e andiamo avanti con l’intervista.

L’altra serie che ci proponi, Trapped Dreamer, è dedicata a chi è malato di Alzheimer, ed in particolare la tua stessa mamma.

Ho molto apprezzato le foto, il voler mostrare una malattia senza mezzi termini, senza voler nascondere la sofferenza, senza far finta che si tratti solo un vecchietto sorridente e un po’ rimbambito, senza voler -con la scusa di rispettare il malato- scadere nel buonismo. Tu ci mostri la malattia così com’è, nella sua verità siderale e nella tua esperienza diretta con essa. Oltre ad essere una sorta di reportage sulla malattia mi pare che si tratti anche di un racconto intimo di te stesso e di quello che hai vissuto.

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Perché quindi hai deciso di realizzare questa serie? Cosa ti ha spinto? Hai cercato di esorcizzare la malattia, di tirarla fuori? O piuttosto volevi sensibilizzare l’opinione pubblica in proposito, diffondere ciò che ancora in molti ignorano?

Raffaello Di Lorenzo: Come per Corpografie, la serie di fotografie Trapped Dreamers è nata da una pulsione intima, intensa ed esplosiva che avevo bisogno di affrontare e veicolare. Il medium fotografico per me è perfetto. In un certo senso fa da filtro e ti permette di affrontare la situazione sia in modo associato che dissociato. Inizialmente non mi interessano gli altri, sono lavori che nascono per me stesso. Molti hanno bisogno di sfogarsi a parole con qualcuno, io preferisco fotografarlo e poi mostralo. Così creo una valvola di sfogo continuo e no rompo i coglioni a nessuno [risa]. Poi in genere scopro che queste immagini raggiungono direttamente chi le guarda e hanno un significato e un valore molto più ampio rispetto a quello mio personale.

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Mi rendo conto che fa male a molti. Avevo scoperto su flickr un gruppo dove si possono postare foto di malati Alzheimer, ma solo il nonno carino rimbambito. Mi sono sentito offeso perché era una persona che aveva tutta la vita davanti che è stata rubata dalla malattia. Ho postato le mie foto che ovviamente sono sta cancellate. Mi rendo conto che molti non sono attrezzati emotivamente per affrontare certe situazioni, ma credo che mostrare solo le foto del nonno sia pernicioso e fuorviante. L’Alzheimer non è una malattia che distrugge solo il corpo ma soprattutto l’essenza stessa della persona i suoi ricordi. E insieme ai suoi ricordi parte della memoria storica della famiglia.

L’Alzheimer strappa i legami familiari, è odiosa.

 

Raffaello Di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Immagino che lavorare con tua madre sia stato emotivamente molto duro. Come hai vissuto quest’esperienza?

Raffaello Di Lorenzo: A tappe. Non è stato difficile fotografare è difficile andare in quel posto e vedere un tuo caro in quella situazione, che poi fotografi o meno a me non cambiava nulla, è stato difficile elaborarle, prenderne coscienza e dare forma al dolore. Nei mie lavori seguo sempre le emozioni e mi fermo quando sento che è tutto “giusto”. E’ stato un esperienza talmente totale che da allora non ho fatto più nulla di introspettivo. Solo ora sto pensando di iniziare nuovi lavori.

 

Raffaello di Lorenzo
Trapped Dreamers.
© Raffaello Di Lorenzo

Fabiano Busdraghi: Sei stato criticato da altri parenti o conoscenti per queste immagini? Quali sono i loro argomenti e le tue risposte in merito?

Raffaello Di Lorenzo: Non le ho mai mostrate ai parenti, perché non capirebbero, hanno vissuto il dolore in modo diverso. D’altronde ogni esperienza è in se stessa neutra, siamo noi a caricarla di valenze emotive.

 

Fabiano Busdraghi: Hai delle riviste e blog di fotografia che leggi regolarmente? Secondo te possono sostituire la diffusione delle immagini fotografiche nei circuiti classici?

Raffaello Di Lorenzo: Riviste di fotografia non credo che esistano più, o almeno come le intendo io, l’unica che reputo tale tra quelle che conosco è Private, peccato contempli solo il bn. Per il resto cerco molto su internet immagini, fotografi e tecniche.

Raffaello Di Lorenzo
Albero e Luna, Inquietudini.
© Raffaello Di Lorenzo

Credo che internet integri i circuiti classici. Vedere un’opera dal vivo è ben diverso che sul monitor, il modo stesso in cui comunica è diverso, anche il messaggio può essere diverso, le dimensioni della stampa, le loro esatte cromie e luminosità, il supporto sono tutte cose che si perdono col web e che hanno comunque una loro valenza comunicativa. Alla luce di questo ritengo che vedere le opere dal vivo sia essenziale per chi vuole veramente dialogare con un autore. Faccio un esempio che mi riguarda: vedere Corpografie sul web genera una sensazione. Vederla dal vivo (nel caso del primo allestimento), in una stanza totalmente rivestita di panno nero (pavimento e soffitto inclusi) con le foto appese al soffitto con fili di nylon trasparenti e illuminate solo da faretti unidirezionali e una musica di Edit Piaff in sottofondo è un’esperienza totalmente diversa dal punto di vista del messaggio, del coinvolgimento e anche dialogo che si può instaurare tra il fruitore e l’opera stessa, rispetto a vedere le stesse foto sul web (oltre ai soliti problemi di gestione colore dei vari monitor e software).

 

Fabiano Busdraghi: Qualche fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Raffaello Di Lorenzo
Teschio, Inquietudini.
© Raffaello Di Lorenzo

Raffaello Di Lorenzo: David LaChapelle, sia per l’abilità tecnica che per i contenuti, feroci e ironici. Ho avuto il piacere di vederlo a Milano, stupendo! Qualche tempo fa avrei detto Dragan, in realtà mi sono reso conto (magari sbaglio) di quanto sia debitore ad Avedon è mi è un po’ calato l’entusiasmo nei suoi confronti, anche se apprezzo moltissimo la sua capacità di elaborazione. Amo i lavori di Jeanloup Sieff, non c’è campo in cui, a mio parere, non eccelli. Come usa il contrasto, la luce, le sue composizioni ogni cosa credo sia perfetta. Apprezzo la lirica di Maleonn oltre alla sua bravura tecnica. Attualmente lui e Pinardy sono i fotografi che studio da un punto di vista tecnico, di vero e proprio processo di fotoritocco.

 

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Raffaello Di Lorenzo: Leggo sempre diversi libri contemporaneamente e quasi mai in modo lineare, attualmente sto studiando: “Patafisica e arte del vedere” di Jean Baudrillard e “Nonluoghi” di Marc Augè.

Film: “Matrix” per la sua estetica fetish.

Musica: dipende, passo da Mozart a Marylin Manson con molta disinvoltura, tra i preferii ora come ora ci sono i Sigur Ross, Cure, Negrita, Red Hot Chili Peppers. Onestamente dipende molto dal tipo di emozione che voglio suscitare con una immagine, cambio musica a seconda del messaggio visivo, amo la sinestesia.

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Il mondo oscuro di Hyeyoung Kim /it/2008/hyeyoung-kim/ /it/2008/hyeyoung-kim/#comments Mon, 17 Nov 2008 22:19:23 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2665 Hyeyoung Kim

Hyeyoung Kim è una fotografa di origini Coreane che, dopo aver vissuto alcuni anni a Vienna e a San Francisco, si è stabilita alle Hawaii.

Le sue fotografie in bianco e nero sono l’esplorazione di un mondo interiore, un universo segreto dove tutto è rivelato: gioia, sofferenza, paura, inquietudini, ma anche pace, felicità e sicurezza. Nella sua serie “Una stanza in una stanza” Hyeyoung Kim costruisce dei pupazzi che mette in scena, dei piccoli manichini con cui crea delle vere e proprie allegorie delle sensazioni e degli stati d’animo umani. Le fotografie vengono poi manipolate in camera oscura con diverse tecniche, creando delle immagini buie e inquietanti, come incubi o visioni, ma anche immagini cinematografiche, forti ed espressive.

Ecco una chiacchierata a proposito delle sue fotografie e della sua esperienza di vita.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fare foto? Qual’è la tua storia di fotografa?

Hyeyoung Kim: Quando mi sono trasferita da Vienna a San Francisco prevedevo di iscrivermi al conservatorio di musica di SF e continuare a studiare violoncello. Un giorno, quando ero nel campus di SF visitando il conservatorio di musica, ho sentito questo forte risentimento contro l’idea di studiare ulteriormente il violoncello. Così ho smesso completamente di suonare e mi sono iscritta ad un corso di base di fotografia tenuto all’Accademia dell’Arte. Da allora, ho creato fotografie e altre opere di arte visiva. Il fatto è che il violoncello è stata una cosa che i miei genitori hanno imposto su di me sin da quando ero bambina, ma la fotografia e l’arte visiva è stato quello che ho scelto da sola.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Che cos’è la fotografia per te?

Hyeyoung Kim: La fotografia ha molti significati per me! Soprattutto è uno dei pochi modi che utilizzo per far sapere al mondo qualcosa su di me: i miei pensieri, sentimenti ed opinioni. Sono una persona introversa e la maggior parte delle volte parlo difficilmente di quello che c’è nella mia testa.

La fotografia mi aiuta anche a spegnere tutto il rumore che c’è nella mia testa e a ravvivare le mie emozioni quando sono depressa. Ha la stessa funzione che hanno le pillole anti-depressive o anti-psicotiche per certe persone. Soprattutto quando lavoro in camera oscura sento una particolare solitudine così piacevole e serena.

 

Fabiano Busdraghi: Credo di sapere di cosa stai parlando. Un paio di anni fa sono passato per uno dei peggiori periodi della mia vita, niente mi rendeva felice. Gli unici momenti in cui tutto sembrava a posto era quando stampavo le tecniche antiche in camera oscura.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Andiamo avanti con la prossima domanda. Sei nata in sud Corea, quindi nel 1991 ti sei trasferita a Vienna, dove sei rimasta per due anni e mezzo. Po hai vissuto a San Francisco per alcuni anni e alla fine, nel 2001, sei arrivata a Honolulu, dove vivi adesso. Sembra veramente una vita interessante e avventurosa!

Perché hai deciso di partire dalla Corea e viaggiare in così tanti posti? Pensi di restare alle Hawaii per un po’ o vuoi trasferirti ancora in un altro posto? Qual’è l’importanza del viaggio nella tua vita?

Hyeyoung Kim: Partire dalla Corea per andare a Vienna è stata una decisione dei miei genitori, con due ragioni. Innanzi tutto speravano che studiassi violoncello in una città così rinomata per la musica classica. Poi avevano delle serie difficoltà a controllare il mio comportamento ribelle e problematico verso di loro e verso la società coreana. Quando ci ripenso era giusto l’attitudine di una giovane ragazza che cercava di capire la sua vita. Tuttavia questa giovinezza agitata ha molto turbato mia madre.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Trasferirmi da Vienna a San Francisco e poi ancora a Honolulu è stata una mia decisione personale. Entrambe queste decisioni vengono da due insiemi di scelte opposte che il destino mi ha offerto. Quando sono andata a San Francisco ho dovuto scegliere fra vecchio/familiare e sconosciuto/avventuroso. Fra SF e Honolulu è stata una scelta fra vivere in modo confortevole ma dipendente o divenire indipendente ma lottare continuamente con la vita quotidiana. Credo che una persona nasca con un certo destino, ma per compierlo ci sono diverse vie possibili e ogni persona può scegliere quale via seguire per arrivare al proprio destino.

Restare alle Hawaii… le Hawaii sono uno splendido posto veramente unico. Amo la gente di qui, la diversità culturale, e in particolare l’oceano. Stare nell’acqua (bodysurfing) è diventata un’altra attività importante per la pace della mia mente. Però essere un artista alle Hawaii è molto difficile, perché non ci sono molte ispirazioni per il tipo di lavoro che faccio, opportunità e strutture (buona pressione) per aiutare un artista a prosperare. Inizio anche sentire prurito al culo per qualcosa di sconosciuto che mi rimetta in gioco. Amo essere una straniera in un posto straniero.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: E quali sono allora le conseguenze sul tuo lavoro artistico? Il luogo in cui vivi è essenziale per la creazione artistica?

Hyeyoung Kim: Non molto. Vivere alle Hawaii durante gli ultimi 8 anni è stata una lotta per il lato creativo della mia vita. Però le persone (mio marito Arno) con cui vivo sono una delle poche fonti che mi aiutano nel processo creativo. E lui è stata una delle ragioni per cui mi sono trasferita alle Hawaii, in questo senso allora questo posto è collegato e contribuisce al mio procedimento creativo.

 

Fabiano Busdraghi: Per quanto riguarda la fotografia e più in generale l’arte, pensi che ci siano delel differenze fondamentali fra Sud Corea, Europa, USA e le Hawaii? Oppure oggi si può parlare unicamente di una fotografia globale, e le differenze sono unicamente dovute alla ricerca individuale e alla personalità degli autori?

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Hyeyoung Kim: Si e no. Si, ci sono differenze nell’arte di diverse aree demografiche, con ognuna il suo tipo di cultura, situazione sociale, valori, etc. Pertanto l’arte può prosperare e crescere meglio in certe aree del mondo piuttosto che in altre. L’ultima volta che sono stata in Corea, dopo aver saggiato la scena artistica locale, ho realizzato che di fatto ci sono due tipi di scene artistiche. La prima che segue la tendenza globale, molte gallerie e musei che esponevano le classiche “opere post-moderne in grande formato”. L’altra scena era arte con ricerca individuale e personale, ma influenzata dalla particolare società da cui provengono gli artisti, con le loro caratteristiche sociali, politiche e culturali.

