Camera Obscura » Teoria /it/ A blog/magazine dedicated to photography and contemporary art Thu, 12 Apr 2012 19:59:02 +0000 en hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.3.1 Instant Revival, di Mauro Baldassarri /it/2012/mauro-baldassarri/ /it/2012/mauro-baldassarri/#comments Thu, 22 Mar 2012 17:20:57 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4530
Mauro Baldassarri
© Mauro Baldassarri

Testo e foto di Mauro Baldassarri.

 

Polaroid. Tutto si fa passato così in fretta che io faccio il revival di ieri.

Così cantava nel 1986 Davide Riondino riferendosi a una tecnologia fotografica che a metà degli anni ’80 del secolo scorso poteva ancora a buon diritto dirsi attuale.

“Scatta e rivedi”: l’evoluzione del “voi premete il pulsante e al resto pensiamo noi” di Mr. Eastman cui è stato azzerato il fattore T. Il Tempo, che intercorre fra lo scatto e la visione del risultato finale.

La fotografia entra così nell’era della velocità, della sincronicità.

Le fotografie monumentali, realizzate negli studi, in posa, con l’abito della domenica, avevano già perso la loro sacralità travolte dalla rivoluzione del “rullino” e, prima ancora, da quella della Kodak, ma è il “pack” di Edwin H. Land a proiettare lo scatto dell’otturatore nella contemporaneità.

Con lo sviluppo istantaneo si completa anche il percorso di avvicinamento delle masse alla fotografia, liberata ora anche dall’ultimo ostacolo tecnico che si frapponeva tra lo scatto e la fruizione dell’immagine: lo sviluppo e la stampa. Allo stesso tempo però si compie anche il definitivo allontanamento della fotografia dal “lavoro” del fotografo, funzionale (anche) a determinarne il “valore”.

La cesura più radicale avviene però nei confronti del Tempo, per contrastare l’erosione del quale la fotografia (che “val più di mille parole”) si era alacremente adoperata. Produrre immagini fotografiche, prima ancora di essere Arte, è stata funzione di sostegno al ricordo, alla documentazione, al sentimento: strumento di resistenza allo scorrere del tempo, che cancella la memoria. Rivedere le fotografie era atto diacronico, che si compiva solo a distanza (di tempo, e di spazio): occorreva il tempo tecnico per le operazioni di sviluppo e stampa prima di vedere le immagini prodotte e quindi, sicuramente, sarebbero state viste “altrove” rispetto a dove erano state scattate. Rivedere le immagini diventava quindi anche rinforzo (della memoria, degli affetti).

L’azzeramento del Tempo muta sostanzialmente la prospettiva. Con la Polaroid tutto si fa passato così in fretta. Basta un “click”. Pochi istanti e “l’Istante” appena trascorso è già storicizzato sul quadratino dal bordo bianco, pronto a essere rivissuto, appunto, istantaneamente. Pronto a essere rievocato (forse) nelle ore successive e a essere archiviato (talvolta), insieme agli altri “monumenti” fotografici. Magari per ricomparire, decontestualizzato, dopo qualche anno.

Dopo la Polaroid continua, ora, a bastare un “click”. L’i-coso di turno registra fedelmente il nostro istante in una sequenza di zero e di uno per metterlo immediatamente in condivisione su LCD con chi dell’istante ha partecipato e, poco dopo, con il resto del mondo in rete sociale.
Un click, pallido residuato acustico di un passato elettromeccanico, al quale la contemporaneità digitale si aggrappa alla ricerca di un’identità riconoscibile (pensiamo a quanto ci sembra innaturale non sentire il suono dell’otturatore, al punto che è riprodotto artificialmente nelle compatte).

Tempo, memoria, identità: azzerato il tempo, non serve più l’immagine come rinforzo del ricordo e del sentimento. Cessa quasi anche di essere documento, che in quanto tale è prodotto, prova obiettiva, di un’attività “altra” da quella di conservazione della memoria. Meno che mai è monumento, caratterizzato dalla forte intenzionalità di essere strumento del ricordo e della celebrazione, da tramandare nel tempo futuro.

Elevato all’istantaneo, prima, e al digitale, dopo, l’atto di scattare fotografie si trasforma culturalmente: si fa contemporaneità, compresenza, sincronicità, superandosi, cioè potenziandosi, anche sul fronte della sacralizzazione dei fatti cui la macchina fotografica partecipa attivamente rendendoli “eventi”.
Bastava che in una circostanza data fosse presente una fotocamera per scatenare quella “comune reazione sociale alla presenza della macchina fotografica” che Ortoleva ha ben spiegato. Adesso in ogni momento siamo circondati da obiettivi; ogni istante, o quasi, dell’esistenza è fissato o fissabile. Ogni istante diventa Evento; e ogni evento lascia dietro di sé una scia di immagini.

Le fotografie “presenza feticcio del XX secolo” e “miglior surrogato della presenza reale” vengono quindi quasi a perdere la loro ragione di essere, la loro funzione di supporto, o surrogato, della memoria, sovraesposte, è il caso di dire, letteralmente da loro stesse.

Servono, invece, come rinforzo “qui e subito” dell’identità e dell’esistenza, sempre più smarrite e confuse, in costante pericolo: l’oblio è in agguato.
Siamo (non importa cosa: qui, famosi, belli, vincenti, divertenti); basta un attimo e non siamo più. E allora l’immagine deve essere veloce, a T=0, altrimenti il rinforzo non funziona, diventa memoria, ma quella interessa meno: l’esigenza è adesso.

Se siamo fortunati diventiamo revival, altrimenti ci aspetta l’oblio. Lo sappiamo, e cerchiamo di ignorarlo, ma ci facciamo i conti. E ci scattiamo fotografie.

“Facciamoci la foto” diventa così attività orizzontalizzata nel range di possibilità dell’essere, qui e ora (non tanto diversa, formalmente da “mangiamo un gelato” o “sediamoci li”). E’ facile, non bisogna aspettare per rivederla, è praticamente a costo zero ma è preziosissima nella toolbox emotiva e di straordinaria valenza esistenziale. La fotografia, istantaneità documentale, Diventa atto rassicurante del presente, ci conferma che siamo, adesso (non “eravamo”), proprio li.

E che forse, almeno per oggi, abbiamo speranza di continuare ad essere.

Domani, se tutto va bene, sarà revival.

Suggerimenti fono-bibliografici

  • D. Riondino, Polaroid, in Tango dei miracoli, 1986
  • J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1978, vol. V
  • P. Ortoleva, La Fotografia, in Introduzione alla storia contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1984
  • E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, 1956 – Milano 1967 (Ed. It.)
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RTFM ovvero per favore leggete le linee guida /it/2010/rtfm/ /it/2010/rtfm/#comments Mon, 15 Nov 2010 21:21:11 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=4199

L’informazione oggi è vastissima e a portata di mano, purtroppo però sembra che la maggior parte delle persone si fermino ancora prima di leggerla.

Alcuni anni fa sono stato uno dei creatori e del sito GuIT, Gruppo Utilizzatori Italiani di LaTeX, uno splendido software di composizione tipografica. All’epoca partecipavo moltissimo alle discussioni del forum. A lungo termine però il rapporto segnale/rumore, come nella maggior parte dei forum, non era altissimo. Uno dei grossi problemi era che moltissimi utilizzatori preferivano arrivare e postare subito la loro domanda, senza verificare che la risposta fosse già presente nella documentazione del sito o sul forum stesso. Non parlo di lunghe e tediose ricerche in documenti interminabili, in generale sarebbe stato abbastanza immettere due parole nel campo di ricerca, premere un bottone e trovare la soluzione. Al di là dello sforzo dei moderatori di mantenere alta la qualità del forum, l’utilizzatore stesso avrebbe tratto vantaggio ad agire in questo modo, visto che in generale ci vuole molto più tempo e fatica per scrivere un post con una richiesta di aiuto che leggere la risposta già bella e pronta. Veniva quindi voglia di rispondere a tutti i messaggi con RTFM, che come spiega wikipedia è l’acronimo di Read The Fucking Manual. Da tenere comunque presente che, dietro il modo non gentilissimo per dirlo, si nasconde il desiderio di mantenere alta la qualità di uno spazio di discussione e soprattutto quello di insegnare alla gente a fare piccole ricerche autonomamente, visto che cosa che andrebbe prima di tutto a loro vantaggio.

Nella vita di tutti i giorni mi viene spesso voglia di dire RTFM. Visto il mio percorso passo -spesso a torto- per guru assoluto di fisica, oceanografia, equitazione, Antartide, fotografia, informatica, linux, ubuntu, cinese, cucina… e chi più ne ha ne metta. Tantissimi amici mi chiedono di continuo di aiutarli a fare questo o quello, eliminare un virus dal pc, ritoccare una foto. Se in certi casi obiettivamente sono necessari anni di esperienza, nella maggior parte dei casi la soluzione è a portata di mano. Anzi, dirò di più, nella maggior parte dei casi non conosco la risposta ma so che la si può trovare in meno di 5 secondi su Google, cosa che mi predispone all’incazzatura.

