Le linee di vita, di fuga e di divenire reale di Cristina Mian e Marco Frigerio
Cristina Mian: Hai colto perfettamente il senso di questa serie di immagini, è il più bel complimento che tu potessi farci.
Side Effects nasce proprio dall’esigenza di tracciare dei divenire reali, delle linee di vita, di fare delle scoperte a livello personale, confrontandoci con il mezzo televisivo senza alcuna intenzione di fare la morale a qualcuno o di ergerci su un piedistallo ed additare con un dito inquisitorio abitudini e comportamenti diffusi in tutte le case ed a tutti i livelli…molto semplicemente ci siamo messi in gioco in quanto utilizzatori, noi in primis, del mezzo televisivo, ed abbiamo voluto scoprire, fino in fondo, a livello personale, quali fossero gli effetti collaterali della televisione, quali concatenamenti si stabilivano se esposti per tante ore ad un programma, non c’è mai stata alcuna intenzione di esprimere giudizi ma solo la volontà di agire ed interagire, scoprire meglio qualcosa di noi stessi, anche senza nessuna “seriosità”, anzi devo anche dire che gli aspetti ludici ed autoironici hanno avuto un ruolo importante in questa serie di immagini…
Marco Frigerio: Tra l’altro in questa serie abbiamo cominciato a sperimentare con sempre maggiore consapevolezza, e a voler sempre più fortemente “contaminare” le immagini, con elementi, influenze, che arrivano direttamente da ambiti extra-fotografici, come le performances, così come è sempre più presente l’idea di attuare un vero e proprio programma, nel senso che abbiamo detto prima, cioè un programma che determini solo alcune condizioni iniziali di ripresa e di scatto, che fornisca alcune istruzioni operative per quanto riguarda gli elementi extra-fotografici, ma non possa prevedere quali saranno gli esiti dell’attuazione di questo programma, perché saranno influenzati anche da incidenti programmati e non, da improvvisazioni, da una pulsione irrefrenabile allo smarrimento, all’oblio, così come deve avvenire in ogni processo di divenire reale, in ogni processo di vera scoperta, e quindi non sarà mai possibile prevedere e controllare come sarà l’immagine finale, e questo non è importante, perché appunto quello che conta veramente è quello che accade nel tempo dello scatto, quali nuovi concatenamenti riusciamo ad instaurare quando questi divenire vengono tracciati…
Fabiano Busdraghi: Trovo appunto terribilmente interessante il fatto che entrate nelle vostre fotografie, che siete passati dalla rappresentazione esterna alla performance diretta. L’uscire da una sequenza puramente fotografica, una serie di azioni più o meno meccaniche e entrare in un “programma” i cui esiti sono completamente aperti. Potete approfondire ulteriormente che cosa rappresenta questa scelta per voi? Cosa significa porsi dall’altro lato della macchina fotografica?
Marco Frigerio: Oggi per noi significa prima di tutto manifestare ed accettare come evento ineluttabile, la necessità di essere affetti da tutto ciò che ci circonda, dagli oggetti, dalla luce, dal mezzo fotografico stesso, dalle persone…dal momento che la fotografia deve tracciare dei processi di divenire reali, delle linee di vita, l’unico modo per verificare se ciò accade realmente è quello di essere infettati, in prima persona, come in una epidemia pericolosa, da una selva infinita di concatenamenti, concatenamenti con azioni, persone, cose, pensieri…porsi davanti alla macchina fotografica è quindi sempre un modo per attuare un programma e verificarne sulla propria pelle i risultati, ma è anche uno smarrirsi, un avvicinarsi progressivo ad una soglia di indiscernibilità tra soggetto e oggetto, tra autore e opera, è un processo in cui poi quella che è spacciata è proprio la tua identità, il tuo essere Io, in qualche modo la tua autorialità (intesa anche come autorità e potere), sempre con il fine di effettuare delle scoperte di ignoto, di liberarti dei tuoi assoggettamenti, di forare e smantellare il muro bianco del significato.
Cristina Mian: Ovviamente il percorso che ci ha portato fino a qui parte molto da lontano ed è stata una lenta evoluzione, tutto però nasce dalla consapevolezza di nuove esigenze espressive.
Come tu ben sai noi abbiamo fotografato per molti anni seguendo un percorso sostanzialmente inserito nella tradizione della Scuola di Dusseldorf, i nostri riferimenti principali erano i Becher, Gursky, Struth, quindi un tipo di fotografia oggettiva, in qualche modo documentaristica, con una vocazione anatomo–classificatoria del reale.
Ad un certo punto però, ed è stato in coincidenza del lavoro sulla de-industrializzazione causata dall’entrata della Cina nel WTO, è stata forte in noi la necessità di avere un approccio più soggettivo, quindi non solo l’esigenza di una fotografia in cui le nostre emozioni, le nostre visioni, il nostro punto di vista, fosse chiaramente espresso, esperibile e percepibile, ma anche di una fotografia in cui noi fossimo direttamente coinvolti, in prima persona, nei fenomeni sociali ed economici che stavamo esplorando, una fotografia in cui ci fosse la possibilità di essere attraversati e soprattutto modificati dalla nostra ricerca, da quello che stavamo vivendo e sperimentando.
Poi il crescente interesse di entrambi per fotografi come Claude Cahun (che è stata una delle prime fotografe a mettersi dall’altro lato della macchina fotografica, anticipando di almeno 20 anni Cindy Sherman), oltre che il crescente interesse di Marco per gli Azionisti Viennesi e le performances più in generale, e quindi la volontà comune di cominciare ad introdurre ed “ibridare” con queste esperienze artistiche le nostre immagini, nonché un riavvicinamento di entrambi a tutte le tematiche legate al corpo, hanno fatto il resto e ci hanno portato dove siamo adesso…ad un certo punto il fatto di entrare direttamente nelle nostre composizioni era diventata per noi appunto una esigenza necessaria, ineluttabile ed ineludibile…
For multi-page articles the pdf file automatically include the whole post