Le foto(copie) di Samuele Piccoli
Samuele Piccoli lavora mischiando fotografia, fotocopie, tecniche di trasferimento, collage e pittura. Il trasferimento di fotocopie di fotografie su carta da disegno utilizzando la trielina o l’acetone crea immagini dall’aspetto pittorico che trovo molto interessante. A queste fotografie fotocopiate e trasferite Samuele Piccoli aggiunge elementi esterni puramente pittorici, collage, tratti, pennellate, creando immagini a cavallo fra pittura e fotografia, pittorialismo e modernismo.
Quando l’ho contattato ha accettato non solo a scambiare quattro chiacchiere su Camera Obscura, ma anche a spiegare nel dettaglio il procedimento tecnico che utilizza, a proposito del quale ero particolarmente curioso.
Fabiano Busdraghi: Come hai iniziato a fotografare? Qual’è la tua storia di fotografo?
Samuele Piccoli: Innanzitutto penso di essere uno sperimentatore più che un fotografo vero e proprio. Non voglio pormi limiti e quindi, fino a quando mi sarà possibile, non voglio cadere nel “tranello” delle definizioni.
Comunque sia, la mia storia parte nel più classico dei modi, intorno a 18 anni mio zio mi regalò una vecchia reflex russa completamente manuale, mi ricordo benissimo la gioia che provai nell’assaporare la messa a fuoco selettiva, quel primo contatto mi aprì un mondo. Da li ho intrapreso la “carriera” del classico fotoamatore ispirato dalle foto del national geographic, fino a quando ho avuto la straordinaria fortuna di conoscere una persona che mi ha aperto gli occhi sulla fotografia che ti guarda dentro. Mi si è aperto un mondo, tutti gli schemi sono caduti, le sicurezze smontate, i canoni rovesciati. La foto è diventata finalmente mia, che piaccia o no.
Fabiano Busdraghi: Come è nata la tua serie di fotografie/fotocopie?
Samuele Piccoli: È stata una lenta evoluzione, tutto però è riconducibile alla mia passione per il foro stenopeico. Questo miracoloso strumento di espressione (dovrebbero glorificarlo), mi ha permesso di conoscere le opere di Paolo Gioli, di scoprire il meraviglioso mondo che c’è dietro alle istantanee, ma soprattutto di cominciare a cimentarmi in una disciplina (quella delle polaroid) per me del tutto nuova.
Un pomeriggio stavo scattando una macro polaroid stenopeica ad una rosa, mentre mi accingo a compiere il consueto strappo del negativo dal positivo, mi sono accorto che quel movimento non mi era nuovo. Non lo era infatti. Quel semplice e banale movimento lo avevo già ripetuto centinaia di volte molti anni prima quando frequentavo le scuole elementari. Spesso infatti trasferivamo, tramite l’acetone, le immagini ritagliate da alcune riviste su carta da disegno per poi disegnarci intorno. Quando l’acetone seccava, le porzioni di rivista venivano staccate proprio come si strappa una polaroid. Niente di più semplice e meraviglioso allo stesso tempo.
Questo mi apriva un numero infinito di strade da percorrere, di vie da sperimentare, ero a dir poco esaltato. Il progetto però era solo ancora a livello di bozza, la tecnica l’avevo trovata, dovevo trovare il messaggio che più si addiceva alla tecnica in questione. L’istinto e la passione hanno fatto il resto.
Fotografia a parte, non disdegno affatto la pittura, e nel solito giorno riesco a non farmi passare inosservati un ritratto di Sergio Flori e una foto di Claude Cahun molto simile ad una fotocopia, è l’illuminazione. Comincio a selezionare vari soggetti dal mio archivio, li fotocopio, e li trasferisco su carta da disegno, i risultati sono incoraggianti ma troppo compiacenti. Un bel giorno, mi trovo di fronte ad un’opera di Araki, la guardo la studio attentamente, l’ammiro. Quella tecnica mi da coraggio e finalmente mi decido a violare l’ultimo dei sigilli: la sacralità dell’emulsione. Dal superamento dell’ennesima barriera e di nuovo libero da ogni vincolo, sono nate le foto(copie).
Fabiano Busdraghi: Questo ritorno ad un gesto che era proprio dell’infanzia, una sorta di memoria che ti è rimasta nelle mani è molto interessante. Puoi sviluppare un po’ il discorso?
Samuele Piccoli: Ammetto che un po’ mi piace andare controcorrente, non rifiuto a priori la modernità, sarei un folle, però adoro utilizzare le mani, e non solo il dito indice della mano destra. Trovo una soddisfazione enorme nel costruirmi ciò che mi serve con quel poco di attrezzi messi a disposizione dal mio garage e dall’aiuto degli altri.
Nessuno forse ci pensa, ma noto spesso che tendo a trascurare i sensi (il tatto e l’olfatto) a causa della velocità, ma soprattutto della superficialità, con cui ci siamo costretti a vivere. Spesso ho fretta anche quando sono di fronte ad un passa-tempo, mi chiedo quindi che razza di passa-tempo (lo dice la parola stessa) stia cercando, ma soprattutto non mi fermo a guardare il panorama che mi sono lasciato alle spalle.
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gorana
ha detto, il 23 Gennaio 2009 @ 7:08 PM :
Ciao Sammuele… mi interessa molto la tecnica della triellina avendola affrontata pure a scuola ma solo su carta… volevo chiederti se è possibile fare trasferimenti anche su altri materiali come legno, plexliglas? Ovviamente cercando di ottenere più o meno lo stesso risultato… se nn è possibile esistono altre tecniche che lo permettano?
grazie
Samuele
ha detto, il 24 Gennaio 2009 @ 12:33 PM :
Ciao, ho fatto delle prove su vetro, plexliglas, polistirolo, cartone e legno. La tecnica, basandosi sullo “scioglimento” del pigmento della foto grazie al solvente (trielina) e relativo trasferimento su un altro materiale, ha dei risultati diversi a seconda del grado di porosità e ruvidezza del supporto che accoglierà la foto. Essenzialmente tutti i materiali posso accogliere questo pigmento. Per esperienza ti posso dire che sul vetro si ha una notevolissima perdita di dettaglio ma il pigmento ti viene restituito con un effetto a “puntini” molto pittoresco, Sul legno ti puoi scordare l’immagine originale, idem per quanto riguarda il polistirolo. L’effetto più sorprendente si ottiene con il plexiglas, perchè praticamente restituisce quasi l’intera scala tonale, non si ha una perdita eccessiva di dettaglio, e su tutta la foto si forma una stana velatura tipo “figurina panini staccata da un vetro dopo 10 anni”.