 

Fabiano Busdraghi: Ci dicevi che hai studiato violoncello durante molti anni. Pensi che la musica e la fotografia siano due attività indipendenti o giusto due espressioni complementari dello stesso bisogno creativo? La musica può influenzare la fotografia e viceversa?

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Hyeyoung Kim: Ho smesso di suonare il violoncello quando mi sono trasferita a SF (ma ho in conto di riprenderlo quando diventerò un’anziana signora per poter suonare perfettamente le Suites di Bach). La musica e la mia fotografia/arte visiva sono strettamente intrecciate. La mia sensibilità reagisce sia agli stimoli visivi che ai suoni. La buona musica risveglia la mia sensibilità e mi spigne ad essere creativa. Quindi ascolto sempre la mia musica preferita quando lavoro in camera oscura. Ho anche pensato di realizzare un progetto fotografico basato sulle 6 suite per violoncello solo di bach, che amo incondizionatamente ascoltare.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Torniamo quindi alla fotografia. Puoi descriverci il tuo progetto “Una stanza in una stanza”?

Hyeyoung Kim: Sono sempre stata interessata alla realtà dentro la mente umana. “Una stanza in una stanza” è il mio tentativo di esplorare, comprendere e rappresentare visualmente questa realtà interna, e particolarmente la mente umana, dove sofferenza, odio, disperazione, solitudine come felicità e compassione probabilmente vengono originate.

 

Fabiano Busdraghi: Le tue foto effettivamente sono oscure e inquietanti. Sono come incubi che diventano veri di fronte ai nostri occhi, le nostre paure che prendono vita. Perché hai scelto questi soggetti? Pensi che la vita in generale sia come queste fotografie, oppure si tratta di uno dei tanti aspetti della vita che vale la pena esplorare?

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Hyeyoung Kim: Entrambi! Come ha detto Buddha “la vita è sofferenza”. La sofferenza (sia fisica che mentale) è stata, è e sarà sempre una parte principale della vita umana. Ma molti di noi cercano di ignorare questa parte della loro vita e si dicono che tutto va o andrà bene. Evitiamo di scendere più in profondità per completare questa sofferenza inevitabile nelle nostre vite e cerchiamo di perseguire solo la cosiddetta “felicità”, nella maggior parte ridotta a piaceri a corto termine. È come auto ipnotizzarsi. Con la personalità che mi ritrovo, non posso voltarmi di schiena ma devo guardare con forza queste esperienze umane (vita, sofferenza, deperire, la morte, etc), ci passiamo tutti nelle nostre vite. Qualche volta vorrei convincermi che tutto va bene ed è luminoso in questa vita e nel mondo. Vorrei saper vedere solo il lato luminoso delle cose.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Usando pupazzi e costruendo le tue messe in scena puoi manipolare completamente la realtà per creare il tuo universo personale. Credi che la costruzione di una nuova realtà è richiesta unicamente per la produzione delle immagini che hai immaginato? O la costruzione della scena ha la stessa importanza dell’immagine finale?

Hyeyoung Kim: Se ho capito bene la domanda, credo che la tua descrizione precedente sia più vicina a quella che era la mia intenzione. Quando un’immagine o un concetto nasce nella mia mente, ne faccio uno schizzo veloce nel mio diario. Quindi rifletto per un po’ di tempo se vale la pena renderlo un’immagine visibile, tangibile. Se decido che si, inizio a costruire la scena e le figure secondo quanto ho immaginato. Visto che non ho l’abilità di molti scultori di talento o persone dotate di molta manualità, le mie scene e figure alla fine sembrano molto fragili, ma comunque trasmettono la mia idea.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Puoi descrivere brevemente dal punto di vista tecnico come hai creato le tue immagini?

Hyeyoung Kim: La maggior parte delle foto che ho fatto sono state scattate con una macchina analogica 35mm (in generale Nikon FM2 e occasionalmente una macchina di plastica per negativi 35mm) e inizialmente stampate in camera oscura. In camera oscura di solito sperimento con varie tecniche per esaltare e manipolare le immagini fino a che l’immagine assomiglia a quello che penso debba assomigliare.

Pensieri sul digitale: le macchine fotografiche digitali hanno guadagnato popolarità durante più o meno gli ultimi dieci anni. Uso anche una macchina digitale, soprattutto quando mi capitano dei lavori fotografici. È rapido e conveniente. Riduce la componente fisica del lavoro del fotografo (cambiare e sviluppare le pellicole, mischiare la chimica, fare i provini per contatto, stampare le foto in camera oscura, spuntinare, etc). Però se questi lavori tradizionali sparissero tutti insieme dalla mia vita mi mancherebbero veramente tanto.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Si dice spesso che la fotografia è praticata soprattutto da uomini. Certo ci sono tanti esempi di donne fotografe molto conosciute che hanno prodotto lavori indimenticabili, ma è vero che sono meno degli uomini. Del resto sei la prima donna che intervisto su Camera Obscura.

Credi che le fotografe donne hanno un diverso modo di vedere la realtà e un diverso modo di fotografare? Se è così, quali sono le differenze nel tuo lavoro, la specificità femminile?

Hyeyoung Kim: Si, sono d’accordo con quello che dici. Anche se l’uguaglianza fra i sessi è incredibilmente aumentata durante le ultime decadi, viviamo ancora in una società dominata dai maschi. A parte alcune carriere specifiche (il lavoro di essere mamma e pochi altri) i lavoratori maschi sono di numero nettamente superiore in ogni ramo professionale che si possa immaginare. Questa costatazione si applica anche alla fotografia, come hai detto.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Credo che la sensibilità (in questo caso particolare, cosa e come si percepisce la fotografia) è diversa fra uomini e donne, anche se il grado di diversità può variare. Le differenze vengono da fattori innati (i geni con cui siamo nati) e fattori ambientali (come siamo stati cresciuti in questa società).

Per quanto mi riguarda, ogni difetto tecnico dell’immagine non mi infastidisce poi molto se l’immagine trasmette l’impatto emotivo e il concetto come volevo. Sono anche meno interessata a certi soggetti, come fotografare macchine, moda, azioni sportive. Per esempio, quando sono in acqua facendo bodysurfing, ci sono spesso fotografi acquatici di sesso maschile, a mollo nell’acqua, cercando di catturare un surfista che cavalca un’onda di buone misure. Sembrano interessati a catturare l’azione, l’evento fisico. I fotograferei piuttosto l’emozione e l’atmosfera che emana dall’azione in quel particolare momento. Ma non sono sicura se le differenze sono dovute al fatto che sono una donna o al fatto che sono me stessa.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: La diffusione del tuo lavoro si fa per gallerie, esibizioni, publicazioni in riviste di settore, etc oppure è affidata principalmente ai circuiti artistici su internet? Cosa pensi di queste iniziative? Quali sono i tuoi siti d’arte preferiti? Leggi qualche pubblicazione elettronica, blog o rivista online d’arte?

Hyeyoung Kim: Fino ad alcuni anni fa ho pensato che il modo per essere riconosciuto come un buon artista fosse attraverso gallerie, musei e pubblicazioni. Ho fatto alcune mostre in musei e gallerie d’arte di New York, alle Hawaii e in altre città degli Stati Uniti. Poi ho realizzato che non ho la personalità che va bene per queste aree commerciali. Devi essere una persona molto estroversa e un buon uomo d’affari per riuscire ad integrare il principale circuito artistico degli Stati Uniti.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Mi piace l’idea di condividere l’arte e di raggiungere un’audienza più vasta attraverso Internet. L’idea assomiglia un po’ a quella della nuova scena dei graffiti artistici, che recentemente sono diventati popolari in tutto il mondo. Anche se non uscirei in pubblico e non fare quello che fanno questi artisti, apprezzo l’idea di “arte per la gente” piuttosto che “arte per persone che appartengono ad un certo status sociale”. Internet è stata una delle migliori invenzioni nella nostra storia, sia per un uso generico che per l’arte. Mi piace usare internet quanto odio usare il telefono.

Non ho un sito d’arte in particolare che leggo o seguo regolarmente. Però quando mi viene presentato un sito d’arte, lo visito e lo osservo con attenzione. Come il tuo sito con tutte le diverse e interessanti interviste, oppure una rivista online cilena che si chiama Revista F.8. L’editore mi ha contattata un po’ come hai fatto te e si è mostrato interessato alla mia arte. Così ho visitato l’e-zine, ho guardato in giro, e deciso di accettare l’invito a mostrare un po’ del mio lavoro sulle loro pagine. Qualche volta visito la galleria online Photo Eye perché mi mandano la loro newsletter settimanale con i nuovi lavori dei fotografi esposti nella loro vetrina online, dove sono in mostra anche le mie foto.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Puoi scegliere una delle tue foto e raccontarci la sua storia?

Hyeyoung Kim: Pensieri a proposito di “Corpo, cucito – Autoritratto”.

Anche se tutte le mie immagini sono per me personali, questa è la mia immagine personale più dolorosa. Questa foto è stata fatta un pomeriggio in cui mi sentivo così abbattuta e grigia. Mi dominavano pensieri di morte e ho dovuto fare qualcosa per uscire da questo stato mentale ossessivo. L’immagine è nata così. Dopo averla messa insieme digitalmente, ho fatto una stampa digitale su pellicola che ho racchiuso fra due lastre di flexiglass. Ho stampato anche su stoffa e incollato tutti i pezzi insieme. Sto ancora sperimentando per trovare la resa finale di questa immagine. Forse la ingrandirò per arrivare alle dimensioni reali. È un procedimento lento perché sono spesso riluttante a rivisitare quest’immagine che mi ricorda quel particolare pomeriggio.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Ci puoi parlare di qualcuno dei tuoi fotografi preferiti e dirci perchè ti piace il suo lavoro? C’è qualche fotografo coreano o delle Hawaii che ti piace particolarmente?

Hyeyoung Kim: Ci sono tantissimi fotografi che ammiro per diverse ragioni. Innanzitutto
le foto di Mario Giacomelli mi hanno insegnato a non rispettare le regole, soprattutto per quanto riguarda le stampe in camera oscura dei primi tempi. I lavori di Eikoh Hosoe, Francesca Woodman, e Matt Mahurin sono per me formalmente attrattivi ed emotivamente appaganti. Adoro anche il libro “Esili” di Josef Koudelka. Ha la qualità surreale e urgente che ammiro. Apprezzo le foto di Ralph Eugene Meatyard e il suo sforzo per trovare qualcosa di inusuale e originale in un ambiente così povero di ispirazioni come quello in cui ha vissuto.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Mi piaciono anche i libri fotografici di Masao Yamamoto. Il modo in cui dispone le sue collezioni di foto come se fossero libri. Questi non sono semplici libri sulla fotografia ma entità separate, dei veri tesori. Infine, mi riferisco sempre alle opinioni di Duane Michals a proposito dell’arte e della nostra società. Una sua intervista che si trova nel libro “Conversazioni con fotografi contemporanei” vale veramente la lettura.

Per quanto riguarda i pittori non mi stanco mai di guardare i lavori di Bosch, Paul Klee, Mark Rothko, e Edward Lucie-Smith Rustin.

Nel mio circolo personale mi piacciano anche i lavori di mio marito Arlo Valera. È sia un illustratore che un fotografo, ma in questi ultimi tempi si dedica di più alle illustrazioni e ai dipinti.

Sono anche stata fortunata ad avere alcuni mentori: Lon Clark e Franco Salmoiraghi. Entrambi sono fotografi/artisti-visivi/educatori. Hanno introdotto dento di me idee specifiche sull’arte e la vita, oltre ad incoraggiarmi a seguire la mia strada personale tanto nell’una che nell’altra.

 

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche domanda sui tuoi gusti personali. Quali sono i tuoi film, libri e la musica che preferisci?J

Hyeyoung Kim: Libri: “L’insostenibile leggerezza dell’essere” by Milan Kundera, “Toccato dal fuoco” di Kay Redfield Jamison, “Il ibro tibetano della vita e della morte” di Sogyal Rinpoche, “Fuori di testa – Donne che scrivono sulla follia” curato da Rebecca Shannonhouse, “Artisti in tempi di guerra” e altri libri di Howard Zinn, “L’arte della felicità” del Dalai Lama, “Il curioso incidente del cane nei tempi della notte” di Mark Haddon, “The Gashlycrumb Tinies” di Edward Gorey, “Amore e solitudine” di J. Krishnamurti, “Note su me stesso” di Hugh Prather.

Hyeyoung Kim
© Hyeyoung Kim

Films: “Brazil” di Terry Gilliam, “Brade Runner” di Scott Ridley, “Fallen angels and Chungking Express” di Kar Wai Wong, “Three colors Trilogy-White, Blue, Red” di Kieslowski, “Run Lola Run”, “Delicatessen”, “Big Blue”, “City of Lost Children”, “Little Miss. Sunshine”, “Shaolin Soccer”, “The Diving Bell and The Butterfly”, etc.

Film coreani: “3-Iron”, “The Isle”, The Vengeance trilogy: “Sympathy for Mr. Vengeance”, “Oldboy”, “Lady Vengeance”, “Memories of Murder”, The Story of Two Sisters”.

