Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Oggi ho rivisitato un bel po’ di esposizioni fotografiche delle gallerie Parigine. Era tanto che non lo facevo, in parte per impegni vari che mi hanno assorbito completamente, in parte per un senso di rigetto nei confronti delle mostre parigine che descriverò nella prima metà di questo articolo. Per cominciare devo dire che ho fatto le cose per bene, basandomi sulla comoda agenda fotografica per gennaio di un fotocultore, e preparandomi una googlemap con tutti i segnaposti, in modo da ottimizzare il percorso. In realtà avevo un obbiettivo in testa, visto che oggi era l’ultimo giorno della mostra di Ville Lenkkeri alla Gallerie Particulière, ma me lo sono lasciato per ultimo, per gustarmelo del tutto.

Sono uscito in perfetto anticipo, ma dimenticandomi l’ombrello. Pessima cosa, visto che, dopo un paio di piacevolissime settimane, Parigi si è scossa di dosso il bel manto di neve che la ricopriva, trasformando il bel freddo pungente nella solita pioggia e grigiore invernale. Devo dire che la pioggia non mi dispiace, ma preferisco la neve dei giorni scorsi, senza contare che è più comodo per fare la spola fra una galleria e l’altra.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Le fotografie proposte nelle prime gallerie che ho visitato oggi andavano dal mediocre al pessimo, tanto per quanto riguarda i contenuti che la realizzazione pratic. Sono quattro i punti ricorrenti su cui a mio vedere viene giù tutto il castello di carte di una fett ben rappresentativa della fotografia contemporanea.

La metà delle opere esposte ripercorrono idee trite e ritrite, che sembra quasi che una grande frazione dei fotografi al mondo non sappia fare niente di nuovo. Non dico che si debba per forza cercare la novità a tutti i costi, ma almeno si eviti di riscodellare esattamente lo stesso lavoro fatto precedentemente da almeno dieci fotografi, spesso più bravi dell’ultimo arrivato.

Gli statment che accompagnano le immagini sono spesso del puro blabla privo di senso, e -ancora peggio- le serie fotografiche sono esse stesse prive di senso, o perlomeno non hanno nessuna solidità. Quando si legge come capita spesso che “l’artista si interroga sul ruolo del corpo e i suoi rapporti con lo spazio, ricreando e trasfigurando la realtà in modo nuovo” e ogni foto della serie non è altro che un primo piano di un (brutto, vecchio e grasso) culo femminile con poggiato fra le mele un sacchetto di plastica, un martello e arnesi simili, viene veramente da chiedersi cosa ci sia di così geniale in tutto ciò, cosa ci sta insegnando il fotografo, cosa stiamo imparando, che senso ha tutto questo, e perché ci si interessa all’arte contempornea.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Molti fotografi fanno un uso smodato di effetti speciali. Sono un grande amante delle manipolazioni e delle trasfigurazioni delle immagini, ma devono avere un senso, essere a servizio dell’immagine. Se gli effetti speciali possono stupire un pubblico inesperto, basta avere un minimo di cultura fotografica per sapere che sviluppare in cross-processing una pellicola o applicare un filtro di Photoshop, se non vi è un fine concettuale o puramente estetico poco importa, di per sé non aggiunge assolutamente alcun valore all’immagine.

Le stampe fanno troppo spesso veramente schifo. Cosa ancor più sorprendente oggi giorno quando le tecniche di stampa digitale attuali permettono di ottenere risultati fantastici con uno sforzo minimo e un investimento contenuto. Nella maggior parte dei casi la colpa è di un ingrandimento eccessivo ( si veda in proposito la critica alla mostra di la Chapelle è la recensione di Paris Photo), quando basterebbe stampare più piccolo o rilavorare l’immagine, o di un uso improprio di Photoshop (fra tutti gli orrori che rientrano in questa categoria, il più ricorrente è un osceno eccesso di sharpen).

Tutto ciò è piuttosto scontato, nel senso che rientrano in queste quattro categorie molti errori che prima o poi hanno fatto un po’ tutti i fotografi, a volte anche in buona fede. Quello che è incredibile però è che nella quasi totalità delle gallerie fotografiche i lavori di qualità siano molto più rari della paccottaglia senza valore, tanto da sentirmi ormai quasi completamente disgustato dalle mostre, dalle esposizioni, dalle gallerie e addirittura dalla fotografia contemporanea. Sintomatico di questo rigetto fotografico il fatto che oggi, se non fosse per le foto di Ville Lenkkeri, l’unico lavoro che mi è veramente piaciuto non è fotografico, ma piuttosto le favolose sculture di Claire Morgan esposte alla Galerie Karsten Greve. Il tutto è ancora più surreale quando se si pensa che di fatto esistono moltissimi fotografi il cui lavoro si posiziona fra un livello più che buono e uno sensazionale sensazionale, tanto e mi chiedo come facciano i galleresti a selezionare tali ignobili schifezze.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Per fortuna, come a Photoquai 2009, ogni tanto ci si imbatte in qualche lavoro fotografico che ribalta completamente lo scenario semidepressivo che ho descritto nella prima metà di questo articolo, ed è il caso appunto di Ville Lenkkeri, la cui mostra alla Gallerie Particulière mi soddisfa completamente su ogni fronte.

