Gran Via, Antonio López García
Gran Via, olio su tavola, 1974-1981, dimensioni: 90.5×93.5cm.

© Antonio López García

Una paio di settimane fa sono andato per la prima volta all’esposizione Correspondences di Víctor Erice e Abbas Kiarostami. Da quel giorno sono ritornato altre due volte, e probabilmente lo farò ancora. Quando si ha il pass del centro Pompidou ci si può permettere di visitare solo un pezzo di esposizione, senza essere obbligati a correre o a restare dentro il museo un giorno intero. Insomma, una dimensione che mi è perfettamente congeniale.

Non sto a descrivere la mostra, visto che numerose critiche e commenti sono disponibili su Internet, voglio piuttosto riportare qualche impressione personale, che poi è quello che conta. In ogni caso resterà al Pompidou fino al 7 gennaio 2008.


Quando il vento sparge in aria una pila di fogli bianchi

Sono entrato sulla difensiva, perché al Pompidou bisogna comunque far attenzione alle fregature, nonostante sia uno dei musei più famosi del mondo a volte propone infatti delle esposizioni noiosissime, al limite del visitabile. Contraddizioni dell’arte contemporanea…

Ho un po’ glissato su “L’arte dell’infanzia”, perché non sono amante degli estratti, delle antologie e se devo esser sincero nemmeno dei bambini. Nonostante questo ho ammirato con sincero piacere il poetico Alumbramiento, così delicato e raffinato, dalla splendida fotografia in bianco e nero. Quel canto così emozionante che chiude magistralmente il cortometraggio, dal sapore antico, come se fosse un inno universale che tutti riconosciamo.

Poi sono passato nella sala dove venivano proiettati gli “appunti” del documentario sul pittore Antonio López García. Me li sono guardati tutti con un misto di interesse e un pizzico di noia. Interesse, perché vengono esplorati molti temi concettualmente affascinati; noia, perché avevo ancora negli occhi le splendide immagini del corto, l’emozione del canto che ancora mi risuonava dentro e lo stile crudo del documentario per un momento mi ha lasciato la bocca secca.

Sono fatto così, il concetto non riesce a toccarmi se non è accompagnato anche da un contenuto emotivo e estetico forte. La maggior parte degli artisti concettuali cerca di spogliare completamente l’opera da ogni residuo espressivo che non sia cerebrale. Lo capisco, è una scelta coerente che rispetto. Ma dal canto mio ne sono incapace, e comunque non mi interessa; senza poesia non vivo. Posso coinvolgermi intellettualmente in una disputa filosofica, prender posizione, implicarmi direttamente, ma avrò sempre la sensazione di rimpastare futilità, che quello che conta veramente è altrove, per la strada, fra la gente, nei paesi in guerra. L’intelletto, l’intelligenza, la teoria, mi stancano in fretta se non sono accompagnati da un messaggio che arriva dritto dritto dove si è più sensibili, in quel territorio vago che sono le sensazioni difficili da spiegare, ma che nonostante questo si riconoscono al volo. Non è importante se non Áa sort des tripes, come si dice in Francia.

A parte questa piccola divagazione polemica i video erano interessanti e li ho guardati con attenzione. In parte perché ho delle reminiscenze di Antonio López che mi derivano da quella infarinatura di cultura spagnola che ho assorbito da Ana, la sua famiglia e i miei brevi soggiorni in Spagna, in parte perché è innegabilmente affascinante vedere un’artista all’opera, ed è un lusso che non capita spesso.

Rain di Abbas Kiarostami
Una fotografia della serie Rain.

© Abbas Kiarostami

In genere un quadro è mostrato solo una volta compiuto e appeso ad una parete, immortalato in un condensato di spazio e tempo che è appunto l’opera finale. Vederlo dipingere invece, prendere forma sotto i proprio occhi, lo sottrae alla sua caratteristica di riassunto di tutto il tempo che è stato necessario per dipingerlo, per restituirgli la dimensione progressiva che lo ha originato. Fra l’altro questo è un punto particolarmente importante per Antonio López, che spesso continua a dipingere lo stesso quadro per anni, se non per decenni, continuando a sovrapporre le pennellate e quindi condensare la realtà sulla tela, fino a costituirne una sorta di essenza concentrata della realtà, al di là della riproduzione del soggetto, piuttosto l’idea stessa di questo, la rappresentazione più densa di noumeno che riesca a darne.

Stavo giusto rimuginando su questo fatto quando mi sono incamminato verso la sala successiva, che -l’ho letto solo la seconda volta, quando sono tornato alla ricerca di quelle sensazioni- doveva contenere “tumulto del mondo, silenzio della pittura”, titolo azzeccatissimo.

Una stanza in penombra, quasi al buio. Deserta e completamente vuota, salvo una parete in cui è stata ricavata un’enorme finestra. Sospeso al centro di questa è piazzato, unica opera in tutta la stanza, il quadro “Gran Via” di Antonio López. Lo stesso che fa da soggetto al video di Erice che ho appena lungamente guardato, video in cui il cineasta ha piazzato la telecamera nello stesso esatto punto in cui Antonio López anni prima aveva appoggiato il suo cavalletto, la stessa inquadratura, lo stesso luogo, solo che questa volta non si ha davanti agli occhi il concentrato del paesaggio urbano operato dal pittore, ma Madrid con le sue macchine che sfrecciano veloci per Gran Via, le luci che si accendono e si spengono nella notte, i rumori che animano ogni grande città. Uno entra nella stanza con ancora le immagini del film negli occhi e all’improvviso si ritrova il quadro vero e proprio davanti.




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