Documentari: Mi piace molto guardare i documentari. Ce ne sono molti fatti veramente benissimo che ti aprono la mente e Netfix ne ha una buona collezione. “Sicko” e altri documentari di Michel Moore, “You can’t be Neutral on a Moving Train” di Howard Zinn, “Born into Brothels”, “This Film is Not Rated Yet”, “Genghis Blues” etc.

Musica: I miei gusti musicali sono molto vari e di solito mi piacciono pezzi di generi molto diversi fra loro. I Radio Head sono stati uno dei miei gruppi preferiti per lungo tempo. Mi piacciono certi pezzi di musica classica come “Bach Cello Suites”. E infine mi piace anche il K-Pop.

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Intervista a Marco Tardito /it/2008/marco-tardito-intervista/ /it/2008/marco-tardito-intervista/#comments Tue, 14 Oct 2008 07:36:08 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2683 Marco Tardito

La fotografia di Marco Tardito, tanto personale che commerciale, è una fotografia poetica e sottile. Una poesia espressione dell’anima, parole sussurrate all’orecchio, sottili emozioni, malinconia appena sfiorata.

La poesia, il racconto intimo pervadono tanto le fotografie di moda che di viaggio. Fotografie di moda granulose e pittorialiste, delicate, in contrasto con una visione dura e aggressiva della donna, la donna fatale affascinante e irraggiungibile. Fotografie delicate e umane, dove tutto è bellezza. Fotografie di viaggio, che non si limitano a riprodurre i paesaggi e le bellezze esotiche, ma raccontano un viaggio intimo importante come quello materiale.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Marco Tardito: Un racconto, una visione poetica, una comunicazione non verbale, che rivela l’animo di chi la produce.

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?

Marco Tardito: Ho iniziato a fotografare da piccolo, mi ricordo un regalo di compleanno, una macchina polaroid con film in bianco nero, (non mi ricordo più il modello). Poi nelle scuole medie, nel corso di applicazioni tecniche, abbiamo imparato a stampare i negativi.

Allora non avevo nessun negativo mio, per cui stampavo dei fotogrammi ritagliati da una pellicola 8 mm trovata in casa. Il risultato era un’immagine in negativo, ma il procedimento mi aveva affascinato. Con una Canon poi ho iniziato a fotografare a colori. Ho sempre fotografato per gioco, e continuo a farlo in effetti ancora oggi.

Marco Tardito   Marco Tardito
© Marco Tardito

 

Fabiano Busdraghi: Perché per il tuo lavoro personale hai scelto le nature morte e in paritcolare fiori e piante secche? Cosa ti attrae in particolare di questo tema?

Marco Tardito: Ho iniziato a pensare al significato di cosa sia “bello” e cosa non lo sia. In realtà non esiste nulla di brutto.

Mi sono messo ad osservare fiori che appassiscono e ho notato che sono meravigliosi anche dopo che la loro bellezza “svanisce”.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Volevo espandere questo concetto su come le cose possano essere belle sempre. La sfida consisteva in come avrei potuto evidenziare il lato bello che persiste in tutte le cose.

Ho iniziato con alcuni oggetti che avevo a portata di mano, fiori folie, ma intendo continuare.

 

Fabiano Busdraghi: Oltre al tema e al soggetto fotografato nel tuo caso è molto importante la stampa. Innanzitutto usi le carte artistiche da acquarello, una superficie testurata e particolarmente tattile, su cui aggiungi della vernice trasparente. Ci puoi descrivere il tuo procedimento di stampa e perché sei arrivato a questo procedimento?

Marco Tardito: Tutto iniziò per un’esigenza di supporto.

Ero stato ispirato da un racconto di W. Gibson, si parlava di una scatola creata da un artista misterioso, con elementi vari, che evocavano nello spettatore poesia e nostalgia.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Mi serviva una carta con i bordi intatti, non rifilati, carta da disegno spessa, e quindi non adatta alle stampe moderne o inkjet.

Inoltre l’esigenza di controllo e di intervenire mi ha fatto sperimentare la stampa diretta, nel senso di non affidarmi ai laboratori per ottenere il risultato voluto.

Una volta stampata l’immagine su carta da disegno, gli inchiostri sono però assorbiti in profondità, per cui devo utilizzare delle resine per riportare in superficie il colore. Come del resto hai spiegato nell’articolo Vernici per stampe a getto di inchiostro su carta artistica.

Ho fatto molti tentativi con diverse carte e diverse vernici prima di essere soddisfatto. Questo metodo di stampa mi permette anche di intervenire nelle zone che voglio enfatizzare e in quelle che voglio lasciare in sottofondo, ottenendo un effetto unico ad ogni stampa.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Per le tue fotografie usi spesso macchine antiche grande formato, oppure attrezzatura modificata di tuo pugno. Cosa ti spinge ad intervenire sul mezzo di ripresa? È un’esigenza necessaria per ottenere un risultato non convenzionale oppure la costruzione e modifica delle macchine fotografiche è una fonte di piacere in se? Raccontaci di qualche tua ultima “invenzione”…

Marco Tardito: Credo che la fotografia sia fatta di alcune componenti tecniche, altre meccaniche e altre spirituali. In Africa credono che la fotografia abbia il potere di catturarti l’anima. Anche io lo penso.

Per questo motivo mi piace di lavorare con gli elementi che mi aiuteranno a catturare una parte dell’anima delle persone, a cogliere l’emotività. Come uno stregone moderno assemblo vecchi pezzi e lenti, facendo attenzione a non togliere la polvere, componente fondamentale.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Il mio supporto preferito è certamente il Polaroid, in grande formato. Ultimamente sto cercando di ottenere risultati soddisfacenti dal digitale, perchè la sua avanzata non mi colga impreparato. Sto ultimando un sistema di lenti HandMade da attaccare alla mia Canon DS III, attraverso tubi di prolunga, tappi guarnizioni di automobile e vecchie lenti…

 

Fabiano Busdraghi: La prima volta che mi hai mostrato le tue stampe su carta da disegno riverniciata mi hai detto che da anni cercavi una resa pittorialista, senza dover passare per i procedimenti di stampa storici. Da dove nasce il tuo interesse per il pittorialismo? Perché sei attratto da questa qualità di immagini?

Marco Tardito: In effetti è la pittura il mio punto di partenza e di riferimento.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Non mi interessa la fotografia come espressione del reale, mi interessa come evocazione di immagini che risiedono nei nostri ricordi. Immagini che abbiamo memorizzato da qualche parte nel nostro ipotalamo. Cerco immagini oniriche che mi fanno affiorare il ricordo di esperienze vissute o che vorrei vivere. Una volta ero a Tokyo e sono capitato per caso ad una mostra di Wim Wenders, c’era un’ estratto del film “fino alla fine del mondo” riguardante la parte dei sogni.

Ne sono restato folgorato.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Nel tuo lavoro in generale parti da un’idea ben precisa, o se vogliamo un’ispirazione, e inizi a tirarla fuori dalla materia poco a poco oppure la casualità è una componente ugualmente importante?

Marco Tardito: In generale sono un tipo da ripresa diretta.

Parto con un’idea o un desiderio e la compongo poco a poco, modificando quello che vedo, o memorizzando le modifiche che farò in seguito. Mi piace “creare” e non “rubare” le immagini. Per questo che lavoro solo con cose che posso vedere e sentire. Detesto lavorare con luce artificiale, e assolutamente mai con il flash. Uso il sole, o l’ombra.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Per ottenere le tue stampe pittorialiste su carta da disegno poi riverniciata è necessario molto più tempo e lavoro di quello necessario stampando sulle carte a getto d’inchiostro. Nell’arte, soprattutto contemporanea, la complessità della tecnica è di solito messa in secondo piano rispetto al risultato finale.

Da sempre invece la fotografia si è in qualche modo confrontata con le difficoltà di realizzazione e la complessità tecnica. Immagini ottenute tramite procedimenti lunghi e difficili sembrano spesso avere un valore aggiunto. Nel tuo caso, sei interessato unicamente al risultato finale? Oppure nel processo manuale trovi una tua estetica personale? Il fatto che sia necessaria una componente artigianale, anche se filtrata dall’informatica, modifica in qualche modo il valore dell’opera?

Marco Tardito
© Marco Tardito

Marco Tardito: La componente artigianale, e soprattutto quella manuale, è fondamentale per me. Questo modo di lavorare, mi permette di intervenire a vari livelli. La fotografia per come la ho conosciuta io, è fatta da varie fasi. Lo scatto, lo sviluppo e la stampa. Puoi intervenire in tutte e tre le fasi. Devi farlo se vuoi entrare in un processo creativo. Rapportandosi nell’era del digitale è ancora più importante l’intervento personale e artigianale. Se ti lasci prendere dal manierismo dei software, non riesci ad ottenere cosa vuoi tu, ma cosa vuole il sig. photoshop e i suoi amici, plug-in.

Mi piace anche molto il contrasto tra modernità e antichità. Rewind/fastforward. L’utilizzo di tecniche moderne e antiche, insieme.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Sono ovviamente interessato alla resa finale, e provo piacere nella lavorazione quando questa è creativa e non semplicemente riproduttiva.

Amo quello che faccio e per me anche il minimo dettaglio ha un suo significato. Fa tutto parte di un modo di raccontare delle storie, non sono mai stato bravo a comunicare con la scrittura e trovo più semplice farlo con le immagini.

 

Fabiano Busdraghi: Oltre al lavoro di ricerca personale di cui abbiamo parlato in questa intervista sei un fotografo di moda e pubblicità. Come si concilia il lavoro di fotografo professionista con i propri lavori personali? Vivi ogni lavoro come espressione pura della tua creatività, oppure le commissioni implicano un compromesso troppo pesante?

Marco Tardito
© Marco Tardito

Marco Tardito: Ho iniziato ad occuparmi di moda per esigenze commerciali. Sono stato fortunato nel poter esercitare questo mestiere in un ambito del tutto privilegiato, facendo l’art director di me stesso. Allora riuscivo a trovare il compromesso tra poesia e marketing.

Ultimamente le esigenze di mercato mettono in secondo piano l’aspetto emozionale, e artistico. La legge di “show more product” sta appiattendo l’animo creativo. Sempre più spesso si parte con degli ottimi progetti, che vengono ri-indirizzati verso un aspetto troppo commerciale e poco stimolante.

Mi sono promesso però di non abbandonare le speranze nel cercare il cliente che comprenderà le esigenze di espressione che vadano oltre il semplice mostrare le cose da comperare.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Oltre alle tue nature morte su carta da disegno, che ho visto dal vero, e le fotografie di moda del tuo portfolio, sul tuo sito ci sono molte fotografie di un reportage in Africa. Ci puoi raccontare qualche cosa di questo viaggio? Perché queste foto sono così importanti per te?

Marco Tardito: Si tratta di un esperimento fatto in Tanzania.

Li non puoi fotografare direttamente le persone, non amano essere ritratte, almeno quando vi ero stato io nel 93. Ho utilizzato una Olympus Pen 1/2 formato e non inquadravo mai l’immagine, semplicemente mi limitavo a scattare puntando quello che mi interessava. Ho sviluppato le pellicole in cross process, per enfatizzare i colori che in Africa sono davvero vivaci.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Il concetto stesso del 1/2 formato è interessante, l’associazione delle immagini creata sul film genera delle composizioni alle volte sorprendenti, a cui non sempre avevamo pensato. Inoltre mi interessa la composizione fatta in maniera approssimativa, non studiata e a volte imprecisa “casuale” come gli avvenimenti che possono succederti in quel tipo di avventure.

Era uno di quei progetti lasciati nel cassetto, ho voluto riprenderlo e lavorarci un po sopra soprattutto per poterlo condividere con i miei compagni di viaggio di allora.

Quello è stato uno dei viaggi che mi ha fatto vivere delle emozioni intense, e riflettere su come i ritmi e le priorità siano davvero diverse da quelle a cui ci stiamo abituando oggi.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Anche a te chiedo, come agli altri fotografi intervistati, se hai delle foto “mai fatte” e se ci vuoi raccontare la loro storia.

Marco Tardito: La foto mai fatta. Una volta ero a Harbur Island per un lavoro, in quell’isola c’era anche Vanessa Paradis che prendeva sole in topless, avrei potuto farle una foto e rivenderla ai giornali… oggi sarei un paparazzi famoso… non ho fotografie che avrei voluto fare, ma molte che farò presto o tardi…

 

Fabiano Busdraghi: Da pochi giorni ti sei ritrasferito a Parigi, dove avevi vissuto da ragazzo. Che cosa ti ha spinto a fare questa scelta? Pensi che oggi il luogo in cui si vive è essenziale per una carriera fotografica o grazie a internet oggi si può lavorare nello stesso modo in qualunque parte del mondo?

Marco Tardito
© Marco Tardito

Marco Tardito: Sono tornato a Parigi per moltissimi motivi. Parigi è una città meravigliosa, in movimento costante e questo ti aiuta certamente. Grazie ad internet oggi spostarsi in un’altra città è diventato facile, lavorativamente parlando.

Quello che ti trasmette una città come Parigi o Londra o New York però non è emulabile attraverso i pixel di un monitor, ci devi essere. Il lavoro di fotografo, e delle persone creative in genere, è influenzato dagli umori da quello che ti circonda e delle persone che ti attorniano.