A prima vista, prima ancora di sapere di cosa trattano le immagini, si viene subito incantati dalle fotografie stesse. Potrà sembrare banale come affermazione, ma siamo talmente abituati alla fotografia concettuale, alle fotografie che non dicono niente di niente se non si conosce l’idea che gli sta dietro, che ci siamo un po’ dimenticati del piacere di una bella fotografia in sé e di per sé. Nessun effetto speciale, nessuna aggiunta, semplicemente i luoghi, le persone e gli oggetti visti attraverso gli occhi di Ville Lenkkeri. Inquadratura sobria ed elegante, semplice e pulita. Il tutto sta nella bellezza dei paesaggi, nell’espressività dei personaggi, nel sapiente uso da parte del fotografo della paletta dei colori, della luce, degli spazi e dei volumi. In generale non sono un grande amante dei fotografi che usano il grande formato, o questo stile posato, statico e curato di fotografare, per quella che ho chiamato la maledizione di Ansel Adam, ma qui siamo lontani anni luce dalle immagini stereotipate e fini a se stesse, ogni fotografia è una pura e semplice estasi visiva. Senza dimenticare che le stampe, 100x150cm, sono magistralmente realizzate. Insomma, tutto quello che -nonostante come dicevo ce lo siamo un po’ dimenticati- costituisce la fotografia, in una delle sue accezioni più semplici e pure.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Restando su questo piano di pura percezione e piacere visivo, innanzitutto mi piacciono i paesaggi nelle fotografie di Ville Lenkkeri. Anche se siamo nell’altro emisfero, riconosco al primo colpo d’occhio, ed è una delle ragioni per cui sono venuto, la luce particolare dei territori subpolari, la stessa del ricordo indelebile dei miei viaggi in Antartide. Lo stesso cielo, le stesse sensazioni, e per certi versi le stesse montagne e forse la stessa gente. I ritratti li trovo anche loro splendidi, fantastici (nel senso proprio di fantasia) e immaginari. Basta citare la persona nella casa dai muri di bottiglie di vetro, che lasciano filtrare la luce esterna, per capire cosa voglio dire.

In un secondo momento, e solo in un secondo momento, si può andare a leggere la spiegazione della mostra. Si impara allora che Ville Lenkkeri ha scattato le sue foto nelle isole Svalbard, e più in particolare in una remota isolata località di minatori dove non ci sono nemmeno le strade, dettaglio che ha dato il nome allo splendido libro che racconta questa storia: the place with no roads. Queste comunità di minatori si sono formate nel dopoguerra in luoghi talmente isolati, che le compagnie di sfruttamento minerario hanno iniziato a proporre contratti non-stop della durata di due anni. In una situazione di isolamento totale come questa è successo che il denaro ha perso peso e significato: gli operai ricevevano la paga alla fine dei due anni di lavoro, nel frattempo tutto ciò di cui i minatori potessero aver bisogno veniva fornito direttamente dalle compagnie di sfruttamento minerario, che scalavano poi le spese dal totale. Agli occhi di Ville Lenkkeri tutto ciò è parso come la rivelazione di una società utopica e perfetta, una società che non sia inquinata dal denaro, dove tutti sono uguali e le gerarchie sono completamente assenti, dove la gelosia, la discriminazione e il crimine non esistono, dove tutto è basato sull’aiuto reciproco e l’amicizia.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Basterebbe quanto appena detto per giustificare completamente il valore concettuale di questa serie di fotografie. Documentare la realtà di un paese ai confini del mondo che si è spinto al di là del socialismo, costituendo una realtà unica al mondo, realizzando un sogno di armonia e pace. Ma non è finita qui. In primo luogo Ville Lenkkeri si interroga esplicitamente sull’oggettività e il ruolo delle proprie fotografie. Quando è arrivato la prima volta sulle isole Svalbard la comunità che fotografa era già quasi completamente in declino, se non del tutto. Come è possibile allora rendere in immagini, oggettivamente e senza snaturarla, una realtà ormai scomparsa? In secondo luogo, Ville Lenkkeri si è reso conto con prepotenza di come è cambiata la sua percezione dei luoghi mano a mano che tornava sull’isola. Se originariamente aveva percepito una comunità idilliaca e felice, durante i suoi viaggi successivi Ville Lenkkeri ha colto una realtà differente: i minatori accettavano contratti di due anni unicamente perché spinti dalla miseria del loro paese d’origine, l’isola era un puro e semplice luogo di lavoro, l’assenza di strade escludeva ogni possibile via d’uscita, la vita quotidiana era scandita dagli incidenti nelle mine e dal rigore delle condizioni climatiche. Qual’è all’ora il peso dei preconcetti e delle illusioni di un fotografo sulla realtà che vorrebbe documentare in modo oggettivo?

Probabilmente Ville Lenkkeri sa bene che la risposta sta nel mezzo, che al mondo esiste tanto l’utopia che la dura realtà, che la vita nelle zone polari è regolata tanto dal calore umano che dal freddo dei venti invernali. Come probabilmente sa bene che la fotografia non è né puramente soggettiva né può raccontare la pura verità, ma è allo stesso tempo documentaria e personale, racconto di un luogo e di come il fotografo l’ha visto e vissuto. A proposito di queste fotografie delle Svalbard però Ville Lenkkeri lascia tutte queste domande aperte e rimane pure un po’ di spazio per la fantasia:

Nella ricerca di qualcosa di inesistente, è la ricerca del sogno che conta.

Questa raccolta di fotografie è un inno a tutti gli stili di vita, ed è dedicata ai sogni.

Questa mostra allora, la voglio ricordare proprio così.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

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