Gli esempi non mancano. Tempo fa ho apposta pubblicato un articolo che spiega come utilizzare il grano per migliorare gli ingrandimenti digitali. Mi ci son voluti mesi per capire come fare e qualche ora per scrivere l’articolo, ma non me lo tengo per me, segreto di stato, lo scrivo su internet e lo offro gratuitamente a tutti. Molte persone mi hanno scritto una mail dicendo:

Ho visto che hai scritto un articolo sul grano, poi mi spieghi come fai che mi interessa tantissimo!.

Ma scusate, non potete semplicemente andarvelo a leggere? Se vi interessa tantissimo perché aspettare? Ho fatto lo sforzo per essere il più chiaro possibile, se non capite qualcosa naturalmente ne riparliamo, ma perché a priori non volete nemmeno fare lo sforzo di leggerlo? Al di là del fatto che non farei altro che ripetermi, so per esperienza personale che se una persona non fa lo sforzo (minimo) di provarci, non riuscirà mai ad imparare niente di niente. Insegnare vuol dire guidare, non fare qualcosa al posto di chi deve imparare. Quando insegnavo tecniche di camera oscura gli studenti non imparavano assolutamente niente se non si scontravano essi stessi con una difficoltà e -con il mio aiuto, ma niente di più- dovevano trovare una soluzione.

Al limite posso ancora concepire le difficoltà di chi si confronta con una tecnica che non conosce. Ma la pigrizia della gente non si ferma qui. C’è chi mi telefona apposta per chiedermi, tanto per dirne una, in che data è nato il primo imperatore cinese. E che ne so io? Mica mi chiamo wikipedia! “Cerca con Google no?”1 Il riflesso mi sembra talmente più naturale… senza contare che il metodo è infinitamente più efficace. Basta scrivere in Google “primo imperatore cinese”, cliccare sul primo risultato della lista e leggere che Qín Shǐ Huáng è nato nel 260 a.C. Telefonare a qualcuno richiede più tempo, costa soldi di bolletta, richiede il contributo gratuito di una persona che niente a che vedere con la ricerca e infine non garantisce certo un risultato sicuro, se non altro perché non faccio mai lo sforzo di ricordare le date precise, visto che sono sempre a portata di mano, insomma basta “leggere il fottuto manuale”.

Infine c’è ancora un ultimo esempio di pigrizia umana, che poi alla fine è il vero motivo per cui ho scritto questo articolo, ovvero i contributi esterni pubblicati su Camera Obscura.

Per evitare di spedire mail piene di istruzioni ho scritto tutte le possibili informazioni di cui possono avere bisogno gli autori nella pagina delle linee guida (tradotta in inglese), dove si trovano anche le due o tre regolette (pochissime per dir la verità) che vanno rispettate per pubblicare un articolo su Camera Obscura. In genere quando trovo un autore che mi piace gli mando una mail in cui descrivo in una decina di righe la la linea editoriale di Camera Obscura, mi complimento con lui, lo invito a visitare il sito e se gli piacciono gli articoli pubblicati (di cui gli suggerisco una selezione dei migliori) lo invito anche a scrivere un testo a proposito del suo lavoro. La mail infine, subito prima dei saluti, finisce con questa frase:

Per quanto riguarda i dettagli per favore leggi con attenzione la pagina delle linee guida, dove si trovano tutte le informazioni necessarie per sottomettere un articolo:
/it/proporre-articolo/
Per favore leggi le linee guida con attenzione prima di decidere se contribuire o meno e prima di iniziare a scrivere il tuo articolo.

Spessissimo ottengo questa risposta (di solito inviata con il cellulare):

Fantastico! Mi interessa moltissimo! Cosa devo fare?

Rimango interdetto visto che queste persone non solo non hanno letto le linee guida, ma nemmeno la mail che ho spedito. Nonostante questo, educatamente ripeto in due righe quello che ho detto nella prima mail, ovvero che i fotografi possono pubblicare un articolo di loro pugno e che tutte le informazioni che necessitano si trovano nella pagina delle linee guida, di cui do il link per una seconda volta. Risposta, sempre mandata con il cellulare:

Puoi prendere le immagini che vuoi dal mio sito, grazie mille per l’interesse e per l’articolo!

Per la terza volta spiego che non sono io a scrivere questo tipo di articoli e per la terza volta invito il fotografo in questione a leggere la pagina delle linee guida, naturalmente riportando per la terza volta il link per intero. A meno che il fotografo a questo punto non abbia voglia di scrivere, la conversazione continua sullo stesso tono. Il personaggio in questione mi pone immancabilmente domande la cui risposta si trova nella pagina delle linee guida. Ma perché non la legge? Inizialmente rispondo che “come si può leggere nella pagina delle linee guida (link in chiaro per la quarta volta) etc etc” dove al posto di etc etc copio la risposta che si trova appunto nell’apposita pagina. A partire dalla volta successiva infine scrivo laconicamente:

La risposta a questa domanda e a tutti gli altri dubbi riguardo all’articolo si trova nella pagina delle linee guida (sesta volta che incollo il link).

Di solito questo basta per interrompere le mail per qualche giorno, quando infine il fotografo mi manda un articoletto che si scopre essere lo statement pubblicato sul suo sito. Pazientemente rispondo che, come scritto nelle linee guida (settimo link) non posso pubblicare contenuti duplicati, anche perché Google penalizza i siti che lo fanno. Pubblicare un articolo già presente sul sito di un autore non solo farebbe scendere il traffico sulle pagine di Camera Obscura, ma andrebbe anche contro gli interessi del fotografo stesso.

Un paio di settimane dopo ricevo un articolo di una decina di righe. Per l’ottava volta gli dico di leggersi la pagina delle linee guida, dove spiego che la particolarità di Camera Obscura è pubblicare articoli approfonditi, lunghi almeno 1000 parole. Lo so che la qualità di un articolo non si misura dalla sua lunghezza ma il limite di 1000 parole (simbolico visto che alla fine sono solo un paio di paginette) serve unicamente a filtrare le persone che non il ben minimo interesse per scrivere.

Una volta finalmente ricevuto il testo che soddisfa i criteri per Camera Obscura capita di ricevere file di 400px (nono link per richiedere i file delle dimensioni minime citate nelle linee guida).

Naturalmente soprassiedo su tanti piccoli dettagli, non rompendo mai le scatole a tutti quei fotografi che non rinominano i file come richiesto nelle linee guida, che mi mandano un pdf invece del doc, odt o txt, che inseriscono le immagini nel testo e via dicendo. Eppure sarebbe da dirgli di continuo: RTFM!

Naturalmente questo articolo è una farsa un pò grottesca, ma ogni tanto mi capitano veramente casi disperati come questo. Senza cercare gli estremi, devo comunque ammettere che almeno il 60% delle persone cui chiedo di contribuire a Camera Obscura non leggono le linee guida, e questo nonostante glielo chieda esplicitamente almeno due o tre volte. Ma uno cosa de deve fare di più? Che stratagemma dovrebbe usare per invogliare le persone a leggersi questa benedetta paginetta di istruzioni? Istruzioni scritte per loro, che hanno come scopo principale quello di non far perder tempo a chi scrive un articolo (e solo per consequenza di non farlo perdere anche al sottoscritto). Più che chiederlo 10 volte, come posso fare?

La tentazione c’è, ma per il momento non ho mai risposto con RTFM! Non per considerazioni morali, se non lo faccio è perché so che comunque la gente è talmente pigra che la pagina delle linee guida non la leggerebbe lo stesso.

  1. Da cui la variante di UTFG, ovvero “Use The Fucking Google”.
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Ville Lenkkeri mi salva dal disgusto fotografico /it/2010/ville-lenkkeri/ /it/2010/ville-lenkkeri/#comments Sat, 16 Jan 2010 23:49:55 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=2464
Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Oggi ho rivisitato un bel po’ di esposizioni fotografiche delle gallerie Parigine. Era tanto che non lo facevo, in parte per impegni vari che mi hanno assorbito completamente, in parte per un senso di rigetto nei confronti delle mostre parigine che descriverò nella prima metà di questo articolo. Per cominciare devo dire che ho fatto le cose per bene, basandomi sulla comoda agenda fotografica per gennaio di un fotocultore, e preparandomi una googlemap con tutti i segnaposti, in modo da ottimizzare il percorso. In realtà avevo un obbiettivo in testa, visto che oggi era l’ultimo giorno della mostra di Ville Lenkkeri alla Gallerie Particulière, ma me lo sono lasciato per ultimo, per gustarmelo del tutto.