In Italia purtroppo riscontro sempre di più un atmosfera pessimista e negativa in generale, che non aiuta di certo.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Hai un sito molto ricco e curato, non solo per quanto riguarda il numero di fotografie, ma anche la grafica e il modo di presentare le immagini. Quanto è importante una vetrina come la tua su internet? La diffusione dei tuoi lavori segue più le vie classiche di diffusione: gallerie, esposizioni, pubblicazioni cartacee, etc, oppure è affidata soprattutto ai circuiti artistici che stanno nascendo su Internet? Cosa pensi di queste iniziative?

Marco Tardito: Penso che internet sia come un biglietto da visita. Non puoi non averlo, per comunicare chi sei. Al tempo stesso non mi affiderei unicamente ad un biglietto da visita per parlare del mio lavoro. Poi ci sono i blog, dove la gente può esprimere concetti, approfondire argomenti, dare ricette etc, è come essere al bar e parlare con gli amici, cè sempre da imparare e da ascoltare. In una società sempre più globalizzata, dove una persona vive a Milano e lavora a NY, è importante poter lasciare una scia di se stessi anche se digitale.

Marco Tardito
© Marco Tardito

Vi svelo un segreto: il sito era una cosa che mi incuriosiva fare e un po di anni fa mi ero interessato alla loro costruzione. Ho imparato ad usare Flash e a utilizare i css, e per un po mi sono dilettato nel farne un paio (Diadora, Napapijri…). Il mio me lo sono cucito su misura… anche se oggi non lo farei più per nessuno altro.

 

Fabiano Busdraghi: Hai delle riviste e blog di fotografia preferiti? Secondo te possono sostituire la diffusione delle immagini fotografiche nei circuiti classici?

Marco Tardito: Leggo alcune riviste online, e generalmente non acquisto più nessun giornale cartaceo, a meno che non ci siano delle pubblicazioni che voglio archiviare. I giornali sono troppo lenti per i miei gusti e solitamente le notizie arrivano prima sul web e poi sono riportate sui giornali…Non sono affezionato a nessun blog in particolare, ma utilizzo un sito, Netvibes, che è un aggregatore di feed rss, in cui aggiungo periodicamente i siti che mi interessano.

Marco Tardito
© Marco Tardito

In ogni caso fra i siti di fotografia che frequento posso citare: Shutter Scoop, Camera Dojo, Foto Decadent, Il blog di Graeme Mitchell, Dark Light Photo, Clickblog, il blog di Catherine Buca, Photosapiens, Creative Lube e naturalmente Camera Obscura. Del blog di Chase Jarvis non mi piace lo stile fotografico, ma ha delle cose interessanti da dire ogni tanto.

 

Fabiano Busdraghi: Te stesso sei autore di un blog di fotografia. Cosa ti spinge a scrivere? Scattare e scrivere sono due attività complementari o secondo te opposte?

Marco Tardito: Non posso dire di essere veramente un autore di blog. Ho incominciato tante volte ad aprire blog e provare a scriverci. Come dicevo prima non sono uno scrittore, e non mi piace troppo parlare di me. Il blog mi attira, ma ho davvero troppe cose da fare e una famiglia da seguire, e il tempo per il blog è sempre meno… Mi piace poter lanciare degli spunti di tanto in tanto, ma per essere davvero un blogger, e avere quei feed che mi interessano, dovrei dedicarvi mooolto più tempo.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Marco Tardito: Il mio fotografo di riferimento nella moda è Roversi. Perchè mi piace, punto.

Ultimamente ho riscoperto Sally Mann, mi piace il suo approccio alla fotografia, sia nei contenuti che nella tecnica al collodio.

 

Fabiano Busdraghi: Su cosa stai lavorando negli ultimi tempi? Come si differenzia rispetto ai tuoi lavori precedenti? Hai qualche progetto per il futuro che non hai ancora iniziato?

Marco Tardito: Nuovi progetti… si, voglio preparare materiale per una nuova mostra, e poi mi sto interessando al time-laps, senza mollare la ricerca delle ottiche antiche per la Dslr.

 

Marco Tardito
© Marco Tardito

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Marco Tardito: Libri, l’ultimo letto è guerreros di W. Gibson, che mi ha deluso molto.

Musica: Alva Noto+Ryuichi Sakamoto e in generale ascolto last.fm selezionando il genere secondo i miei gusti del momento e lasciando scorrere il programma che mi propone degli autori simili.

Film: “Dead man” di Jarmusch, e solo la fotografia di “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” e di “The illusionist”.

E infine la ricerca personale di Marco Tardito. Trovare la bellezza nei fiori e nelle foglie secche, raccontare attraverso la visione magica di lenti alternative e la stampa su carta per le belle arti, la bellezza dentro di noi e del mondo che ci circonda.

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Le foto(copie) di Samuele Piccoli /it/2008/samuele-piccoli-fotocopie/ /it/2008/samuele-piccoli-fotocopie/#comments Sat, 27 Sep 2008 08:46:43 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2695 Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Samuele Piccoli lavora mischiando fotografia, fotocopie, tecniche di trasferimento, collage e pittura. Il trasferimento di fotocopie di fotografie su carta da disegno utilizzando la trielina o l’acetone crea immagini dall’aspetto pittorico che trovo molto interessante. A queste fotografie fotocopiate e trasferite Samuele Piccoli aggiunge elementi esterni puramente pittorici, collage, tratti, pennellate, creando immagini a cavallo fra pittura e fotografia, pittorialismo e modernismo.

Quando l’ho contattato ha accettato non solo a scambiare quattro chiacchiere su Camera Obscura, ma anche a spiegare nel dettaglio il procedimento tecnico che utilizza, a proposito del quale ero particolarmente curioso.

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Samuele Piccoli: Innanzitutto penso di essere uno sperimentatore più che un fotografo vero e proprio. Non voglio pormi limiti e quindi, fino a quando mi sarà possibile, non voglio cadere nel “tranello” delle definizioni.

Comunque sia, la mia storia parte nel più classico dei modi, intorno a 18 anni mio zio mi regalò una vecchia reflex russa completamente manuale, mi ricordo benissimo la gioia che provai nell’assaporare la messa a fuoco selettiva, quel primo contatto mi aprì un mondo. Da li ho intrapreso la “carriera” del classico fotoamatore ispirato dalle foto del national geographic, fino a quando ho avuto la straordinaria fortuna di conoscere una persona che mi ha aperto gli occhi sulla fotografia che ti guarda dentro. Mi si è aperto un mondo, tutti gli schemi sono caduti, le sicurezze smontate, i canoni rovesciati. La foto è diventata finalmente mia, che piaccia o no.

 

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Fabiano Busdraghi: Come è nata la tua serie di fotografie/fotocopie?

Samuele Piccoli: È stata una lenta evoluzione, tutto però è riconducibile alla mia passione per il foro stenopeico. Questo miracoloso strumento di espressione (dovrebbero glorificarlo), mi ha permesso di conoscere le opere di Paolo Gioli, di scoprire il meraviglioso mondo che c’è dietro alle istantanee, ma soprattutto di cominciare a cimentarmi in una disciplina (quella delle polaroid) per me del tutto nuova.

Un pomeriggio stavo scattando una macro polaroid stenopeica ad una rosa, mentre mi accingo a compiere il consueto strappo del negativo dal positivo, mi sono accorto che quel movimento non mi era nuovo. Non lo era infatti. Quel semplice e banale movimento lo avevo già ripetuto centinaia di volte molti anni prima quando frequentavo le scuole elementari. Spesso infatti trasferivamo, tramite l’acetone, le immagini ritagliate da alcune riviste su carta da disegno per poi disegnarci intorno. Quando l’acetone seccava, le porzioni di rivista venivano staccate proprio come si strappa una polaroid. Niente di più semplice e meraviglioso allo stesso tempo.

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Questo mi apriva un numero infinito di strade da percorrere, di vie da sperimentare, ero a dir poco esaltato. Il progetto però era solo ancora a livello di bozza, la tecnica l’avevo trovata, dovevo trovare il messaggio che più si addiceva alla tecnica in questione. L’istinto e la passione hanno fatto il resto.

Fotografia a parte, non disdegno affatto la pittura, e nel solito giorno riesco a non farmi passare inosservati un ritratto di Sergio Flori e una foto di Claude Cahun molto simile ad una fotocopia, è l’illuminazione. Comincio a selezionare vari soggetti dal mio archivio, li fotocopio, e li trasferisco su carta da disegno, i risultati sono incoraggianti ma troppo compiacenti. Un bel giorno, mi trovo di fronte ad un’opera di Araki, la guardo la studio attentamente, l’ammiro. Quella tecnica mi da coraggio e finalmente mi decido a violare l’ultimo dei sigilli: la sacralità dell’emulsione. Dal superamento dell’ennesima barriera e di nuovo libero da ogni vincolo, sono nate le foto(copie).

 

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Fabiano Busdraghi: Questo ritorno ad un gesto che era proprio dell’infanzia, una sorta di memoria che ti è rimasta nelle mani è molto interessante. Puoi sviluppare un po’ il discorso?

Samuele Piccoli: Ammetto che un po’ mi piace andare controcorrente, non rifiuto a priori la modernità, sarei un folle, però adoro utilizzare le mani, e non solo il dito indice della mano destra. Trovo una soddisfazione enorme nel costruirmi ciò che mi serve con quel poco di attrezzi messi a disposizione dal mio garage e dall’aiuto degli altri.

Nessuno forse ci pensa, ma noto spesso che tendo a trascurare i sensi (il tatto e l’olfatto) a causa della velocità, ma soprattutto della superficialità, con cui ci siamo costretti a vivere. Spesso ho fretta anche quando sono di fronte ad un passa-tempo, mi chiedo quindi che razza di passa-tempo (lo dice la parola stessa) stia cercando, ma soprattutto non mi fermo a guardare il panorama che mi sono lasciato alle spalle.

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Di fronte ad un tale paradosso, quando ho del tempo mio, ho scelto di farlo diventare veramente mio, “ho da fare un sacco di cose? Tutte balle”, così facendo, magicamente, riesco ad avere la possibilità di fermarmi, riflettere e guardare indietro.

 

Fabiano Busdraghi: Nelle tue stesse fotografie si nota effettivamente un lungo lavoro manuale di arricchimento dell’immagine. Per il senso comune della maggior parte delle persone le tue immagini infatti non sono “vere e proprie fotografie”, ma un misto di disegno, collage, transfert e nemmeno lontanamente appartengono alla categoria fotografica.

Se hai letto la mia serie di articoli su fotografia e verità saprai che per quanto mi riguarda si tratta di una affermazione mal posta. Come ti poni rispetto a questa problematica? Credi che la fotografia sia ben definibile? Ogni tipo di libertà è lecita?

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Samuele Piccoli: Ho letto molto attentamente gli articoli comparsi su Camera Obscura perché, vivendo a stretto contatto con altri fotografi/fotoamatori, sono gli argomenti più soggetti ad accese dispute. Per rispondere alla domanda occorre necessariamente fare un passo indietro a livello concettuale. Per spiegarmi meglio vorrei raccontare una storia zen tanto cara al mio quasi concittadino Tiziano Terzani.

Un colto professore va a trovare un monaco e gli domanda: “dimmi, cos’è lo zen?”

Il monaco non risponde, lo invita invece a sedersi, gli mette d’innanzi una tazza e comincia a versarci del the. La tazza si riempie, ma imperterrito il monaco continua a versare. Il professore è interdetto, per un po’ non dice niente poi, vedendo che il monaco continua a versare lo avverte:

-È piena, è piena!

“Già!” risponde il monaco “anche tu sei pieno di opinioni e pregiudizi. Come posso dirti io cos’è lo zen se prima non vuoti la tua testa?”

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Sono perfettamente conscio del fatto che quanto detto non risolve affatto le varie dispute filosofiche, ma perché auto-limitarsi? Perché rinchiudersi dentro delle definizioni? Una disciplina che si struttura e si muove esclusivamente dentro immutabili schemi è scienza, non può essere definita arte.

Realizzare foto tecnicamente ineccepibili non è il canale che preferisco per raccontare un sentimento, per trasmettere uno stato d’animo. Non voglio essere frainteso, adoro il fotografo o la fotografia che ha bisogno di un certo tipo di carta per ottenere un certa tonalità di bianco o un certa gamma tonale, sono i trucchi che utilizzo anch’io. Ammiro anche chi già in fase di scatto sa già dove effettuerà una mascheratura quando sarà di fronte all’ingranditore.

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Io però non sono così, voglio essere diverso, devo essere diverso, e per fare questo, la sola tecnica non basta. Voglio che una spennellata di emulsione liquida data male durante la fase di preparazione del foglio renda la foto unica, imprevedibile, onirica. Ecco il mio obiettivo. Unica ed onirica, le mie foto devono essere così. I volumi scomparire le prospettive rovesciarsi, l’esposizione disturbare, il fermo non esistere, il movimento diventare chiaro. In questa ricerca dell’onirico, cosa cambia se il mezzo di acquisizione dell’immagine è un sensore, una polaroid o una pellicola? Senza la fotografia i miei ritratti non avrebbero significato e noi non saremmo qui a parlarne.

 

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Fabiano Busdraghi: Sono un grandissimo ammiratore di Tiziano Terzani, di cui ho letto praticamente tutti i libri, quella storiella l’avevo letta ma me l’ero dimenticata. Grazie mille per farmela tornare in mente! Per il resto sono perfettamente d’accordo con te, perché limitarsi alle definizioni quando quello che conta è la creazione?

