Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100×100cm
© Massimo Attardi

Se le gallerie d’arte contemporanea espongono anche foto, considerandola evidentemente alla pari con altre forme d’arte visiva, che senso hanno le gallerie che espongono solo fotografie? Forse sono proprio queste gallerie che relegano la fotografia in un ambito di pochi, che considerano la fotografia (togliendogli quel respiro che da un bel po’ ha), come cosa a sé stante, diversa, e in qualche modo più “pura”, dall’arte contemporanea. Insomma, mi sembra proprio che quello della fotografia, sia una specie di isolamento voluto, e voluto proprio da chi dice di amare la “fotografia”, che fa mostre, riproponendo un cliché obbiettivamente un po’ stantio, di immagini viste, riviste, se non palesemente copiate. E questo probabilmente è il difetto più grave di un certo ambito fotografico, dove il nero più nero, il bianco più bianco e il grigio più grigio, è più importante di cosa si è fotografato.

 

Fabiano Busdraghi: Sono d’accordo con te, non c’è nessuna differenza fra fotografia e arti visive, come sto cercando di dimostrare con una serie di articoli su Camera Obscura che si intitola “fotografia e verità”. Il problema è che la maggior parte degli artisti, dove intendo “gente che smanetta per produrre qualcosa” usa il procedimento fotografico come potrebbe usare un pennello, uno scalpello, la colla o qualunque altro oggetto o supporto. In modo molto libero insomma. I fotografi, dove intendo chi semplicemente va in giro con la macchina e poi si fa le sue stampe, in genere si sono creati tutta una serie di paletti e di procedure ortodosse che nella loro visione non possono essere modificate, una serie di limiti invalicabili.

Perché succede questo? Credo che originariamente sia dovuto a questo vecchio equivoco di considerare la fotografia come un mezzo di riproduzione fedele della realtà. A me i limiti vanno stretti probabilmente quanto a te, ed è per questo che cerco di far capire ai fotografi quanto sia illusorio. Va detto però che la fotografia può essere utilizzata in tanti modi. Esiste la fotografia artistica, la foto di reportage, la quella di un catalogo pubblicitario, la fotografia scientifica, il ricordo sulla spiaggia, etc. Ognuno ha un linguaggio che gli è proprio e la sua destinazione d’uso, è questo quello che cambia, il metodo di lavoro, il mercato, il pubblico cui si risolve, non la fotografia in se. Questo giustifica in parte la presenza di gallerie dedicate unicamente alla fotografia.

Di fatto, in un mondo ideale, l’esistenza di gallerie unicamente fotografiche si giustifica infatti in termini puramente commerciali. Il gallerista cerca di selezionare tematicamente il proprio lavoro perché si rivolge ad un mercato ben preciso (le gallerie, lo sai probabilmente meglio di me, più che fare “arte” fanno “mercato dell’arte”). Se sa che c’è gente che compra l’immagine fotografica standard, senza ritocchi, montaggi, contaminazioni, etc decide di specializzarsi solo in quella, perché ha un bacino di utenza ben preciso. Oppure può scegliere di vendere della fotografia, diciamo più creativa. Oppure di mettersi in linea con altre gallerie di arte contemporanea dove il mezzo e il supporto non hanno quasi nessuna importanza, e quindi esporre occasionalmente fotografia mista ad altri media. Insomma, secondo me la scelta è puramente commerciale. Il problema è che spesso c’è una grande confusione. Le gallerie espongono un po’ questo un po’ quello. La gente, il pubblico, chi compra, è piena di pregiudizi su cosa sia arte, cosa sia fotografia, cosa sia oggetto e opera, etc. E tutto il casino nasce proprio qui. Idealmente sarebbe semplice no? Ogni fotografo o ogni artista fa quello che gli pare. Se il lavoro è bello lo si vende, chi se ne frega poi di cosa sia e dove lo esponga.

Massimo Attardi
Gomma bicromata su legno 100×100cm
© Massimo Attardi

Per finire, l’ambito fotografico cui fai riferimento, del nero più nero e della precisione tecnica, in generale nelle gallerie e nei musei (almeno a Parigi) per fortuna si vede veramente poco. Ho l’impressione che è più rilegato agli amatori, ai fotografi della domenica, al vecchietto che occupa il proprio tempo, a chi perde giornate sui forum di internet invece di fare immagini. La gente veramente forte fa bei lavori e basta.

Ma smetto di dilungarmi e ti faccio subito un’altra domanda geografica. In passato si è parlato molto di scuole e stili regionali. La fotografia tedesca, la scuola di Dusseldorf. Oggi invece, per dire, si vedono fotografi cinesi che hanno uno stile perfettamente occidentale. Credi che ormai tutte le barriere geografiche siano cadute, che l’arte sia globale, oppure restano delle specificità territoriali? Nel tuo lavoro è possibile riconoscere una certa “italianità” oppure non ha niente a che vedere con il paese in cui sei nato?

Massimo Attardi: Per mia natura, sono contrario ad una idea di confine, anche mentale. Certo l’influenza del luogo dove si nasce o si lavora è inevitabile. La tendenza, per esempio, ad iconicizzare (e ad esorcizzare) il passato del proprio paese, è un passaggio quasi obbligato, dopo però avviene un rimescolamento con tutto ciò che proviene da “fuori”, quindi, la contaminazione, in varie misure, modifica e anche, stravolge l’idea di identità artistica. Fortunatamente!

Per quanto mi riguarda, io non mi sento molto italiano.

Guardo in giro, prendo dove ci sono cose che mi interessano, mastico, metabolizzo, elaboro.
A volte esce qualcosa.

 

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