Sono uscito in perfetto anticipo, ma dimenticandomi l’ombrello. Pessima cosa, visto che, dopo un paio di piacevolissime settimane, Parigi si è scossa di dosso il bel manto di neve che la ricopriva, trasformando il bel freddo pungente nella solita pioggia e grigiore invernale. Devo dire che la pioggia non mi dispiace, ma preferisco la neve dei giorni scorsi, senza contare che è più comodo per fare la spola fra una galleria e l’altra.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Le fotografie proposte nelle prime gallerie che ho visitato oggi andavano dal mediocre al pessimo, tanto per quanto riguarda i contenuti che la realizzazione pratic. Sono quattro i punti ricorrenti su cui a mio vedere viene giù tutto il castello di carte di una fett ben rappresentativa della fotografia contemporanea.

La metà delle opere esposte ripercorrono idee trite e ritrite, che sembra quasi che una grande frazione dei fotografi al mondo non sappia fare niente di nuovo. Non dico che si debba per forza cercare la novità a tutti i costi, ma almeno si eviti di riscodellare esattamente lo stesso lavoro fatto precedentemente da almeno dieci fotografi, spesso più bravi dell’ultimo arrivato.

Gli statment che accompagnano le immagini sono spesso del puro blabla privo di senso, e -ancora peggio- le serie fotografiche sono esse stesse prive di senso, o perlomeno non hanno nessuna solidità. Quando si legge come capita spesso che “l’artista si interroga sul ruolo del corpo e i suoi rapporti con lo spazio, ricreando e trasfigurando la realtà in modo nuovo” e ogni foto della serie non è altro che un primo piano di un (brutto, vecchio e grasso) culo femminile con poggiato fra le mele un sacchetto di plastica, un martello e arnesi simili, viene veramente da chiedersi cosa ci sia di così geniale in tutto ciò, cosa ci sta insegnando il fotografo, cosa stiamo imparando, che senso ha tutto questo, e perché ci si interessa all’arte contempornea.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Molti fotografi fanno un uso smodato di effetti speciali. Sono un grande amante delle manipolazioni e delle trasfigurazioni delle immagini, ma devono avere un senso, essere a servizio dell’immagine. Se gli effetti speciali possono stupire un pubblico inesperto, basta avere un minimo di cultura fotografica per sapere che sviluppare in cross-processing una pellicola o applicare un filtro di Photoshop, se non vi è un fine concettuale o puramente estetico poco importa, di per sé non aggiunge assolutamente alcun valore all’immagine.

Le stampe fanno troppo spesso veramente schifo. Cosa ancor più sorprendente oggi giorno quando le tecniche di stampa digitale attuali permettono di ottenere risultati fantastici con uno sforzo minimo e un investimento contenuto. Nella maggior parte dei casi la colpa è di un ingrandimento eccessivo ( si veda in proposito la critica alla mostra di la Chapelle è la recensione di Paris Photo), quando basterebbe stampare più piccolo o rilavorare l’immagine, o di un uso improprio di Photoshop (fra tutti gli orrori che rientrano in questa categoria, il più ricorrente è un osceno eccesso di sharpen).

Tutto ciò è piuttosto scontato, nel senso che rientrano in queste quattro categorie molti errori che prima o poi hanno fatto un po’ tutti i fotografi, a volte anche in buona fede. Quello che è incredibile però è che nella quasi totalità delle gallerie fotografiche i lavori di qualità siano molto più rari della paccottaglia senza valore, tanto da sentirmi ormai quasi completamente disgustato dalle mostre, dalle esposizioni, dalle gallerie e addirittura dalla fotografia contemporanea. Sintomatico di questo rigetto fotografico il fatto che oggi, se non fosse per le foto di Ville Lenkkeri, l’unico lavoro che mi è veramente piaciuto non è fotografico, ma piuttosto le favolose sculture di Claire Morgan esposte alla Galerie Karsten Greve. Il tutto è ancora più surreale quando se si pensa che di fatto esistono moltissimi fotografi il cui lavoro si posiziona fra un livello più che buono e uno sensazionale sensazionale, tanto e mi chiedo come facciano i galleresti a selezionare tali ignobili schifezze.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Per fortuna, come a Photoquai 2009, ogni tanto ci si imbatte in qualche lavoro fotografico che ribalta completamente lo scenario semidepressivo che ho descritto nella prima metà di questo articolo, ed è il caso appunto di Ville Lenkkeri, la cui mostra alla Gallerie Particulière mi soddisfa completamente su ogni fronte.

A prima vista, prima ancora di sapere di cosa trattano le immagini, si viene subito incantati dalle fotografie stesse. Potrà sembrare banale come affermazione, ma siamo talmente abituati alla fotografia concettuale, alle fotografie che non dicono niente di niente se non si conosce l’idea che gli sta dietro, che ci siamo un po’ dimenticati del piacere di una bella fotografia in sé e di per sé. Nessun effetto speciale, nessuna aggiunta, semplicemente i luoghi, le persone e gli oggetti visti attraverso gli occhi di Ville Lenkkeri. Inquadratura sobria ed elegante, semplice e pulita. Il tutto sta nella bellezza dei paesaggi, nell’espressività dei personaggi, nel sapiente uso da parte del fotografo della paletta dei colori, della luce, degli spazi e dei volumi. In generale non sono un grande amante dei fotografi che usano il grande formato, o questo stile posato, statico e curato di fotografare, per quella che ho chiamato la maledizione di Ansel Adam, ma qui siamo lontani anni luce dalle immagini stereotipate e fini a se stesse, ogni fotografia è una pura e semplice estasi visiva. Senza dimenticare che le stampe, 100x150cm, sono magistralmente realizzate. Insomma, tutto quello che -nonostante come dicevo ce lo siamo un po’ dimenticati- costituisce la fotografia, in una delle sue accezioni più semplici e pure.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Restando su questo piano di pura percezione e piacere visivo, innanzitutto mi piacciono i paesaggi nelle fotografie di Ville Lenkkeri. Anche se siamo nell’altro emisfero, riconosco al primo colpo d’occhio, ed è una delle ragioni per cui sono venuto, la luce particolare dei territori subpolari, la stessa del ricordo indelebile dei miei viaggi in Antartide. Lo stesso cielo, le stesse sensazioni, e per certi versi le stesse montagne e forse la stessa gente. I ritratti li trovo anche loro splendidi, fantastici (nel senso proprio di fantasia) e immaginari. Basta citare la persona nella casa dai muri di bottiglie di vetro, che lasciano filtrare la luce esterna, per capire cosa voglio dire.

In un secondo momento, e solo in un secondo momento, si può andare a leggere la spiegazione della mostra. Si impara allora che Ville Lenkkeri ha scattato le sue foto nelle isole Svalbard, e più in particolare in una remota isolata località di minatori dove non ci sono nemmeno le strade, dettaglio che ha dato il nome allo splendido libro che racconta questa storia: the place with no roads. Queste comunità di minatori si sono formate nel dopoguerra in luoghi talmente isolati, che le compagnie di sfruttamento minerario hanno iniziato a proporre contratti non-stop della durata di due anni. In una situazione di isolamento totale come questa è successo che il denaro ha perso peso e significato: gli operai ricevevano la paga alla fine dei due anni di lavoro, nel frattempo tutto ciò di cui i minatori potessero aver bisogno veniva fornito direttamente dalle compagnie di sfruttamento minerario, che scalavano poi le spese dal totale. Agli occhi di Ville Lenkkeri tutto ciò è parso come la rivelazione di una società utopica e perfetta, una società che non sia inquinata dal denaro, dove tutti sono uguali e le gerarchie sono completamente assenti, dove la gelosia, la discriminazione e il crimine non esistono, dove tutto è basato sull’aiuto reciproco e l’amicizia.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri

Basterebbe quanto appena detto per giustificare completamente il valore concettuale di questa serie di fotografie. Documentare la realtà di un paese ai confini del mondo che si è spinto al di là del socialismo, costituendo una realtà unica al mondo, realizzando un sogno di armonia e pace. Ma non è finita qui. In primo luogo Ville Lenkkeri si interroga esplicitamente sull’oggettività e il ruolo delle proprie fotografie. Quando è arrivato la prima volta sulle isole Svalbard la comunità che fotografa era già quasi completamente in declino, se non del tutto. Come è possibile allora rendere in immagini, oggettivamente e senza snaturarla, una realtà ormai scomparsa? In secondo luogo, Ville Lenkkeri si è reso conto con prepotenza di come è cambiata la sua percezione dei luoghi mano a mano che tornava sull’isola. Se originariamente aveva percepito una comunità idilliaca e felice, durante i suoi viaggi successivi Ville Lenkkeri ha colto una realtà differente: i minatori accettavano contratti di due anni unicamente perché spinti dalla miseria del loro paese d’origine, l’isola era un puro e semplice luogo di lavoro, l’assenza di strade escludeva ogni possibile via d’uscita, la vita quotidiana era scandita dagli incidenti nelle mine e dal rigore delle condizioni climatiche. Qual’è all’ora il peso dei preconcetti e delle illusioni di un fotografo sulla realtà che vorrebbe documentare in modo oggettivo?