Ma torniamo al nostro articolo. Hai generosamente accettato di condividere la tua tecnica su Camera Obscura. Qual’è il procedimento che segui per ottenere le tue foto(copie)? Ci puoi descrivere nel dettaglio la tecnica che usi?

Samuele Piccoli: Premetto dicendo che il procedimento in se è veramente molto semplice ed i materiali sono facilmente reperibili. Il risultato del trasferimento però non è mai omogeneo, ci sono un sacco di fattori che incidono sul risultato finale come la temperatura, la pressione esercitata sulla foto, il tipo di “chimico” che usiamo per trasferire l’immagine (acetone o trielina), per non parlare poi della carta che viene utilizzata e dalla velocità con la quale strappiamo la foto una volta asciugata.

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Andiamo con ordine. Direi di partire con il procedimento “meccanico” per poi scendere nel dettaglio dei materiali. Comincerei con il differenziare i trasferimenti a seconda del tipo di “chimico trasferente” utilizzato (acetone e trielina).

Il trasferimento classico (all’acetone) prevede di appoggiare “l’emulsione” della fotocopia su foglio di carta da disegno, impregnare un batuffolo di cotone con dell’acetone, “spennellare” con decisione il retro della fotocopia con il batuffolo, aspettare che il tutto asciughi e separare con attenzione i due fogli che durante la fase di asciugatura hanno aderito l’uno all’altro. Il risultato di questo processo è un’immagine con una dominante rosa, molto morbida, con una notevole e non omogenea perdita di dettaglio. L’unione di questi fattori restituisce un effetto che definirei molto “ottocentesco” alla foto.

Vediamo adesso nel dettaglio come arginare tutte le variabili in gioco in modo da poter governare, nei limiti del possibile, tutto il processo.

Trasferimento all’acetone

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Esistono vari tipi di acetone in commercio, il più comune ed economico però è quello che viene utilizzato per togliere lo smalto dalle unghie, lascia una dominante rosa, piacevole dal mio punto di vista, se tale effetto non è gradito meglio ricorrere alla tecnica della trielina.

La fotocopia (negativo)

Con il processo classico sono riuscito solo a trasferire fotocopie in bianco e nero, ho fatto numerose prove con fotocopie a colori senza attere nessun risultato. Molto probabilmente dipende dal tipo di pigmento che viene utilizzato dalla fotocopiatrice, quindi non escluderei a priori la possibilità di trasferire anche il colore. Occorre precisare che non tutta l’immagine della fotocopia riuscirà a trasferirsi, spesso le sfumature si perdono o si confondono, è dunque buona norma utilizzare foto dai contorni un po’ più marcati.

La carta per il trasferimento (positivo)

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Il dettaglio della foto finale è influenzato pesantemente dal grado di ruvidezza superficiale della carta che accoglierà i pigmenti della fotocopia. Ovviamente questo dipende dal risultato che vogliamo ottenere ma in genere più il foglio è liscio e più il trasferimento restituirà dettaglio alla foto finale.
Accade molto spesso che parti del negativo rimarranno attaccate al positivo con il rischio molto concreto di dover buttare il tutto. Per cercare di ridurre al minimo questo rischio utilizzo, per il positivo, fogli carta di grammatura non inferiore agli 80 grammi, questa grammatura mi consente di poter agire tranquillamente con i colori ad acrilico.

Pressione sul retro della fotocopia

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

La pressione del batuffolo di cotone sul retro della fotocopia è direttamente proporzionale al livello di dettaglio che avrà la foto finale, ovviamente la pressione esercitata non sarà mai uniforme su tutta la foto, nulla vieta di utilizzare dei rulli per uniformare il tratto.

Il trasferimento con la trielina prevede un procedimento leggermente diverso. Dopo vari tentativi il metodo sicuramente migliore è quello di appoggiare un foglio di carta (il futuro positivo) non troppo pesante (la carta da fotocopie è la migliore) sulla fotocopia (il negativo) e procedere con una prima spennellata di trielina con il solito batuffolo di cotone sul retro del positivo. A questo punto rovescio l’accoppiata negativo/positivo e spennello con il solito batuffolo il retro del negativo. Dopo aver aspettato qualche secondo procedo al di distacco del negativo dal positivo. Con questa tecnica sono scongiurati possibili distacchi parziali del negativo. Il risultato è una foto decisamente desaturata, molto morbida, ma con un dettaglio decisamente maggiore rispetto al metodo classico. Anche in questo caso vediamo nel dettaglio le variabili in gioco.

Trasferimento alla trielina

Samuele Piccoli
Esempio di trasferimento alla trielina di fotocopia a colori.
© Samuele Piccoli

La trielina è molto più economica ma anche più tossica dell’acetone. Non lascia dominanti colorate sulla foto finale.

La fotocopia (negativo)

Con il processo alla trielina sono riuscito a trasferire sia fotocopie in bianco e nero che fotocopie a colori. Il processo alla trielina, rispetto a quello classico, a parità di finitura superficiale del foglio negativo, ha il grande vantaggio di trasferire molti più dettagli. Non ci sono dunque grossi limiti sulle caratteristiche dell’immagine da utilizzare.

La carta per il trasferimento (positivo)

Il grosso limite di questa tecnica sta nel fatto che è possibile trasferire immagini solo su carta di bassa grammatura. Durante la prima fase di “spennellatura” sul retro del negativo, se il foglio è troppo spesso, la trielina non riesce a fare presa sul positivo.

Come per il metodo classico vale la regola che più il foglio è liscio, più il trasferimento restituirà dettaglio alla foto finale. Il trasferimento infatti, si basa sul labile contatto tra negativo e positivo e pressione esercitata con un batuffolo di cotone. Un foglio piuttosto ruvido, essendo più “ondulato”, rappresenta un notevole ostacolo al corretto contatto e relativo trasferimento.

Questo aspetto limita soprattutto la fase di post-produzione.

 

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Fabiano Busdraghi: Come si comportano le foto(copie) per quanto riguarda la conservazione delle immagini così ottenute? Credi che la stabilità nel tempo di una fotografia sia importante o al contrario un materiale effimero e variabile è addirittura più interessante?

Samuele Piccoli: Tecnicamente basterebbe un semplice spray protettivo per tecniche miste. Io però non voglio utilizzare niente per un paio di motivi: il primo perché sono curioso e non ho idea di come questo tipo di immagini si evolveranno nel tempo, in seconda battuta trovo molto educativo avere un oggetto che, con la sua stessa esistenza, mi ricorda che tutto è transitorio. In ufficio ho una foto stampata alcuni anni fa con carta baritata che, piano piano, giorno dopo giorno, sta annerendo, sta cambiando. Un po’ come tutti noi.

Tutto questo lo trovo bellissimo.

 

Fabiano Busdraghi: Hai delle riviste o blog online di fotografia preferiti? Secondo te possono sostituire la diffusione delle immagini nei circuiti classici?

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Samuele Piccoli: Come accennavo prima, alcuni anni fa ero abbonato al National Geographic, i miei gusti però sono cambiati ed ho lasciato perdere. Mi piace leggere Arte, ma anche questa rivista si sta (o forse lo ha già fatto) convertendo alla religione del marketing, sempre più galleristi e sempre meno tecnica ed espressività.

Internet è sicuramente una risorsa importante, fondamentale, ma non penso possa sostituire i circuiti classici per la diffusione delle immagini, o almeno, fino a quando la materia avrà una certa rilevanza anche in ambito fotografico. Sto preparando una mostra di foto a foro stenopeico stampate su carta da acquarello, il connubio evanescenza-stenopeico con l’ imperfezione della tecnica di stampa, rendono le foto surreali, è perfettamente inutile guardarle a video.

 

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Samuele Piccoli: Apprezzo tantissimo il lavoro di Filippo Basetti, innanzi tutto perché è una persona squisita, ma soprattutto perché è un artista poliedrico aperto ad ogni forma di espressione, mi ha aiutato tantissimo nella ricerca di un mio stile.

 

Samuele Piccoli
© Samuele Piccoli

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Samuele Piccoli: Sto leggendo Brida di Paulo Coelho, molti lo troveranno commerciale, a me non interessa. Il libro che però mi ha fatto letteralmente sognare è “Siddartha” di Hermann Hesse.

Ascolto molto volentieri Battisti, De Gregori, De Andrè, ultimamente anche la Bandabardò. Ho scoperto inoltre di essere un appassionato di musica sinfonica.

Per quanto riguarda il film, se la giocano alla pari “le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck e “L’uomo che non c’era” dei fratelli Coen.

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Il minimalismo e la condizione umana secondo Mohammadreza Mirzaei /it/2008/mohammadreza-mirzaei/ /it/2008/mohammadreza-mirzaei/#comments Mon, 11 Aug 2008 07:52:49 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2714 Mohammadreza Mirzaei

Mohammadreza Mirzaei è un giovane promettente fotografo iraniano.

Le sue fotografie sono minimaliste e pulitissime, gli uomini sono ridotti a minute silhouette nere sotto un immenso cielo bianco, minuscole pedine sperdute in un prato verde sconfinato. Piccoli piccoli, visti dall’alto o da lontano lontano. Intenti nella recita senza fine della vita, in quei piccoli fatti del teatro quotidiano dell’esistenza. Oppure si stanno fotografando senza posa, fra di loro o inquadrano qualche invisibile monumento. La lontanza, il distacco, le dimensioni di queste persone unite all’essenzialità delle fotografie, rendono gli uomini, le donne e i bambini fotografati da Mohammadreza Mirzaei esseri universali, icone dell’uomo in generale.

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fare foto? Qual’è la tua storia di fotografo?

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Mohammadreza Mirzaei: Tutto è iniziato quando frequentavo una scuola d’arte, per studiare design grafico, quando avevo 15 anni. Ho seguito il mio primo corso di fotografia con la vecchissima ma splendida Zenith di mio padre, una macchina che ho ancora. Di fatto in quei primi giorni, fotografare era solo un modo per scoprire le risposte alle mie domande formali, ma ho presto realizzato che questo è quello che voglio fare. Cosa provoca i miei sentimenti. Certo la mia formazione come design grafico rimane evidente nelle mie fotografie.

 

Fabiano Busdraghi: Che cos’è la fotografia per te?

Mohammadreza Mirzaei: Un buon modo per esplorare me stesso e spero anche il mondo.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Ci puoi parlare della tua serie di fotografie “Humans” ? Cosa volevi esprimere e perché?

Mohammadreza Mirzaei: “Humans” è dedicata alla vita, alla morte, alle persone, alle relazioni fra di loro e certamente alla solitudine. Sono stato ispirato da una poesia di Bijan Jalali, il poeta iraniano:

vivere è impossibile
ma siamo sempre qui
con ambizioni per ogni cosa
e andiamo
e veniamo.

Nella mia mente i luoghi della serie Humans sono una sorta di utopia, una città non descrittiva… qualche parte che nessuno sa dove si trovi. Un palcoscenico che diventa come una metafora sulla vita, e le persone vengono rimangono un po’, parlano, si fermano, si siedono, giocano… facendo quello che devono fare, per poi lasciare il palcoscenico.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Questo significa che le nostre ambizioni non hanno senso? Che corriamo dietro inutili mete? Che la vita non è altro che un teatro inutile?

Mohammadreza Mirzaei: No, non chiamerei la vita un teatro inutile. Di fatto non sto parlando delle qualità. Le qualità dipendono dagli individui. Dipendono da noi. Forse la trama delle nostre vite. Forse il ruolo che ci è stato dato, queste storie non si situano nel mio minimalismo.

 

Fabiano Busdraghi: Nella serie Humans quindi c’è un messaggio o vuoi unicamente dare una descrizione degli esseri umani?Stai cercando di dire alle persone di dare meno importanza ai fatti quotidiani? O vuoi semplicemente documentare quella che è la condizione umana?

Mohammadreza Mirzaei: Non mi interessa descrivere quello che succede, e anche se lo fossi, cosa succederebbe dell’immaginazione dello spettatore? Sto solo suggerendo il cerchio della vita, tutto il resto dipende dall’osservatore.

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: E qualcosa invece sulle fotografie “the Encounters” ?

Mohammadreza Mirzaei: In questa serie sono tornato ai primi giorni di esperienza con la fotografia. Mi ricordo quando in gruppi di studenti andavamo a fare fotografie nel campus per la prima volta. Volevamo fotografare tutto: alberi, muri, uccelli, gatti, pure noi stessi. Avevavmo giusto una sete di avere tutto sui nostri negativi!

Ho sentito qualcosa di simile nei luoghi turistici in Italia lo scorso anno; ognuno con una macchina fotografica in mano, con il desiderio di immortalarsi nella scena. E stavo pensando alla fotografia e a quanto il significato della fotografia è cambiato nella mia mente durante gli anni. Così questa volta ho pensato di fare della fotografia il tema principale delle mie fotografie, il desiderio di scattare.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Mi ricordo molto bene quei momenti e mi ricordo che era un grande piacere. Ogni cosa sembrava interessante e che valeva la pena fotografarla. Adesso scatto molto meno, perché so che molte immagini sono stupide, o sono già state fatte da qualcun altro. Cerco sempre di fare qualcosa di nuovo, mai visto, tecnicamente eprfetto e valido sia dal punto di vista del contenuto che dell’implementazione. Ma mi manca un po’ il piacere di fotografare ogni cosa che vedo, l’entusiasmo tipico dei primi anni. Succede anche a te? Pensi sia normale perdere questa freschezza iniziale perché viene sostituita dalla maturità e l’esperienza? O dovremmo batterci per tenerla viva?

