- Che splendida immagine, peccato che non sia una fotografia!
Questa è una frase che si sente pronunciare spesso, a proposito dei lavori di tanti artisti contemporanei che mischiano con disinvoltura diverse pratiche più o meno fotografiche, utilizzano la fotografia come punto di partenza per elaborazioni anche molto lontane dello scatto di partenza. Con l’avvento del digitale è una frase pronunciata anche da tantissimi stampatori della vecchia scuola di fronte ad una fotografia che è stata ritoccata al computer in modo evidente. In generale è una frase pronunciata con un’accezione negativa, quando non si sfocia nel vero e proprio sprezzo.
Un atteggiamento di questo genere implica sempre una certa dose di presunzione. Intanto significa che esista una certa definizione universale della fotografia, e che sia nota a chi ha pronunciato la frase. Naturalmente in generale quella che è considerata La Fotografia è esattamente il genere coltivato dal nostro interlocutore, che si auto investe del merito di essere un rappresentante della Vera Fotografia, una specie di messia di una classe sacerdotale investito di illuminazione divina, che deve battersi contro il paganesimo imperante nel mondo.
Spesso chi pronuncia questa frase afferma quindi implicitamente due cose:
- che esiste una categoria assoluta, che gode di caratteristiche universali, che determina cosa sia “la vera fotografia”
- che tutte le pratiche che differiscono da questa categoria assoluta non sono strettamente fotografiche.
Nel secondo caso si tratta dell’innato rifiuto dell’uomo per tutto ciò che è diverso, estraneo alle regole costituite. È l’atteggiamento reazionario di chi crede di aver tutto compreso e che l’ultima parola sia stata detta. È l’atteggiamento di chi in fondo ritiene di aver sempre ragione. La voglia di bollare quello che non è diverso come estraneo e pericoloso. È un atteggiamento vecchio come la storia dell’umanità, ma per fortuna ovunque e in ogni epoca, oltre alle spinte reazionarie, sono sempre state presenti anche quelle rivoluzionarie, che hanno permesso al mondo di non fossilizzarsi in pratiche ortodosse e pregiudizi. Chiunque esprime un giudizio dettato dallo sdegno su una pratica fotografica che non conosce o non condivide dovrebbe quindi considerare che così facendo sta dichiarando se stare dalla parte dei sacerdoti o dietro alle barricate.
Che questo atteggiamento di rifiuto per il diverso sia irrazionale e spesso deleterio mi sembra abbastanza evidente. Più complesso invece il discorso per quanto riguarda l’esistenza di una definizione univoca dell’ambito fotografico. Nei prossimi giorni pubblicherò quindi una serie di articoli che cercano di determinare se è possibile dare una definizione di fotografia che valga tanto sul piano astratto che su quello concreto, una definizione che sia razionale e teorica ma allo stesso tempo adatta praticamente alle peculiarità del media, una definizione che valga tanto per i filosofi che per i fotografi.
Visto che, al di là delle definizioni, si va a parare sui rapporti fra la fotografia e la realtà, virando sul valore informativo o documentario della fotografia, questa serie di articoli ha un titolo un po’ pomposo: fotografia e verità.
Vedremo come cercando di dare una definizione univoca si ricade sempre sempre in categorie troppo ampie o troppo strette per essere corrette dal punto di vista filosofico e allo stesso tempo adatte al senso comune e ad un uso concreto della parola fotografia. Forse conviene allora rinunciare a definire univocamente il fotografico e come consequenza accettare apertamente ogni forma di contaminazione piuttosto che arrogarsi il merito di fare fotografia e tacciare tutto il resto con un semplice “ma questa non è una fotografia”.
In realtà non si tratta solo di determinare se la fotografia è difinibile o meno, ma di un ambito più vasto. Quello che è in gioco in ultima analisi è il rapporto fra realtà e rappresentazione. Per questo questi articoli si chiameranno “fotografia e verità”.
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