Probabilmente Ville Lenkkeri sa bene che la risposta sta nel mezzo, che al mondo esiste tanto l’utopia che la dura realtà, che la vita nelle zone polari è regolata tanto dal calore umano che dal freddo dei venti invernali. Come probabilmente sa bene che la fotografia non è né puramente soggettiva né può raccontare la pura verità, ma è allo stesso tempo documentaria e personale, racconto di un luogo e di come il fotografo l’ha visto e vissuto. A proposito di queste fotografie delle Svalbard però Ville Lenkkeri lascia tutte queste domande aperte e rimane pure un po’ di spazio per la fantasia:

Nella ricerca di qualcosa di inesistente, è la ricerca del sogno che conta.

Questa raccolta di fotografie è un inno a tutti gli stili di vita, ed è dedicata ai sogni.

Questa mostra allora, la voglio ricordare proprio così.

Ville Lenkkeri
© Ville Lenkkeri
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La spettacolarizzazione è molto più importante della verità /it/2009/spettacolarizzazione-verita/ /it/2009/spettacolarizzazione-verita/#comments Sat, 14 Feb 2009 15:42:54 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=1005 Fotomontaggio il Giornale
Fotomontaggio nella fotografia d’informazione.
Il Giornale, 31 dicembre 2008, pagine 8 e 9.

Alcune settimane fa il sito Fotografia e Informazione ha pubblicato l’articolo Fotomontaggi di cronaca, nel quale vengono mostrati due casi di fotomontaggi fotografici pubblicati su il Giornale in accompagnamento a degli articoli sulla guerra in Palestina.

Nell’articolo in questione di Fotografia e Informazione è stato già ampiemente sottolineato come una pratica di questo tipo sia assolutamente poco etica (e aggiungerei vorgognosa) dalla parte di un organo di informazione. Così come l’abitudine di utilizzare immagini e didascalie fuorvianti o poco attinenti con il soggetto dell’articolo, come descritto in dettaglio nell’articolo: La Padania, Libero, Il Giornale: la fotografia al servizio dell’ideologia. Non insisterò quindi su questi punti, rimandando il lettore interessato agli ottimi articoli appena citati.

Vorrei però sviluppare un po’ il discorso per quanto riguarda il tipo di intervento svolto sulle immagini, sullo stile del fotomontaggio e sulle sue ragioni.

La prima cosa che salta subito all’occhio, perlomeno per chi ha un minimo di esperienza di ritocco o che è abituato a guardare attorno a sé, è la cattiva qualità del fotomontaggio stesso. Il cielo blu con l’elicottero è assolutamente irreale e incompatibile con la foto del palazzo. A parte il fatto che non credo che la prospettiva dell’elicottero e della facciata siano completamente compatibili fra di loro, la foto dell’edificio bombardato è stata chiaramente scattata un giorno grigio e velato, non un giorno dal cielo blu e impeccabile. Sull’elicottero la luce proviene dall’angolo in alto a sinistra, mentre nel resto della scena -grazie al cielo coperto- non ci sono praticamente ombre, ma se proprio vogliamo trovare un punto di provenienza della luce è piuttosto l’angolo in basso a destra, esattamente il contrario dell’elicottero. Per fare un lavoro più credibile sarebbe bastato giocare con i livelli in modo da addolcire i contrasti dell’elicottero, schiarendo e desaturarando il cielo per conciliarlo cromaticamente con la foto del palazzo. Aggiungendo poi un leggero gradiente verticale, come spiegato nell’articolo Scurire il cielo in modo naturale, l’effetto sarebbe stato infinitamente più gradevole e credibile. Fra l’altro, bonus aggiuntivo, sarebbe stato più rapido e facile scontornare la facciata dell’immobile, perlomeno nella parte bassa di questo.

giornale_fotomontaggio
Fotomontaggio nella fotografia d’informazione.
Il Giornale, 5 gennaio 2009, pagine 2 e 3.

Anche nel caso della seconda foto, quella del militare steso a terra, la qualità del fotomontaggio è pessima, lo scontorno del soldato è rigido e più che evidente, come se si fosse ritagliata una foto da una rivista con un paio di forbici; e ancora una volta sono presenti evidenti incompatibilità di cromia, luce e prospettiva fra le diverse fotografie che compongono il fotomontaggio.

Certo, si può obiettare che lo scopo de il Giornale, non era quello di nascondere il fotomontaggio, ma se così fosse, perché non l’hanno dichiarato chiaro e tondo nelle didascalie? Perché lasciare l’ambiguità quando in generale si presuppone che un quotidiano si dedichi all’informazione e non ai collage artistici? La ragione della scelta redazionale è probabilmente quella citata nell’articolo di Fotografia e Informazione, il voler creare un’immagine di impatto che descriva una situazione di pericolo, un paese dove i razzi partono senza tregua dai palazzi bombardati, un paese dove il terrore è continuo e opprimente. Poco importa se nessuna immagine “vera” lo descriva, basta farla con forbici e colla. Strumenti però usati indubbiamente con poca maestria.

Al di là della considerazione tecnica, che può interessare soprattutto gli addetti ai lavori, quello che è più interessante analizzare è lo stile dei fotomontaggi. In entrambi i casi, oltre -come si è detto- al tentativo di far passare la sensazione di una situazione d’allerta, di essere sotto il lancio perpetuo dei missili, è presente un evidente intento di spettacolarizzazione della guerra. L’elicottero e i missili. Il cielo blu. I contrasti forti. A vedere il soldato che striscia a terra sembra quasi di sentire il rombo assordante delle pale degli elicotteri e i boati dei missili. E aggiungerei pure una bella musica hardcore sparata al massimo volume, come quella che fanno ascoltare ai soldati americani in Iraq. Sembra di vedere un videogioco dove la guerra è nient’altro che una figata, uno spot pubblicitario per far reclute che mostra la vita dei militari come una missione appassionante e umanitaria “vedrai il mondo! imparerai le lingue straniere!”, sembra di essere di fronte ad un pessimo film americano dove un’unico eroe con un’unica pistola riesce da solo a uccidere tutte le decine di nemici che gli si oppongono, uno dopo l’altro, senza dover mai ricaricare.

Associated Press
Le fotografie originali
© Associated Press

Questo tentativo di far passare la guerra come una cosa spettacolare, addirittura dove non è possibile concepire un giorno nuvoloso, ma brilla sempre il sole nel cielo azzurro e puro, è a mio avviso ancora più inquietante e grave del fatto stesso che sia stato pubblicato un fotomontaggio su di un quotidiano. Non solo non bisogna “offendere” i lettori con immagini dure come quelle dell’articolo Adriano Sofri: scegliere di aprire gli occhi alla realtà, bisogna anche trasformare un conflitto in un pessimo videogame, in uno spot pubblicitario.

La fotografia d’informazione dovrebbe servire appunto ad informare sui fatti. Questo reinventare la realtà per renderla spettacolare non fa che convincermi sempre di più che l’idea della dittatura dello spettacolo sia veramente fondata. Quello che forse fa più paura però è il fatto che si tratti comunque di un giornale “importante”. Nei dati Audipress infatti il Giornale si piazza genere fra i primi 20 quotidiani più letti in Italia, e -se si eliminano i giornali sportivi e le pubblicazioni gratuite tipo quelle offerte nei metrò- il Giornale si avvicina addirittura ai primi 10 quotidiani più letti in Italia.

Come è possibile che tutti questi lettori si bevano senza indignarsi questa spazzatura visiva? Al di là delle idee politiche, se anche fossi lontanamente d’accordo con la linea di pensiero che sta dietro a il Giornale, se il mio quotidiano mi servisse per ben due volte un così rozzo e mal realizzato tentativo di reinventare la realtà non andrei mai più in edicola a comprarlo. Come è possibile che le centinaia di migliaia di persone che lo leggono tutti i giorni lascino passare bassezze come questa? Ma forse non c’è molto da stupirsi, da un paese dove il quotidiano in assoluto più letto, e con ampissimo margine di vantaggio sugli altri è proprio la Gazzetta dello Sport…

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Il perbenismo sessuale delle allusioni politicamente corrette /it/2009/fotografia-allusioni-sessuali/ /it/2009/fotografia-allusioni-sessuali/#comments Fri, 30 Jan 2009 22:30:38 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=980 Corona
Pubblicità Corona
© Anonimo

Nell’articolo recentemente pubblicato Pornografia e sesso esplicito: l’autonegazione dell’arte contemporanea, abbiamo visto come numerosi fotografi e artisti contemporanei, nonostante abbiano messo il sesso e la rappresentazione di questo direttamente al centro del loro lavoro, in un certo modo si autocensurano, ricorrendo a diversi espedienti fotografici, come la posa lunga, il mosso, lo sfuocato o addirittura eliminando direttamente dall’immagine i corpi e l’atto sessuale stesso.