Mohammadreza Mirzaei: Si, hai ragione. La stessa cosa succede anche a me. Possiamo comparare un fotografo con un bambino, che vuole tutto e all’inizio non sa cosa sta cercando. Ma più diventiamo maturi più il circolo di interessi diventa chiaro. Ma questo non significa perdere il lato divertente del lavoro, e nemmeno una ragione per ripetere noi stessi, la fotografia è infatti ancora molto divertente per me.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: in entrambe le tue serie di foto le persone sono spesso molto piccole, minuscole silhouette sono un cielo completamente bianco, uomini persi in un immenso prato verde. È l’uomo ad essere piccolo o la natura ad essere sproporzionata? Perché le persone nel tuo lavoro sono così piccole?

Mohammadreza Mirzaei: Mi piacerebbe saperlo. Di fatto faccio solo quello che cattura il mio interesse. Nelle mie foto gli esseri umani sono minuscoli, ma allo stesso tempo sono l’unico elemento che puoi raggiungere. Sono sempre stato interessato a suggerire diversi aspetti della vita nelle mie fotografie.

Amo guardare le persone da lontano, e allora ogni cosa può esser vista come metaforica. Tutti sembrano anonimi, non puoi scoprire a cosa somiglia il personaggio, come si veste, la marca delle sue scarpe! Fortunatamente questo succede nella serie “Humans”. Queste persone sono state trasferite in una nuova geografia.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Esattamente l’opposto della famosa frase di Robert Capa’s:

Se le tue foto non sono abbastanza buone, è perché non sei abbastanza vicino.

Quindi usi la distanza per fare del tuo soggetto delle metafore universali in generale. In un certo senso significa che la distanza, alla fine, ti avvicina al tuo soggetto, che non è più un ragazzino inun parco che pedala su una bicicletta, o un turista che sta fotografando sua moglie, ma gli esseri umani in generale, giusto?

Mohammadreza Mirzaei: Esattamente. O perlomeno una parte del mio linguaggio visivo nelle mie due ultime serie di fotografie.

 

Fabiano Busdraghi: il modo in cui componi le tue immagini è spesso semplice e molto pulito. Cosa ti attrae in particolare del minimalismo?

Mohammadreza Mirzaei: Si, ho sempre eliminato gli elementi che possono essere eliminati. L’omissione mi ha aiutato ad enfatizzare gli elementi chiave ed è diventata una parte della mia estetica.

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: redi che essere iraniano, vivere in un paese dalla cultura diversa di quella europea, può influenzare il tuo lavoro? Oppure oggi la globalizzazione ha virtualmente eliminato le barriere fra gli stati, perlomeno per quanto riguarda l’arte? La fotografia è oggi globale o le differenze regionali restano importanti?

Mohammadreza Mirzaei: Può essere un misto dei due. Il mio paese ha influenzato la mia personalità e sicuramente la mia visione del mondo. Amo l’Iran, la sua cultura, la sua arte. Sono un amante della letterature, Hafez è sempre sul mio comodino. Ma dobbiamo considerare pure Kafka o Italo Calvino o anche qualunque altro che può avere influenzato il mio modo di vedere. Nella scuola d’arte abbiamo parlato dei lavori di Rembrandt o Picasso più di qualunque pittore iraniano. Penso che ora stiamo vivendo in un mondo diverso. Sto suggerendo che le persone individuali sono un’identità, non le nazionalità.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Lavori, esponi e vendi i tuoi lavori soprattutto in Iran o all’estero? Come descriveresti la vita artistica e culturale contemporanea in Iran?

Mohammadreza Mirzaei: sono stato abbastanza fortunato di vendere e esporre i miei lavori sia all’estero che in Iran, Niente da dire sulla vita culturale in Iran. Non è quello che dovrebbe essere. C’è qualche punto luminoso, ma ancora non è facile guadagnare la propria vita con l’arte.

 

Fabiano Busdraghi: Hai spesso esposto anche in Italia e parli italiano quasi perfettamente. Da dove nasce il tuo interesse e i tuoi contatti con l’Italia?

Mohammadreza Mirzaei: non mi ricordo da dove è iniziato questo interesse. Forse da una canzone di Vasco! (risa) Non sono sicuro. O molti amici in Italia e sono sempre stati gentilissimi con me. Quest’anno il mio primo libro sarà pubblicato in Italia, quindi sembra che questo interesse possa essere bilaterale.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Cosa pensi dell’Italia? Sia dal punto di vitsta politico e sociale che da quello artistico e della fotografia contemporanea.

Mohammadreza Mirzaei: preferisco parlare della “Pasta Siciliana” piuttosto che della politica italiana! (risa) In generale non mi piace la politica. Amo però l’arte italiana. E certamente la letteratura, grandi scrittori come Alberto Moravia, Dino Buzzati o Italo Calvino. Anche il latoo fotografico dell’Italia è così luminoso e ricco. Ogni cultura che può prudurre un Luigi Ghirri deve avere qualcosa di speciale. Ci sono tantissimi fotografi italiani che ammiro, da Gabriele Basilico e Massimo Vitali a Giorgio Barrera. Forse è per questo che i miei lavori artistici sono vicini al contesto della fotografia italiana.

 

Fabiano Busdraghi: Sai, sono perfettamente d’accordo con tem meglio parlare di ricette che della politica italiana. In più sono un grande amante della cucina e del buon cibo, entrambi mi piacciono almeno quanto la fotografia.

Mohammadreza Mirzaei: (risa) allora qual’è la tua pasta preferita?!

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: ce ne sono così tante che è difficile dire qual’è veramente la mia preferita! Ma forse la miglior ricetta in assoluto sono gli spaghetti ai frutti di mare con i pomodorini freschi… una vera delizia!

Se mi permetti, andiamo avanti con cibo e ricette con una domanda fuori tema, Ci puoi descrivere qualche piatto tradizionale iraniano?

Mohammadreza Mirzaei: Perché no?! Anche se onestamente non sono un grande cuoco di cucina iraniana. Ok, adesso ti insegno il piatto più semplice e minimalista (risa). Si chiama abdugh khiar. Una facilissima, fresca ed economica zuppa, ma non sono sicuro lo si possa chiamare un piatto, forse un dessert! È pure più facile del minestrone italiano.

Gli ingredienti sono: yogurt [2 parti], 2 or 3 cetrioli, noci schiacciate [1/2 parte], sale e pepe, ogni delizioso verdura seccha, uno spicchio d’aglio, qualche uvetta, poche fette di ghiaccio… Ok. È necessario sbattere lo yogurt, pelare e sminuzzare i cetrioli. Aggiungere un po’ d’acqua (2-3 tazze) + sale e pepe nero e la noce e tutte le verdure e l’aglio tritato e l’uvetta e tutto quello che ti piace aggiungere al piatto. Ora è pronto! Molti hanno anche alcuni aggiungono po ‘di pane e pezzi di ghiaccio!

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: sembra ottimo! Ma torniamo alla fotografia. La diffusione del tuo lavoro è fatta tramite galleriem mostre, pubblicazioni cartacee, etc oppure è lasciata ai circuiti artistici su internet? Cosa pensi di queste iniziative? Quali sono i tuoi siti preferiti? Leggi qualche e-zine o rivista d’arte online?

Mohammadreza Mirzaei: i miei lavori sono stati rappresentati da gallerie e sono stati pubblicati da riviste, ma da quando ho creato il mio sito web mi sono confrontato con delle ottime reazioni dai circuiti artistici su internet.

Internet è stata utilissima perché ci ha resi più vicini (voglio dire i fotografi del mondo).

Penso che i blog hanno fatto si che più persone pensino alla fotografia contemporanea. Delle riviste fotografiche online che leggo posso citare 1000 words. È un nuovo arrivato, ma è fatto veramente benissimo.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Penso tu abbia letto la mia serie “Fotografia e verità” che ho scritto per Camera Obscura. Cosa pensi di questo soggetto? Credi ci sia qualcosa che ci permetta di dire precisamente cosa sia una fotografia? In particolari, che cosa differenzia l’immagine fotografica da altri tipi di immagine, come la pittura, litografia, video proiezioni, etc? Pensi si possa definire cos’è la fotografia e cosa non lo è? Oppure che è impossibile definirla in modo preciso?

Mohammadreza Mirzaei: La mia definizione di fotografia è illimitata

My definition of photography is unlimited. Chiamo qualcosa fotografia se il suo autore la chiama così. Qualche volta può essere una di Gregory Crewdson e qualche volta una classica come quelle di Ansel Adams. Non ho nessun tipo di preconcetti.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Puoi scegliere una delle tue fotografie e raccontarne la storia?

Mohammadreza Mirzaei: Questa foto è stato il primo scatto di “the encounters”, quando la serie è iniziata. Ho sempre più facilità a trovare le mie idee fotografiche quando ho la macchina in mano. Ho scattato questa foto dalla cima della torre di Pisa… all’inizio non sapevo esattamente cosa stavo facendo, Forse volevo solo fare qualche foto dei tipi che si stavano divertendo giù in basso. Ma quando ho vista la donna ho cambiato completamente idea! Mi è parso qualcosa di simile ad un duello: la stavo fotografando e lei stava fotografando me. Quindi tutto è cambiato e ho iniziato un progetto sulla fotografia.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: C’è qualche fotografo che è stato particolarmente importante nella tua formazione o nella tua vita fotografica?

Mohammadreza Mirzaei: quando penso a come sono successe le cose, trovo qualche persona che mi ha incoraggiato e aiutato ad essere me stesso. Sicuramente il più importante è Michael Kenna.

Era uno dei miei eroi quando ero un teenager e gli mandai alcune mie fotografie. Di fatto non mi sarei mai aspettato una risposta, ma mi scrisse una mail molto gentile e mi incoraggiò tremendamente. Ho questa prima mail attaccata al muro (risa):

…le foto sono molto belle, forti ed evocative… ti auguro ogni successo…

Era incredibilmente fantastico, anche se sapevo che Michael stava esagerando! Questa relazione fra me e Michael continua ancora oggi e ho sempre imparato tantissimo dal suo lavoro, le sue foto e il modo in cui ci crede.

 

Mohammadreza Mirzaei
© Mohammadreza Mirzaei

Fabiano Busdraghi: Un fotografo iraniano che ami particolarmente e perché.

Mohammadreza Mirzaei: Mitra Tabrizian.

Amo il senso di solitudine degli uomini contemporanei nei paesaggi e città desolate delle sue misteriose e ben composte fotografie.

 

Fabiano Busdraghi: Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Mohammadreza Mirzaei: Sto leggendo Il Bar sotto il mare di Stefano Benni e in questi giorni sto ascoltando Glass Reflections di Philip Glass. Un film che ho visto recentemente è che mi è piaciuto particolarmente è Uzak di Nuri Bilge Ceylan.

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Refinery flock di Massimo Cristaldi /it/2008/refinery-flock-massimo-cristaldi/ /it/2008/refinery-flock-massimo-cristaldi/#comments Fri, 01 Aug 2008 08:12:29 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=527 Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Massimo Cristaldi è un fotografo dal lavoro eterogeneo e vario, a metà strada fra la fotografia fine art e quella editoriale. Dopo qualche mese di immersione totale nella fotografia artistica, da un po’ di tempo a questa parte lavoro nell’ambito della fotografia commerciale, quindi un punto di incontro fra i due mondi è per me particolarmente interessante.

Una delle serie di fotografie di Massimo Cristaldi, refinery flock, incarna perfettamente questa simbiosi, ed è stata un’ottima occasione per scambiare due chiacchiere.

 

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare?

Massimo Cristaldi: Sono nato a Catania nel 1970. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia appassionata d’Arte e con un padre che scriveva di iconologia e di storia dell’immagine. Ho passato la mia infanzia andando in giro per rigattieri con i miei, quando ancora, nei primi anni ’80, si aveva la fortuna di trovare opere di pregio in giro, data la generale poca preparazione dei rivenditori, spesso improvvisati, dell’epoca. Ogni nuovo acquisto era una conquista: un quadro, una orologio d’appoggio, una statuina. Il mondo delle immagini mi girava intorno vorticosamente: era quasi impossibile non venirne catturati. Però, nella tradizione di famiglia, ho fatto il liceo classico e mi sono laureato. Nel frattempo però, da circa 12 anni, mio padre mi aveva iniziato, con la sua FED4, alla fotografia. Già da piccolo la macchina a telemetro, tempi, diaframmi pellicole mi erano familiari.

 

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Massimo Cristaldi: In “Tempo e Immagine” (Treviso, 1992, Pagus editore) mio padre scriveva: L’Immagine “coagula” sempre un “tempo”, ed insieme sancisce la definitività dell’attimo di cui coglie il “senso”. Il mio interesse per la fotografia è molto collegato a questa frase. Coagulare un tempo, un istante, per trasformare un’emozione interiore che scorre viva, in un oggetto fisico, immutabile. Trasformare il flusso vitale in un oggetto materiale, fisico. È un verbo che mi piace molto ha un grande collegamento con la Vita. E con il suo opposto.

 

Fabiano Busdraghi: Qual’è la tua storia di fotografo?

