Le linee di vita, di fuga e di divenire reale di Cristina Mian e Marco Frigerio
Fabiano Busdraghi: Per le vostre fotografie utilizzate unicamente il banco ottico. Uno strumento potente ma ingombrante insieme. In generale viene usato per sfruttare le possibilità espressive legate ai movimenti: correzione della prospettiva, selezioni dei piani di messa a fuoco, etc. Nel vostro caso, mi sembra, non usate nessun movimento, ma una inquadratura frontale e asettica. So che stampate in grande formato, e un negativo di formato adatto permette di ottenere stampe iperdettagliate e di grande presenza. Perché in questa serie queste caratteristiche sono espressivamente importanti? A parte nitidezza e dettaglio, che importanza ha l’uso del grande formato nel vostro lavoro?
Cristina Mian: Mah, se parliamo del lavoro sugli effetti collaterali della televisione sinceramente l’idea di utilizzare il banco ottico aveva, inizialmente, una motivazione molto pratica e tecnica.
Cioè, una volta stabilito che volevamo che tutte le inquadrature fossero frontali rispetto alla televisione, era altrettanto chiaro che in alcune immagini si sarebbe visto sullo schermo televisivo il riflesso della macchina fotografica o del fotografo, e l’utilizzo del banco ottico era l’unica strada percorribile per riprendere la scena frontalmente e non avere il riflesso del banco stesso nel televisore, sai come in quel “giochino” – esempio che trovi in tutti i libri sul grande formato, in cui c’è uno specchio che è ripreso frontalmente ma non c’è l’immagine riflessa del fotografo sulla sua superficie.
Poi però abbiamo capito che invece il riflesso del banco ottico, o di me stessa che opero sul banco, così come i riflessi dell’ambiente domestico in cui avvenivano gli scatti, sarebbero dovuti essere presenti e rappresentare una parte importante, fondante dello scatto e dei suoi esiti finali, perché erano uno strumento potentissimo per Marco per stabilire nuovi concatenamenti nel corso delle sue azioni, un modo per ampliare e rendere meno prevedibili gli effetti del suo interagire con l’immagine televisiva proiettata, e quindi questi riflessi sono entrati a far parte sia del programma che dell’immagine finale…
Marco Frigerio: A questo punto però le motivazioni di ordine pratico e tecnico per utilizzare il banco ottico sono andate a farsi friggere, anzi a voler ben vedere il banco ottico era forse il mezzo meno indicato per realizzare questo tipo di immagini, e quindi alla fine la nostra scelta si è basata su considerazioni puramente espressive e molto molto personali, non ultima anche la tendenza un po’ “suicida” a voler porre più limiti che si possono alla nostra fotografia, al nostro operare fotografico, come se nel limite ci fosse una forza propulsiva di liberazione di forze espressive che è sconosciuta quando si hanno tante, troppe opzioni, tanti, troppi strumenti di lavoro…poi guarda, a me personalmente l’affermazione che bisogna usare lo “strumento giusto” mi ha sempre fatto venire l’orticaria, preferisco di gran lunga utilizzare, quando possibile, lo “strumento sbagliato”…ho sempre poi come fortissima la tentazione a privilegiare sempre l’idea e la sua immediatezza, la sua urgenza di spontaneità, cioè per me l’ideale sarebbe che quando ho una idea io la possa realizzare subito, utilizzando quello che ho intorno al momento, anche se poi capirai che non è così, questa urgenza viene sempre “tradita” dal pensiero, dalla riflessione, dal confronto tra me e Cristina, però secondo me questa pulsione rimane comunque come sedimentata sul fondo del nostro agire, informa sempre, in qualche modo, le nostre decisioni finali…
Vabbè dai, permettimi queste piccole provocazioni, però quello che dico è profondamente radicato nel nostro modo di rapportarci alla fotografia, anche se per la serie “Side effects” alla scelta definitiva del banco ci siamo arrivati, come dicevo prima, per gradi, per confronto, per riflessione, per tutta una serie di urgenze espressive.
A dirti la verità, una volta capito che i riflessi di Cristina e dell’ambiente domestico dovevano rappresentare momenti fondanti, propulsori di divenire e concatenamenti nella fase di scatto, le prime prove le abbiamo effettuate con una reflex digitale, perché questo ci diceva il buonsenso, perché quello era lo strumento giusto per questo tipo di lavoro (dico reflex digitale perché era quella che abbiamo utilizzato per le prove, la scelta finale poteva anche essere una 35mm argentica piuttosto che il medio formato).
Però una volta visti i primi scatti con la reflex abbiamo subito capito che c’era qualcosa che non andava, il fatto che fosse lo strumento giusto per quel tipo di immagini, che ci restituisse e ci immergesse in un flusso di lavoro “corretto” (a livello di tempi di esposizione, possibilità di lavorare in luce controllata visualizzando subito i risultati, velocità e facilità operativa, giusto per citarne alcuni) ci impediva, di fatto, di applicare il nostro programma nei modi e nei termini in cui stava prendendo lentamente forma.
Perché in noi invece era sempre più forte l’esigenza di lavorare sempre in luce ambiente, di avere tempi di esposizione superiori ai 30 secondi così da permettermi di interagire a lungo con l’immagine trasmessa dal televisore, di specchiarmi nei riflessi di Cristina e dell’ambiente domestico, di essere tutti attraversati, in un tempo così lungo di scatto, da ogni sorta di incidente, di imprevisto (programmato e non), di improvvisazione, di smemoramento.
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