Vedendo queste serie di fotografie si ha come l’impressione che un lavoro sul sesso -per qualche ragione- sembra non possa essere altro che allusivo, come se fosse necessario eliminare ogni traccia residua di pornografia o di rappresentazione diretta dell’unione dei sessi. Sembra quasi che l’unica possibilità per parlare di sesso sia farlo unicamente per parafrasi, nascondendo il viso dietro la mano, arrossendo di pudore, come se fossimo ancora alla bigotta epoca della riforma luterana. In un articolo futuro vedremo in dettaglio che non è sempre questa la situazione nel mondo della fotografia d’arte, ma abbiamo visto che è comunque significativo il numero di lavori che si vedono per gallerie e musei in cui il tema centrale dovrebbe essere il sesso, ma se ne fa unicamente allusione implicita.

Che la pornografia e il sesso in generale siano soggetti demonizzati, scomodi e imbarazzanti non è una novità.

Woodstock
Woodstock
© Anonimo

Si potrebbe credere ingenuamente che dopo la rivoluzione sessuale ognuno ormai sia libero di vivere la sessualità come preferisce, che i comportamenti e i costumi si siano completamente aperti e rilassati. Non ho direttamente vissuto il decennio a cavallo del ’68, ma dai film, i libri, e le testimonianze di allora, mi pare si possa dire chiaramente che oggi siamo veramente lontani da ciò che ci si poteva attendere da questo periodo dai mille ideali. Quello che si è liberalizzato è forse una certa accettazione del fatto che il sesso esista, che tutti lo pratichino e che se ne possa parlare, anche pubblicamente. Ma mi pare che invece di distruggere di netto la moralità piccolo borghese in realtà si siano solo riscritti in modo diverso i codici morali, le barriere del pudore, le traiettorie pretracciate di ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Come se in un’ipotetica rivoluzione ci si volesse sbarazzare delle proprie uniformi, privarsi del lusso dei vestiti per tornare ad una presunta purezza primitiva, ma invece di buttare i vestiti alle ortiche compiendo una vera rivoluzione nella sostanza delle cose, si passasse unicamente per il superficiale, si finisse per cambiare i pantaloni di velluto con i jeans, la camicia con una felpa, le cravatte con i foulard, ma senza abbandonare i vestiti, ciò che si voleva distruggere. Certo, visivamente qualcosa è cambiato, ma di fatto nessuno va in giro nudo. Al di l dell’esempio e tornando alla rivoluzione sessuale, alla fine, nel concreto, i costumi sessuali non sembrano oggi così liberi come ci si sarebbe potuti aspettare dopo la rivoluzione sessuale. Senza considerare poi che purtroppo dopo ogni rivoluzione c’è una restaurazione, è ho avuto la sfortuna di nascere in questa piuttosto che nella prima, oggi si parla forse più di sesso che allora, ma lo si pratica meno e con meno libertà, come dicono le statistiche che non fanno che confermare le esperienze dirette delle persone che mi circondano. Non dico che gli anni sessanta non siano serviti a niente, ma che l’apertura che si poteva auspicare non è arrivata con l’ampiezza che ci si poteva attendere.

Japanese AV
La censura nel porno giapponese
© Anonimo

Per fare un altro esempio di come di fatto la libertà sessuale sia limitata, si sente sempre più spesso dire in giro che siamo bombardati da sempre più abbondanti immagini sessuali, nella pubblicità, nei film, nelle canzoni. Anche questa affermazione mi sembra almeno in parte incorretta. Non siamo bombardati da immagini sessuali, ma soprattutto da allusioni di queste. Allusioni più o meno esplicite certo, ma sempre ben nei limiti del politicamente corretto, del socialmente approvato, dell’eticamente accettabile. Nei film che passano alla televisione sembra ci debba praticamente sempre essere una scena d’amore, ma queste sono quasi sempre estremamente codificate. Si allude all’amplesso, si mostrano i corpi, ma con certe regole ben precise: le gambe, i seni il fondo schiena sono accettati, ma il vello pubico è rarissimo, un membro maschile ancora più raro, in erezione un vero tabu. A scanso di equivoci vorrei sottolineare ancora una volta che non sto portando nessun giudizio di valore, dire che questo atteggiamento sia corretto o sbagliato, semplicemente mi limito a constatare che nel cinema, come nella maggior parte degli altri media espressivi, per quanto riguarda la sessualità in realtà ci si muove all’interno di regole ben precise, regole che mi fanno un po’ sorridere come le censure pixellate dei film AV giapponesi, prassi che possono essere banalizzate in un “se ne parla, si allude apertamente, ma non si mostra niente che sia sconveniente”. Pratica che è esattamente analoga a quella degli gli artisti citati nell’articolo precedente. Naturalmente esistono le eccezioni, per rimanere in ambito cinematografico basta pensare ai film di Catherine Breillat, oppure a Baise moi, 9 songs o lo splendido Ken Park giusto per citarne qualcuno. Ma si tratta appunto di eccezioni, e per di più spesso relegate ad un pubblico piuttosto colto e ristretto.

Pane erezione
Pane in erezione
© Anonimo

Perché la rivoluzione sessuale sembra aver solo riscritto i codici sessuali invece di liberarli come ci si poteva aspettare? Perché oggi la sessualità sembra essere completamente soggiogata all’illusione allusiva controllata dal politicamente corretto?

Cercare di rispondere a queste due domande è forse possibile, ma sicuramente esula dagli scopi di un blog dedicato alla fotografia. Anche una domanda più vicina agli scopi di Camera Obscura, perché nel mondo della fotografia la rappresentazione esplicita della sessualità è spesso negata, è di difficile risposta, perché probabilmente la fotografia riflette mentalità e concezioni di un contesto più ampio, quindi si torna alla domanda troppo lontana dalla fotografia del paragrafo precedente. Nonostante questo, è comunque possibile tirare qualche elemento preliminare che delucidi almeno in parte la situazione.

Una prima considerazione, che può sembrare quasi banale, è che i fotografi e in generale gli artisti, non sono un gruppo umano sconnesso dal resto dell’umanità, che agisce come preferisce senza badare in alcun modo ai giudizi del resto dell’umanità. È vero che gli artisti spesso rappresentano linee di fuga che spingono verso nuove concezioni e rappresentazione del mondo come della morale, rappresentano spesso la frangia più libera e rivoluzionaria della società. Però è anche vero che sono esseri umani e cittadini come tutti gli altri, quindi non possono essere concepiti come un’entità mentale completamente a se stante. Da un lato sono comunque cresciuti all’interno di schemi educativi ben definiti, e per quanto le idee di un artista possano essere in antitesi con la mentalità dominante della società a cui appartiene, rimane comunque un imprinting generale, una sorta di tela di fondo determinata dalla società di provenienza e appartenenza. Dall’altro lato, più banalmente, la produzione artistica -concretamente- è un delicato equilibrio fra ispirazione personale e commercio di un prodotto. Il successo materiale di un artista dipende principalmente dai collezionisti e dal mercato dell’arte. Le opere controverse e scandalose possono comunque avere un loro giro di vndite -anzi, in certi casi è proprio la natura provocatoria di un’opera d’arte a determinarne il successo-, ma è comunque fondamentale muoversi all’interno di un quadro definito e determinato, nella sua complessità anche antitetica, dalla società stessa.

Un esempio un po’ eccessivo e provocatorio che però permette di illustrare cosa intendo potrebbe essere il seguente.

Witkin
Il bacio
© Joel-Peter Witkin

Molte persone trovano scandalose e offensive le fotografie di cadaveri di Witkin, però queste conoscono un grande successo anche -oltre all’indubbia qualità intrinseca delle foto e della visione estetica di Witkin- grazie al loro carattere macabro e morboso. Questa caratteristica infatti, almeno in un determinato circolo sociale in cui la ricerca visiva di Witkin è accettata, conferisce quasi una sorta di valore aggiunto alla fotografia. Se però un fotografo decidesse di “lavorare” non sui cadaveri, ma per dire sui sacrifici umani, commettendo omicidi per realizzare le sue fotografie, verrebbe giustamente imprigionato a vita invece di vedere il proprio nome consacrato dai musei di arte contemporanea di tutto il mondo.

L’esempio difetta in un paio di punti: nel fatto che Witkin, a differenza dei fotografi citati, è estremamente più provocatorio ed estremo, e soprattutto nel fatto che nell’esempio si parla di assassinii, mentre il sesso per fortuna non fa male a nessuno. Nonostante si tratti quindi di un esempio spinto ai limiti del grottesco, credo illustri bene la dinamica riassumibile nel “fare scandalo accettabile”. Insomma, è possibile fare scandalo, ma sempre muovendosi all’interno di uno “scandalo accettabile”, che è un po’ quello che fanno i fotografi dell’articolo precedente: fotografano un tema provocatorio e quasi tabu, ma autocensurandosi per moderare la provocazione entro i limiti del politicamente corretto.