Massimo Cristaldi: Ho praticamente sempre fotografato. Alla fine degli anni ottanta, a circa 18 anni, ho avuto in regalo la prima reflex personale, una Canon EOS . Già una macchina sofisticata per le mie abitudini di baby telemetrista e per i miei fondi di matricola universitaria. Con quella macchina e con un 28mm ho fatto migliaia di diapositive. Da poco ero all’università e le dia erano il modo più economico e scenografico di godere delle fotografie. Poi nel 1997 una EOS 500N. Nel 2002 la prima incursione nel digitale, una costosissima compatta e poi dal 2004 in poi tutte le EOS digitali Canon… Da circa un anno anche una medio formato Rollei della quale sono perdutamente innamorato.

 

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Hai una formazione che non è fotografica, sei un geofisico e questo è il tuo lavoro principale. È una situazione che conosco bene, perché anche io ho una formazione scientifica e solo recentemente ho iniziato a dedicarmi unicamente alla fotografia. In realtà questo non è vero al 100%, pur avendo abbandonato la carriera scientifica mi sono inventato qualcosa per non dedicarmi appunto unicamente alla fotografia, perché avere due occupazioni in contemporanea mi aiuta a trovare un equilibrio (e ad essere sempre di corsa e in ritardo…).
Te lo vivi come un handicap o avere delle basi diverse ha i suoi vantaggi anche nel modo di fare fotografia?

Massimo Cristaldi: È una bella domanda. In effetti sono, forse per natura, un generalista. Pur partendo da una base collegata alle Scienza della Terra, dirigo un’azienda che fa ricerca IT Europea in settori consimili (ambiente e sicurezza). Viaggio molto per lavoro in Europa e alterno Catania e Roma in Italia. Mi sono occupato per anni di terremoti. Di telerilevamento satellitare. Di ambiente. Ma il mio background è umanistico. Non so quanto questo rappresenti un vantaggio dato che non ho mai pensato in una sola direzione e considero l’iper-specializzazione uno svantaggio piuttosto un pregio.

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Non ho, peraltro, fatto un passo deciso verso la fotografia come quello tuo e quindi non posso considerarla una seconda occupazione. Ho però un “discepolo” fotografico che seguo molto da vicino e che fa il fotografo di mestiere. Questo mi coinvolge in alcune avventure oltre a quella di essere il suo “personal trainer”. Certo, ultimamente ho delle richieste professionali come fotografo e, assieme ad alcuni lavori pubblicati, mostre e qualche premio la fotografia occupa un ruolo importante dentro la mia testa. Poi c’è Internet. Mi arrivano richieste di foto e anche domande originali: ultimamente quella di una coppia di americani con la voglia di farsi fotografare per Catania per conservare un ricordo speciale dei nostri luoghi. E parecchi che dall’estero vogliono sposarsi in Sicilia e cercano un fotografo “atipico”. Chissà, forse esiste un business in Sicilia nei cosiddetti destination weddings…

 

Fabiano Busdraghi: Cose significa vivere in Sicilia dal punto di vista fotografico? Com’è il panorama artistico/culturale dell’isola? Ti senti isolato e credi che per fare il fotografo sarebbe meglio una grande città come Londra o Barcellona o ormai internet ha eliminato le barriere spaziali ?

Massimo Cristaldi: Dal punto di vista dei luoghi e della gente fotografare in Sicilia è molto bello. Io sono convinto che ogni fotografo dia il massimo nel territorio che conosce bene, piuttosto che in giro.

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fare il professionista qui vuol dire al novanta percento dei casi essere un cerimonialista. Pur rispettando e piacendomi l’approccio foto giornalistico alle cerimonie ho però difficoltà nel rapporto con potenziali clienti. La committenza locale, nel novantacinque percento dei casi, non ha una cultura fotografica o semplicemente dell’immagine. È molto “basic”. Questo è un problema che credo esista in tutto il nostro paese e ritengo che sia uno dei tanti ossimori italiani. La culla dell’arte ha praticamente perso ogni contatto con la sua storia e la sua tradizione. In un certo senso se dovessi vivere di fotografia in Sicilia dovrei abbandonarmi a richieste “banali” e questo potrebbe provocarmi dei problemi istintuali di perdita di piacevolezza nelle cose e nei progetti che faccio. Naturalmente, se non vivessi in Sicilia ma tra Londra e New York, potrei forse provare a dedicarmi più compiutamente alla fotografia, probabilmente anche pensare di costruirci su un lavoro. Forse. Qui certamente il panorama non è molto stimolante, esiste una certa riluttanza ad immaginare che possano esistere dei “fotografi-artisti”, difficile trovare qualcuno disposto a compare una fotografia per appenderla in salotto. E quindi la distanza tra quello che ti piace fare e quello che piace all’osservatore cresce.

 

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Raccontaci un po’ della tua serie di fotografie di raffinerie e uccelli: refinery flock.

Massimo Cristaldi: In Sicilia ci sono parecchi paesi con raffinerie. Più o meno tutti noti per le cronache mafiose e spaventosamente deturpati dall’idea di industrializzare il Sud tipica degli anni passati, come se quella fosse “la Via” per la creazione di posti di lavoro. Eppure sono posti incredibili, un crogiolo di immagini potenti. Molte delle fotografie della mia “A men’s world” sono realizzate in questi posti. La raffineria non fa eccezione. Gli stormi sono uno spettacolo invernale e mostrano una simbiosi incredibile tra natura e uomo. Questo è un tema che mi è molto caro. Ho scelto il luogo e, aiutato da alcuni locali, ho preventivato l’appostamento nel punto migliore (ecco il vantaggio di conoscere i luoghi in cui si opera) e la luce migliore per lo spettacolo. Refinery flock è stato fisicamente realizzato in due ore nel dicembre 2006.

 

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Nella tua serie sulla raffineria l’impatto estetico è evidente, ma quello concettuale è ugualmente importante. Nella fotografia artistica contemporanea spesso il lato concettuale è preponderante su quello estetico, mentre nella fotografia editoriale è l’inverso. Naturalmente è una semplificazione, ma tu dove ti poni fra questi due poli opposti? Quanto è importante l’idea e quanto la bellezza?

Massimo Cristaldi: Credo che Refinery Flock si ponga a cavallo tra l’impatto estetico e concettuale, tra la serie “fine art” e la fotografia editoriale. Alcune delle foto in cui oltre agli uccelli ci sono le ciminiere sarebbero perfette per un articolo sul global warming. Francesco Zizola ed Edward Rozzo che, in due diversi momenti, hanno visto il progetto ne hanno riconosciuto un piglio più editoriale che fine art. Come probabilmente l’ottanta percento delle cose che faccio. Ti dirò che probabilmente per me l’aspetto estetico è preponderante. Molta fotografia artistica moderna è di difficile comprensione in quanto troppo concettuale. Ovviamente semplifico anch’io perché sarebbe un discorso lungo ed articolato. Qui in Sicilia (che è il mio soggetto principale) tutto è troppo “estremo” per non trasmettere bellezza, per essere semplicemente “implicito”. Diciamo che la bellezza è preponderante, eppure può anche trasportare concetti, non trovi?

 

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Ti occupi personalmente delle tue stampe. Cosa ti ha spinto a questa scelta? Che materiali usi e perché?

Massimo Cristaldi: Semplicemente voglio fare tutto, dall’idea allo scatto dall’editing, alla stampa. Perché il lavoro prende corpo solo quando è stampato e finito da me. Tanto da digitale che da argentico 6×6 tutto finisce in un trattamento in camera chiara e in una stampa digitale che faccio personalmente, su carta generalmente Hahnemuele, con una Epson 3800 o con una HP Z2100. La mia competenza informatica è stata fondamentale per ottenere risultati eccellenti nella stampa digitale. Sono convinto che la stampa digitale con i suoi standard di durata sia, per certi versi, la vera rivoluzione degli ultimi anni, più che le fotocamere digitali. E mi piace quest’aspetto paradossalmente artigianale in chiave contemporanea della fotografia. Oggi tutto si può, di nuovo, fare tutto da soli.

 

Fabiano Busdraghi: Hai delle riviste e blog di fotografia preferiti? Secondo te possono sostituire la diffusione delle immagini nei circuiti classici?

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Massimo Cristaldi: Sul mio Google Reader ho circa 130 sottoscrizioni a blog di fotografia, organizzati in tecnica, arte e con un settore, piccolo piccolo, di blog italiani. Trovo molto equilibrato Exposure Compensation, interessante A Photo Editor e un po’ antipatico il blog santone Colberg. Purtroppo tutti troppo americani. Spunti e tematiche a noi effettivamente un po’ lontani. I blog tecnici mi hanno stancato, così come in forum di fotografia dove si parla solo di attrezzi, lenti e risoluzione piuttosto che di fotografia in quanto tale. La diffusione delle informazioni in rete è ormai una realtà e per la diffusione delle fotografie apprezzo molto gli sforzi fatti da alcuni siti come File Magazine o, in italia, Witness. Certamente la Rete consente una diffusione di immagini inimmaginabile ma, a mio avviso, la fotografia non va fruita attraverso un monitor a 800×600 punti, ma stampata e possibilmente, correttamente illuminata ed esposta. Di sicuro il digitale ha avvicinato tanti alla fotografia ma le foto sono oggetti materiali, non immagini virtuali. Sono fatte per restare non per essere consumante a 100 click al minuto. Richiedono riflessione, non sono come i film. Internet a mio avviso non è il modo migliore per godere della fotografia ma sicuramente per esserne informati e probabilmente, in certi casi, stimolati.

 

Fabiano Busdraghi: Te stesso sei autore di un blog di fotografia. Cosa ti spinge a scrivere? Scattare e scrivere sono due attività complementari o secondo te opposte?

Massimo Cristaldi
© Massimo Cristaldi

Massimo Cristaldi: A mio avviso in Italia non si condivide molto. In genere chi scrive lo fa per chiedere informazioni. Poi sparisce, ottenuto quello che vuole. In un modello BitTorrent siamo un popolo di leechers. È raro trovare chi scrive per diffondere un pochino di conoscenza. O per dire la sua. Per questo ci sono pochi blog italiani rispetto al numero di navigatori appassionati di fotografia, eppure ci sono tonnellata di fotografi. Il mio blog riceve in media 200 visitatori unici al giorno. Un numero pazzesco di anonimi lettori. Io scrivo quando mi capita, non la considero un’attività alla quale sono portato. Però mi piace condividere quello che trovo interessante, e i miei stessi progetti fotografici. Ogni tanto scopro che alcune fotografie o pezzi sono stati scopiazzati da qualcun altro. Ecco: siamo anche un popolo di copioni. Incapaci di inventare siamo i maghi del Cut&Paste. Eppure di recente scrivo più in italiano sul blog… Vedremo, forse qualcosa cambierà se qualcuno, come me te o pochi altri si ostinerà a dare il buon esempio…

 

Fabiano Busdraghi: Anche a te chiedo, come a tutti gli altri fotografi intervistati, se hai delle foto “mai fatte” e se ci vuoi raccontare la loro storia.

Massimo Cristaldi: Purtroppo vedo ogni giorno molte foto che vorrei fare. E ho sempre la tentazione di dotarmi di una point&shot. Forse lo farò in futuro, quando la qualità ottenibile in stampa per i miei scopi (almeno A2) sarà soddisfacente. Non riesco, quindi, a ricordarmi di una foto in particolare che mi manca davvero. Me ne mancano tante che si aggiungerebbero ai miei progetti. Ultimamente sto realizzando alcuni progetti che ho in mente, costruendo dei set piuttosto che ritraendo il reale. Tra quelle ci sono foto della mente mai fatte che (forse) meritano di divenire realtà.

 

Massimo Cristaldi
Massimo Cristaldi

Fabiano Busdraghi: Un fotografo di cui apprezzi particolarmente il lavoro e perché.

Massimo Cristaldi: Devo citare di nuovo Francesco Zizola. Mi aveva profondamente colpito anche prima di conoscerlo durante un suo workshop. Il suo approccio umano e la sua narrazione non pruriginosa di un mondo difficile secondo me ne fanno una voce fuori dal coro nel panorama dei fotogiornalisti. Mi piace molto anche l’approccio al paesaggio di guerra di Simon Norfolk. E il lavoro di Christopher La Marca con il suo occhio verso i temi dell’ambiente.

 

Fabiano Busdraghi: Giusto qualche curiosità sui tuoi gusti personali. Che libro stai leggendo in questo momento? Che musica ascolti? Quali sono i tuoi film preferiti?

Massimo Cristaldi: Sono un fan di Andrea Camilleri. Al momento sto leggendo Tiziano Terzani. Ascolto e suono parecchia chitarra classica. Tra tutti i film che amo al primo posto metterei “Le ali della libertà”.

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Le città oscure di Mehrdad Naraghi /it/2008/mehrdad-naraghi/ /it/2008/mehrdad-naraghi/#comments Sun, 15 Jun 2008 08:31:41 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2743 Mehrdad Naraghi
© Mehrdad Naraghi

Mehrdad Naraghi è un giovane fotografo iraniano che ho scoperto l’anno scorso durante la Photo Quai. Sono stato immediatamente affascinato dalle sue fotografie della città la notte, buie, confuse, dove gli alberi paiono mani scheletriche rivolte al cielo e le finestre assomigliano ad occhi vuoti.

L’ho quindi contattato per proporgli un’intervista. Mi piace l’idea di dare spazio su Camera Obscura a fotografi che vengono, almeno nella mia immaginazione, da così lontano. Mi piace l’idea che la casualità di un incontro con le sue immagini sul ponte di Parigi produca alla fine questo articolo.

Mehrdad Naraghi
© Mehrdad Naraghi

Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fare fotografie? Qual è la tua storia da fotografo?

Mehrdad Naraghi: Frequentavo l’università di Ingegneria Metallurgica e mi sono accorto che le lezioni non mi interessavano per niente. Ho quindi iniziato a praticare delle attività artistiche alle quali ero veramente appassionato. In un primo momento ho iniziato Calligrafia Iraniana, poi sono passato a suonare il Ney (un tipico strumento iraniano) ed infine sono andato ad un istituto di fotografia per seguire dei brevi corsi.

Tra tutte queste esperienze, solo la fotografia mi ha seguito. Ho frequentato diversi corsi di fotografia negli scorsi anni, tra i quali giornalismo, fotografia industriale e d’architettura, ma alla fine ho scelto la fotografia come media per mostrare a chiunque la mia personale visione di vita.

 

Mehrdad Naraghi
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Fabiano Busdraghi: Cos’è per te la fotografia?

Mehrdad Naraghi: Per me la fotografia è un modo che ho scovato per mostrare ciò che mi circonda per il modo in cui effettivamente lo vedo. Mi ha aiutato ad entrare in contatto con le mie diverse personalità nascoste.

 

Fabiano Busdraghi: Puoi raccontarci qualcosa sulle tecniche che usi ed il tuo equipaggiamento? Fotografia analogica o digitale? Camera scura o ritocco al computer?

Mehrdad Naraghi: Inizialmente sono partito con la fotografia analogica, ma ho subito capito che la fotografia digitale era ciò che stavo cercando. La possibilità di controllare luci, colori ed alcuni dettagli della foto mi aiuta molto a mostrare chiaramente la mia idea.

Oggi lavoro con la mia camera digitale e software come Photoshop e Lightroom.

 

Fabiano Busdraghi: Molte delle tue foto sono scattate di notte, sono scure e cupe. Puoi spiegarci questa scelta? Perché l’oscurità è importante per te?

Mehrdad Naraghi
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Mehrdad Naraghi: Mi piace controllare ogni singolo dettaglio delle mie foto, ma è veramente difficile farlo quando non sei in studio bensì all’aria aperta. La fotografia notturna mi aiuta ad aggiungere o togliere dettagli. Luci definite come lampioni o fari d’automobili sono il mio equipaggiamento per fare foto. Per fare foto cupe (soprattutto le mie prime) funziona esattamente nello stesso modo.

Un’altra ragione che il pubblico ed io sentiamo è purtroppo la situazione della mia patria. In Iran non si ha la possibilità di prendere decisioni per il futuro. Tutto cambia giorno dopo giorno. Le elezioni cambiano le persone al potere e tutto cambia. Tutte le politiche, i piani ed i programmi fatti in precedenza sono sovvertiti dai nuovi vertici. Questo rende il futuro cupo per me, purtroppo scuro e cupo.

 

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Fabiano Busdraghi: Pensi che essere iraniano, vivere in una nazione con una cultura differente da quella europea, possa influenzare il tuo lavoro? O pensi che la globalizzazione abbia eliminato le barriere tra gli stati, almeno per quanto riguarda l’arte? La visione fotografica può ormai essere considerata globale oppure restano delle importanti differenze regionali?

Mehrdad Naraghi: In realtà questo è uno dei principali argomenti con i quali combatto nella mia testa. I miei lavori non mostrano nemmeno un segno di provenienza dello scatto stesso o del fotografo, come puoi notare. Molte persone mi hanno detto che sono molto simili a scatti di fotografi europei o americani.

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Alcuni europei potrebbero restare delusi dai miei lavori, perché quando sentono parlare di fotografie iraniane vorrebbero probabilmente vedere chiaramente qualcosa proveniente dall’Iran. Usanze, località, questioni controverse come la censura, Hejab e simili. Quelle sono le cose importanti per loro. Purtroppo in questi giorni l’Iran è sempre in primo piano: il nucleare, il presidente Ahmadinejad e tante altre vicende fanno sì che le persone vogliano informarsi sull’Iran. Motivo per cui molti curatori di mostre europei preferiscono mostrare lavori iraniani che contengono scene d’opposizione, dissidio o obiezione.

Molte persone vorrebbero vedere l’esatta situazione della cultura iraniana delle mie foto, ma io le ho scattate nel modo in cui vivo. Io indosso scarpe Adidas, pantaloni Gap, ascolto musica jazz, adoro i film di Woody Allen e altri film d’essai Europei. Leggo molti libri di fotografia o racconti di scrittori o fotografi, etc…

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Io penso che la fotografia e la visione dell’arte ora sia globale. Questo non significa che le differenze regionali o culturali non siano importanti o non siano mai esistite, ma chiaramente non sono così ovvie com’erano prima. Sono anzi così radicate che on-line si può trovare di tutto al riguardo.

Come ho detto nella domanda precedente, le differenze culturali appaiono nei miei lavori come io scelgo di farle apparire: buio, tristezza, posti in cui nessuno esiste.

 

Fabiano Busdraghi: Lavori, esponi e vendi i tuoi lavori maggiormente in Iran o all’estero? Come descriveresti la vita artistica e culturale odierna dell’Iran?

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Mehrdad Naraghi: Faccio tutto in Iran. Raramente ho l’occasione di esporre i miei lavori all’estero. Durante i miei viaggi ho l’opportunità di fare foto in altri paesi; ma problemi finanziari non mi permettono di avviare progetti all’estero con sufficiente tempo.

L’economia artistica non è molto seria, benché in Tehran ci siano molte gallerie aperte. Soprattutto la fotografia è incompresa. I prezzi dei lavori sono bassissimi rispetto al resto del mondo, non sono molte le persone interessate a comprare foto e le critiche artistiche sono molto deboli.

Il governo sostiene gli artisti solo nella direzione in cui vuole che vadano. Le grandi compagni non sono interessate a sponsorizzare progetti artistici. Gli editori preferiscono stampare libri fotografici che contengono immagini di natura o dei luoghi storici iraniani. Quindi vivere da freelance in Iran è ancora un sogno.

 

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Fabiano Busdraghi: Il tuo lavoro viene diffuso maggiormente da gallerie, mostre, pubblicazioni e simili oppure è dovuto solo al circuito artistico on-line? Cosa pensi di tali iniziative? Quali sono i tuoi siti internet preferiti? Leggi qualche e-zine sulla fotografia o qualche on-line magazine sull’arte?

Mehrdad Naraghi: Prima di tutto cerco di esporre nelle gallerie, poi metto i miei lavori on-line o nei magazine. Più che altro ricevo commenti dal pubblico che vede i miei lavori in diversi siti. Sono grato di poter mettere i miei lavori in internet ed avere la possibilità di mostrare i miei lavori a persone che possono esporre le loro idee. È più economico che pubblicare un libro ed è distribuito in tutto il mondo. On-line posso vedere molti lavori di artisti i cui libri non sono disponibili in Iran.

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Io sono un membro di artreview. È un sito in cui gli artisti possono mettere i propri lavori e profili, in cui artisti e curatori possono vedere i lavori e discuterne. Ha anche un magazine interno.

 

Fabiano Busdraghi: Qualche volta i fotografi si ricordano di foto che non hanno potuto scattare a causa di problemi tecnici o perché hanno preferito non ostacolare la vista con la propria camera. Queste “foto mai scattate” spesso rimangono per molto tempo nella memoria e diventano immagini amate come quelle reali. Se ti fosse mai capitato, ti andrebbe di raccontarci la storia di una di queste foto?

Mehrdad Naraghi: Molte di queste situazioni avvengono mentre sto guidando. Vedo molte scene ma queste mi sfuggono a causa dell’alta velocità. Inoltre questo stato di “foto mai scattate” è uno dei miei incubi. Vedo scene perfette mentre sto dormendo. Luci, colori, composizione, tutto in perfette condizioni ma la macchina ha la batteria scarica, il rullino è finito o qualcosa di simile. E queste immagini restano chiaramente nella mia testa tutto il giorno.

 

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Fabiano Busdraghi: Sto facendo un censimento fra i fotografi: quali sono le caratteristiche fondamentali della fotografia? Cosa ci permette di dire che questa o quella foto lo sono e altre no? In particolare, cosa differenzia le immagini fotografiche dalle altre immagini, quali dipinti, litografie, video proiezioni, etc… Pensi che qualcuno possa definire cosa è la fotografia e cosa non lo è?

Mehrdad Naraghi: Fotografia significa mostrare in 1/60 di secondo cosa accade. Ogni istante è diverso dal successivo e dal precedente. Come artista della fotografia ritengo che se un’immagine contiene i canoni estetici della fotografia allora può essere chiamata tale, anche se è fatta da un mix di media, da una litografia o addirittura da un dipinto.

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La differenza è quella che intercorre tra dipingere, disegnare o illustrare. Sono così simili. Potremmo scattare una foto con una camera, ma il risultato potrebbe essere molto più vicino ad un dipinto che non ad una fotografia. Diverse tecniche e materiali li rendono simili. Secondo me è più importante discutere sul valore di una foto come un’immagine che non discutere sul nome con il quale la chiamiamo.

 

Fabiano Busdraghi: Possiamo scegliere una delle tue immagini e farcene raccontare la storia?

Mehrdad Naraghi: Ho scattato molte foto in posti ordinari. Sono scene che ho preso dal mio percorso quotidiano, quindi non c’è una grande storia dietro di loro.

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Fabiano Busdraghi: Puoi raccontarci la storia di un’esperienza fotografica che è stata per te molto importante?

Mehrdad Naraghi: Come molti fotografi, ho avuto molte esperienze che sono ancora impresse nella mia mente, ma sono più interessanti che importanti.

Ricordo che vicino la mia università c’era una piccola drogheria con un vecchio venditore. Ogni volta che entravo lì, mi fermavo a guardare una grossa foto appesa al muro dietro il venditore che mostrava orgoglioso la foto del bel giovane. Io ed i miei amici pensavamo fosse l’immagine di suo figlio o di suo fratello ucciso in guerra, poiché molti posti in Iran mostrano foto di martiri. Un giorno un mio amico chiede al venditore: “Chi è l’uomo nella foto?”. Lui rispose: “Sono io, da giovane. A quei tempi, tutte le donne che entravano nel mio negozio non se ne volevano più andare”. Lo guardai; il suo viso non mostrava nemmeno un segno di gioventù. Credo fosse stato solo vecchio e brutto.

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È affascinante come un uomo ordinario e non istruito viva attraverso una sua foto. Quella foto lo aiutava a sentirsi eterno ed era un documento dei suoi tempi d’oro.

 

Fabiano Busdraghi: Ci sono stati fotografi, artisti o persone particolarmente importanti durante gli studi o durante la tua vita fotografica?

Mehrdad Naraghi: Non ho avuto nessun Maestro fino ad ora. Dopo aver superato i miei corsi in fotografia, ho iniziato subito a lavorare da solo. Le cose che ho imparato nei corsi riguardavano solo come scattare foto, le basi insomma. In quel modo imparai a scattare foto seguendo costantemente le regole insegnate. Avevo paura d’aver imparato nel modo sbagliato.

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Fortunatamente ho incontrato per caso un fotografo di cui ero un grande estimatore. Madjid Korang Beheshti era uno dei miei fotografi iraniani preferiti all’epoca, l’ho ammirato mentre faceva alcune foto e mi sentii in qualche modo liberato. Il suo modo di scattare mi fece aprire gli occhi sul fatto che qualche volta le regole potevano anche essere dimenticate; regole che m’impedivano di vivere nuove esperienze. Magari lui nemmeno se lo immagina, ma quel giorno ha cambiato radicalmente il mio modo di scattare foto.

Da lì in avanti feci alcuni scatti che mi permisero d’essere invitato da Kourosh Adim, un fotografo creativo, per fare fotografia di gruppo con altri tre artisti. Imparai molte cose durante i nostri incontri che mi permisero di ampliare la mia personale visione fotografica.

 

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Fabiano Busdraghi: Un fotografo che ami particolarmente e perché.

Mehrdad Naraghi: Andreas Gursky, Sally Mann, Mona Kuhn sono alcuni dei miei fotografi preferiti. Ed ammiro anche altri progetti come “Zona” di Carl de Keyzer o “End time city” di Michael Ackerman.

I lavori mi attraggono per la loro bellezza, poi guardo al loro concept. Ovviamente intendo la bellezza secondo i miei canoni. Ho avuto la possibilità di osservare i lavori di Mona Kuhn durante Paris Photo. Li ho trovati così meravigliosi che sarei rimasto a fissarli per ore e ore. Sentivo di provare piacere solo riguardando le foto. Mi è mancato durante i miei studi leggere e vedere foto.

 

Fabiano Busdraghi: Che libro stai leggendo ora? Che musica hai ascoltato negli ultimi giorni? Qual è stato un film che hai visto ed hai apprezzato recentemente?

Mehrdad Naraghi: Ora sto leggendo una storia di Eric Emmanuel Schmitt chiamata “Petits crime conjugaux” ed il libro “Open Shutter” di Micheal Wesely. Ultimamente ho ascoltato “Le pas du chat noir” di Anouar Brahim ed il film che ho visto e molto gradito è stato “The Banishment” di Andrei Zvyagintsev.

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