Per concludere ripeto per l’ennesima volta che non c’è nessun intento da parte mia di denigrare il lavoro dei fotografi suddetti, mi limito a constatare una situazione diffusa. Nel prossimo articolo vedremo come di fatto in molti casi la società ha cercato di “punire” chi ha cercato di allontanarsi da ciò che la società stessa considerava eticamente corretto, anche se di fatto i soggetti erano assolutamente non pornografici e a volte nemmeno erotici.

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I capodogli e la mancanza di contenuto nell’informazione italiana /it/2009/mancanza-contenuto-informazione/ /it/2009/mancanza-contenuto-informazione/#comments Fri, 23 Jan 2009 17:20:03 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=965 repubblica
© AFP?

Praticamente tutti i giorni do un’occhiata a due siti di giornali: repubblica.it e le monde.

Non mi piace molto fare paragoni, ma quasi ogni volta non posso fare a meno di notare la differenza fra i due quotidiani online. Su repubblica.it, nonostante non manchino alcuni -relativamente rari- buoni articoli, abbonda il pettegolezzo, la foto del calendario con la bella svestita di turno, la cronaca degli stupri, video della polizia americana che insegue delinquenti in autostrada con cinquanta auto e tre elicotteri, tormentoni del web di gaf e scivoloni, ripetute accuse contro la presenza di extracomunitari in Italia.

Quest’ultimo punto è uno di quelli che mi sorprende di più rispetto per esempio a le Monde, dove la demonizzazione degli immigrati è praticamente assente. Forse in Francia l’integrazione è migliore, i controlli e le leggi più efficaci, la gente più abituata agli stranieri o forse semplicemente gli italiani sono diventati mediamente più razzisti dei loro cugini d’oltralpe. È un punto delicato da trattare e non è questo il luogo adatto, quindi dopo aver gettato il sasso nello stagno glisso direttamente sul tema dell’articolo di oggi.

Questa mattina su repubblica.it leggo la notizia: “Australia, strage di capodogli”. Clicco sul link e non c’è nessun articolo, solo quattro foto, un video e questa didascalia:

Ancora esemplari di capodogli spiaggiati sulle coste australiane. Secondo le prime ricostruzioni sarebbero almeno una quarantina i cetacei arenati sulla spiaggia di Tasmania. Nonostante l’immediato intervento di soccorsi, soltanto due esemplari sono riusciti a salvarsi.

Sono abbastanza frustrato, perché mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più, un riassunto dei precedenti cui si allude con quel “ancora”, un’ipotesi sulle ragioni che hanno portato tutti questi cetacei a morire ed arenarsi sulla spiaggia, quali conseguenze avrà questo fatto, cosa intende fare il governo australiano o la comunità scientifica, qual’è il messaggio che devono trarne i lettori. Perché i capodogli sono morti? L’inquinamento? Pesca illegale? Un fenomeno naturale? Le correnti? Sono abbastanza frustrato perché una citazione lapidaria come questa di fatto non mi porta nessuna informazione, nessuna conoscenza. Se non ho una minima idea del contesto, delle ragioni, delle conseguenze che questo fatto di cronaca può avere, a parte la compassione per le balene, cosa cambia sapere che è avvenuto? L’unica cosa che conta è solo la notizia aneddotica?

Il video non è da meglio, si vedono i corpi arenati sulla spiaggia, qualche capodoglio che ancora si muove, in agonia, e i soccorritori che cercano di bagnarli, ma nessuna informazione, nessuna voce fuori campo che spiega l’accaduto. Guardo allora le immagini. Sono quattro fotografie. La terza è praticamente uguale alla seconda. Vedo la quarta, mi pare che assomigli alla prima, la riguardo, ed effettivamente è praticamente la stessa. La terza e la quarta foto sono esattamente gli stessi scatti della prima e seconda immagine, semplicemente sono stati tagliati e leggermente ritoccati, aumentando un po’ contrasto e saturazione. Mi chiedo che senso abbia fare una cosa del genere. Non sono contrario, se non è fatto in mala fede e non modifica il messaggio dell’immagine, ad un leggero ritocco nella fotografia di informazione, per renderla esteticamente più piacevole e parlante. Ma che senso ha presentare insieme il file prima e dopo il ritocco? A cosa serve? A riempire spazio? Dal punto di vista dell’informazione, una fotografia deve servire a completare un testo scritto, una notizia, un evento. A che pro pubblicare due volte le stesse immagini? Ancora una volta, una prassi che mi pare non faccia altro che impoverire il contenuto informativo. Forse invece di ritoccare la foto sarebbe stato preferibile scrivere 20 righe d’articolo.

Repubblica

Fra l’altro purtroppo non si tratta solo dei capodogli, in moltissime gallerie che ho visto su repubblica.it veramente spesso le foto sono ripetute fra loro, scodellando ripetutamente lo stesso file o pubblicando immagini scattate in sequenza praticamente dallo stesso punto e dello stesso soggetto. Quando si vuole mostrare una sequenza dei fatti che succedono rapidamente ha senso, ma in generale non è il caso per le gallerie di repubblica.it, si tratta proprio di file messi online come se non ci fosse stata nessuna selezione e nessun lavoro di editing.

Quando ho salvato le foto per accompagnare questo articolo mi sono reso contro di un altro fatto che mi ha lasciato interdetto. Ho salvato le due versioni della stessa immagine e nel nome del file una viene identificata come una foto della Reuters e l’altra de l’Agence France Press. Possibile che due agenzie posseggano la stessa foto, una ritoccata e l’altra il file bruto? O è repubblica.it che ha fatto confusione e in uno dei due casi ha citato una fonte per l’altra? Purtroppo non lo potrò sapere, perché repubblica.it non cita praticamente mai il fotografo e l’agenzia delle immagini che vengono pubblicate sul sito. Un altro bell’esempio di quello che non posso fare a meno di definire malcostume italiano, inutile dire infatti che su le Monde di solito è sempre presente una didascalia che descrive precisamente l’immagine, la localizza geograficamente, la data, cita l’agenzia e il fotografo che l’ha scattata.

Per concludere non mi resta che citare quello che ha detto Sandro Iovine nel titolo di un articolo analogo a questo: Italia-Francia 0 a 2 in comunicazione visiva.

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Pornografia e sesso esplicito: l’autonegazione dell’arte contemporanea /it/2009/arte-pornografia-sesso/ /it/2009/arte-pornografia-sesso/#comments Fri, 09 Jan 2009 15:54:08 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=825 Michaël David André

Nell’articolo su Paris Photo ho già accennato ai rapporti fra sesso/pornografia e fotografia artistica contemporanea. È un argomento interessante, che può essere articolato in vari modi. Da una parte la censura tipo quella cui è stato recentemente sottoposto Bill Henson, dall’altra una forma invece di autocensura un po’ perbenista che si autoimpongono molti fotografi/artisti contemporanei che lavorano sul sesso, o infine i lavori che invece non temono di essere espliciti come quelli di Andres Serrano o Terry Richardson. Piuttosto che fare di tutta l’erba un fascio, scrivendo l’articolo mi sono reso conto che è meglio fare una mini serie di articoli indipendenti.

Quello di oggi è dedicato alla forma di autocensura cui ho appena accennato. Per mettere subito le cose in chiaro sottolineo che non voglio fare nessuna schematizzazione dicendo che tutta la fotografia erotica corrisponde a quanto scrivo. Mi limito solo a rilevare un andamento, che mi pare ben evidente, una prassi seguita da un numero relativamente elevato di fotografi/artisti. E perché tutto sia chiaro sottolineo anche che mi riferisco alla fotografia artistica, dove intendo quella che viene esposta e venduta nelle gallerie e nelle fiere d’arte contemporanea. Fotografia prevalentemente concettuale e intellettuale, sullo stile, per intendersi, di quella che si vede sui blog Hippolyte Bayard o Conscientious. Molti altri fotografi trattano temi erotici, spesso con grande maestria e valore artistico, ma -in una formalizzazione delle categorie fotografiche piuttosto accettata- sono di solito classificati più nella fotografia commerciale e editoriale, glamour/erotica, o come dir si voglia.

La tesi di questo articolo è che esiste una corrente ben nutrita di artisti che fanno fotografia fine-art che, seppur lavorando direttamente sul tema della pornografia e del sesso, finiscono in qualche modo per autocensurarsi, per rendere implicito il sesso esplicito. E la fanno spesso utilizzando espedienti stilistici simili a quelli di cui ho parlato recentemente in La Cina di Yann layma. È stato un presentimento che ho sempre avuto, ma per esempio a Paris Photo 2008 l’impressione è diventata molto più forte. I fotografi che conosco che possono esser raggruppati sotto questo tratto comune sono già relativamente numerosi, ma sarei pronto a scommettere che nei prossimi mesi ne vedrò molti altri che corrispondono a questo profilo.

Nell’articolo su Paris Photo citato poco sopra avevamo già parlato dei fotografi Atta Kim, e Frédéric Delangle e dei loro lavori sul sesso, ottenuti sovrapponendo diversi scatti indipendenti per quanto riguarda il primo, e lasciando l’otturatore aperto per lunghi periodi per il secondo, ma in entrambi i casi avendo come risultato di sfocare e stemperare le immagini fino a renderle irriconoscibili, fino ad eliminare ogni traccia evidente di sessualità. Certo, si riesce ancora ad intuire la struttura dei corpi, una gamba nuda, un braccio, ma al contrario nemmeno l’ombra di un seno o dei sessi dei protagonisti dell’amplesso, dettagli dell’immagine completamente cancellati, o se vogliamo censurati, dal particolare procedimento tecnico seguito dai due fotografi.

Quanto detto è particolarmente vero per quanto riguarda le fotografie Coito di Frédéric Delangle, dove i corpi diventano una nube evanescente di luce, dove sul supporto sensibile alla fine rimane solo l’unione dei corpi, mentre questi spariscono, si fondono, vengono meno, che alla fine è una bella immagine vivida e rappresentativa dei rapporti sessuali. I lavori di questi due fotografi mi piacciono molto, tanto per l’idea che c’è dietro, che per la realizzazione e le immagini che esteticamente trovo particolarmente piacevoli. In questo articolo il focus non è tanto sulla qualità delle opere fotografiche, ma sul fatto che nei lavori che dovrebbero rappresentare il sesso esplicito in generale si fa di tutto per nasconderlo, per renderlo solo intuibile. Senza che questo esprima per forza una scala di giudizio, è solo una constatazione che vuole esser fonte di riflessioni.

Un altro fotografo di cui amo particolarmente il lavoro e che ricorre ad espedienti simili è Michaël David André. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione esplicita di un rapporto sessuale, e anche questa volta tramite il flou si nascondono i dettagli dei corpi e dell’atto stesso. Invece di sfruttare il tempo di posa o la sovrapposizione delle immagini Michaël David André utilizza delle deformazioni ottiche, utilizzando un sistema di lenti che ha messo personalmente a punto. Il risultato personalmente lo trovo splendido, onirico, sognante, a tratti inquietante, fantasioso e veramente solido. Sul suo sito le immagini sono molto numerose e una buona decina sono veramente splendide, attenta visita caldamente consigliata. Lo Insisto sul mio apprezzamento delle foto di Michaël David André perché come prima non discuto la qualità delle immagini, ma il fatto che una serie di fotografie dedicata al sesso non mostri di fatto niente di questo, se non stimolare l’immaginazione dello spettatore.

Thomas Ruff, uno degli artisti contemporanei tedeschi più influenti, ha anche lui lavorato sul sesso, anche lui utilizzando immagini esplicite e sfumandone i dettagli fino a renderli irriconoscibili. In pratica Thomas Ruff ha scaricato dai sito porno su Internet delle miniature di fotografie che rappresentano esplicitamente rapporti sessuali. Ingrandendole poi a dismisura ha creato immagini in cui si riesce sempre ad intuire l’atto sessuale, ma i dettagli dell’amplesso sono completamente sfumati, con il contraddittorio risultato già descritto di alludere esplicitamente il sesso evitando accuratamente di farlo esplicitamente.

Thomas Ruff
© Thomas Ruff

Dal punto di vista concettuale il lavoro di Thomas Ruff è estremamente interessante e se ne potrebbe parlare per ore. Partendo dal rapporto fra il mondo reale e l’universo parallelo rappresentato da internet, passando per l’uso di immagini di terzi come se fosse il materiale grezzo di uno scultore, il blocco di marmo ancora da scavare, per arrivare poi alla decostruzione ricostruzione dell’immagine. Dal punto di vista estetico invece non sono un amante di questo genere di lavori. Intellettualmente mi sento solleticato e ammiro l’idea, ma non comprerei mai per appenderla in casa quella che ai miei occhi non è altro che una brutta foto pornografica, fra l’altro pure sfuocata. In questo preferisco infinitamente le fotografie di Atta Kim, Frédéric Delangle e Michaël David André, che, ad averlo, comprerei e appenderei volentieri sulle pareti di un bel loft di 1000 metri quadrati. Nei loro casi il risultato sono immagini poetiche e sognanti, che, seppure ne velano i dettagli, comunque rappresentano in modo vivido il sesso e certe emozioni che lo accompagnano. Sulle foto di Thomas Ruff, al di la della bella idea, per quanto riguarda la forma continua ad aleggiare l’impressione di pornografia masturbatoria da quattro soldi.

Un altro famoso artista concettuale (suoi sono per esempio i controversi maiali tatuati) che fa uso della fotografia ma che non è possibile qualificare come fotografo è Wim Delvoye. Fra i suoi tanti lavori ce ne è anche uno dedicato al sesso: sexrays. Wim Delvoye ha infatti chiesto ai suoi amici di ingerire oppure, secondo le fonti, di spalmare sul proprio corpo una piccola quantità di bario e poi avere rapporti sessuali in modo da scattare delle fotografie ai raggi x del coito.

Rispetto alle fotografie descritte precedentemente il risultato è certamente più esplicito, visto che in alcune immagini, oltre alle ossa che sono ben visibili, rimane anche una traccia della carne, è possibile riconoscere chiaramente il profilo di un pene, la lingua dei partner, il bordo della pelle. Nonostante questo, l’astrazione rispetto alla realtà, ad una rappresentazione diretta del sesso è innegabile. Quello che si vede sono non è un atto pornografico fra due persone, ma dei teschi che si abbracciano, dei crani intenti in una fellatio inquietante e disumanizzata, un bacio d’avorio scambiato fra denti, mandibole e mascelle. Sembrano quasi più immagini medicali che fotografie erotiche. C’è un famoso test psicologico di un’immagine di donne nude che può essere letta come dei delfini che nuotano in mare. La maggior parte degli adulti riconosce il nudo, mentre i bambini vedono solo i delfini. Sono sicuro che, nonostante le foto di Wim Delvoye siano comunque esplicite, la maggior parte dei bambini vedrebbe solo i teschi e non il sesso.

Edouard Levé
© Edouard Levé

Un fotografo invece che lavora anche lui sul sesso, ma che di questo non mostra assolutamente niente di niente, nemmeno cancellandolo perché di fatto il rapporto non ha nemmeno avuto luogo, è Edouard Levé. Nelle sue fotografie infatti due partner di mezza età, o più spesso gruppi più numerosi di persone, mettono in scena degli atti sessuali totalmente simulati. Completamente simulati perché questi uomini e donne dai volti impassibili e inespressivi, non hanno nemmeno levato i loro vestiti. Le immagini sono di una freddezza totale e asettica, nessuna traccia di emozione o di eccitazione, solo persone come gusci che mimano qualcosa che non c’è. Sono fotografie tristi, perfase forse di quella tristezza che ha l’anno scorso ha portato Edouard Levé a togliersi la vita, subito dopo aver consegnato al suo editore la copia definitiva del suo nuovo libro intitolato appunto “Suicidio”. Fotografie depresse e esteticamente senza nessuna concessione.

A conseguenze simili a quelle di Edouard Levé arriva Benjamin Deroche. Ancora una volta un lavoro che sarebbe sul sesso e il bondage, con un chiarissimo e esplicito richiamo alle fotografie di Araki. Questa volta però non sono le bellissime giapponesi delle fotografie di Araki ad avere la pelle sciupata dalle corde che ne stritola i seni e le cosce, non sono le ragazze orientali piene di grazia ad essere sospese nell’aria, ma dei galletti pronti per essere arrostiti. Come negli altri casi il richiamo sessuale è perfettamente esplicito, ma la sua rappresentazione diretta è completamente assente, tanto ad arrivare ad una sorta di forma di pareidolia visiva. Il sesso di fatto non c’è ma si finisce per vederlo lo stesso. Quando guardo i polli di Benjamin Deroche infatti quello che vedo non sono le carcasse degli animali, ma le splendide fanciulle dagli occhi a mandarla così ben fotografate da Araki, sospese per aria, nella loro elegante danza feticista e sadomaso.

John Haddock
© John Haddock

L’eliminazione formale della pornografia dalle immagini che gli sono dedicate è infine spinta al parossismo da John Haddock. Ancora una volta si tratta di foto porno prese da internet, questa volta però i corpi non vengono sfumati in maniera da nascondere le parti genitali e l’amplesso dei protagonisti, questi vengono direttamente cancellati dalla fotografia con Photoshop. Quello che rimane è una specie di fossile ambientale, come se nella stanza fosse rimasto solo l’odore del sesso dopo che ognuno se ne è andato per la sua strada. Come se da una scena di un delitto venisse volatilizzato il cadavere e tutte le prove venissero pulite, lasciando comunque evidente l’intento di cancellare le proprie tracce, proprio come nella serie di John Haddock.

Un lavoro molto simile è quello di Brandt Botes. Anche lui scarica fotografie pornografiche su internet e anche lui ne fa sparire i corpi. Questa volta però, invece di cancellarli con il timbro clone, li ritaglia, lasciando delle silouette bianche sull’immagine. Stesso discorso valido per tutti gli altri artisti presentati in questa rapida carrellata: allusione estremamente presente al sesso, ma eliminandolo del tutto dall’opera. Possibile però che tutti quanti scarichino foto da internet, facciano sparire la pornografia e dichiarano che è arte?

Brandt Botes
© Brandt Botes

In questa veloce panoramica di autori è evidente come, nella fotografia artistica contemporanea sia presente un folta schiera di autori che lavora sui temi della sessualità e della pornografia, ma negandoli formalmente, lasciandoli solo intuire. Molti altri fotografi e artisti danno del sesso una rappresentazione esplicita e diretta, come vedremo nei prossimi articoli, ma ho l’impressione che per quanto riguarda la fotografia fin-art attuale l’atteggiamento descritto in questo articolo sia dominante.

Resta da rispondere ai perché. Quali sono le motivazioni che hanno portato a questo stato di cose? Perché sembra che fotografia d’arte e pornografia oggi fatichino ad andare a braccetto? Nascondere l’atto sessuale è un modo per rendere le immagini più accettabili ai galleristi e al pubblico? Si tratta di un tentativo di rendere le opere più politicamente corrette oppure di fatto la rappresentazione esplicita del sesso non era nelle intenzioni degli autori?

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Leggendo un’intervista a Sandro Iovine /it/2008/intervista-sandro-iovine/ /it/2008/intervista-sandro-iovine/#comments Sat, 01 Nov 2008 21:13:21 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=641 Qualche giorno fa Max Boschini ha pubblicato per Design Radar un’intervista a Sandro Iovine. Personalmente direi che Sandro Iovine è uno degli autori più interessanti e autorevoli in lingua italiana che tratti di fotografia sul web, quindi ho letto con attenzione e interesse l’intervista, come a suo tempo mi godetti con gran piacere l’intervista video rilasciata a ideebn (in tre parti), di cui si è già parlato nell’articolo Fumo nero sull’Iraq.

Ho scritto più volte a proposito di Camera Obscura che non mi piace limitarmi a un social blog, come ormai sembra andare sempre più di moda. Ovvero un contenitore che si limita a raccogliere e citare link a portfogli, articoli e risorse online. Mi piace generare contenuto, quindi ne approfitto per ripercorrere velocemente le tappe dell’intervista, estraendo alcune frasi che mi sembrano più significative, e discutere certi punti che trovo particolarmente interessanti o che al contrario non condivido.

L’intervista a Sandro Iovine parte subito con un punto che mi è particolarmente caro, come dovrebbe essere evidente per chiunque abbia letto fotografia e verità: la puntualizzazione di come sia fondamentale conoscere e distinguere la destinazione d’uso di un’immagine e che la fotografia, utilizzata in ambito giornalistico, è di fatto un messaggio codificato, impossibile da leggere se non se ne conosce il linguaggio (e spesso se non è accompagnata da una legenda). Dal ragionamento poi segue la critica, che condivido pienamente, alla fotografia come portatrice automatica di verità:

Un grande equivoco, che ricorre intorno alla fotografia, vuole che in virtù della sua riproducibilità meccanica essa sia latrice di una verità e di riconoscibilità del soggetto raffigurato sufficienti di per se a renderne comprensibile universalmente il significato.

Sandro Iovine

Sempre completamente condivisa è la discussione che segue sul Papa e la Chiesa, argomento che esula dalla fotografia ma di cui Sandro Iovine discute con equilibrio e fermezza. Analogamente interessante la spiegazione, già presente nell’intervista video fatta da ideebn, del perché le riviste di settore presentino quasi unicamente fotografie tranquillizzanti e neutre. Con la consequenza, e questo lo dico io, di non mostrare mai la fotografia vera che si fa oggi, essere pervase da un senso di noia e già visto infinito, non insegnare praticamente niente di utile e quindi, da parte mia, il boicottaggio quasi completo delle riviste cartacee di fotografia. Molto meglio andare per mostre e esposizioni, o in giro a fare foto.

Nell’intervista segue una citazione gustosa, per me che sono un po’ in conflitto con la figura e l’insegnamento di uno dei più noti fotografi italiani:

Gianni Berengo Gardin, onesto artigiano della fotografia ingiustamente accusato da molti di essere un Maestro.

Sandor Iovine

Ecco poi subito di seguito il solito attacco ai tempi moderni, e alla mancanza di educazione all’immagine in Italia:

Manca, soprattutto nel nostro Paese, il concetto stesso di cultura delle immagini. Se qualcuno in Italia riceve dei rudimenti di lettura delle immagini all’interno della scuola dell’obbligo può considerarsi un unto del Signore. Mancano strutture universitarie che prendano in considerazione la fotografia come possibile e reale materia di analisi e non solo come uno strumento di rilevazione sul campo.

Sandro Iovine

Non me la sento di stroncare questa affermazione, perché purtroppo c’è comunque del vero. Però la vorrei in un certo senso ridimensionare.

In primo luogo vorrei, a costo di ripetermi, consigliare la lettura dei “I Barbari” di Alessandro Baricco. Sandro Iovine, da quello che si capisce leggendo il suo blog e questa intervista, o come appare chiarissimamente dalla sua prosa, caratterizzata da quel gusto della parola e della citazione che marchia inconfondibilmente tantissime persone che escono dal liceo classico, Sandro Iovine dicevo, utilizzando il vocabolario coniato da Baricco, è chiaramente un difensore della civiltà. Per la maggior parte dei sacerdoti della civiltà (e anche per alcuni mutanti, che è la categoria cui appartengo) gli attacchi e le incursioni dei barbari sono praticamente incomprensibili, e facilmente tacciate di rozzi tentativi di stravolgere la raffinata civiltà e infangare gli ori dei bei tempi andati. Come Baricco sono sicuro che i mutamenti che abbiamo sotto gli occhi, e più in particolare alcuni a cui fa riferimento Sandro Iovine, saranno capiti solo fra alcuni anni, quando della vecchia civiltà resteranno solo le rovine, e gli unici sopravvissuti saranno quelli che oggi chiamiamo barbari.

Con questo non voglio dire che sono dalla loro parte parte, e nemmeno che il cambiamento sarà positivo. L’idea dell’esistenza del bene e del male, del positivismo, dell’innato miglioramento continuo dell’uomo verso qualcosa di buono, è lontanissima dal mio modo di pensare. La storia come il caso e la natura, non conosce né meglio né peggio, si è sempre scritta da sola, sufficiente a se stessa, fregandosene degli uomini e dei suoi valori etici e morali. L’unica cosa che si può dire con sicurezza e che ogni volta che ci si è rinchiusi fra le mura di una città per resistere ai barbari si è finiti in rovina, e criticare i cambiamenti alla luce dei bei tempi andati è sempre un atteggiamento fallimentare, almeno nell’ambito della storia reale, cioè della sequenza oggettiva dello svolgersi dei fatti. L’atteggiamento forse più corretto e proficuo, e che permetta di salvare parte di ciò che esiste di buono nella civiltà, distruggendo soprattutto il vecchiume dell’ortodossia, è quello di cercare di canalizzare le energie barbariche, in maniera da non andare verso un impoverimento obiettivo del mondo, sfruttarle per reintrodurre vigore nella stanca civiltà in declino. Ma per farlo occorre cavalcare l’onda che spazza via la civiltà, bisogna scordarsi i bastioni, i templi e i libri dei bei tempi andati.

Insomma, quando leggo:

Il mondo della comunicazione per immagini sta cambiando profondamente e con subdola rapidità. Assistiamo a una teorizzazione dell’apparente semplificazione di ogni livello comunicativo che quasi sempre nasconde, neppure troppo bene, la volontà di obnubilare la comprensione profonda dei fatti.

Sandro Iovine

È per me inevitabile pensare che un’affermazione del genere sia altrettanto pericolosa e semplicistica che le trasformazioni che vorrebbe criticare. Di fatto si sta rivoluzionando il modo di pensare la conoscenza e il sapere, come è già successo in passato. E come è già successo il riscrivere il modo di intendere il sapere non implica necessariamente una semplificazione e uno svilimento, anzi, può alla lunga portare aria fresca e nuovi contenuti.

La seconda cosa che volevo dire a proposito della citazione poco sopra riguarda quella che Sandro Iovine considera assenza totale di educazione all’immagine in Italia.

In primo luogo non mi pare che negli altri paesi in cui ho viaggiato e vissuto la situazione sia purtroppo tanto diversa. In secondo luogo nella maggior parte delle scuole italiane (lasciando da parte le scuole d’arte dove è normale, parlo delle medie e dei licei) si scrivono temi ma si disegna pure, esiste la lezione di filosofia come quella di storia dell’arte, si studia la letteratura ma si suona anche il flauto. Certo, nel programma di educazione artistica in genere ci si limita alla pittura antica e non si tratta la fotografia, anche se devo dire di conoscere molte persone che hanno fatto esperienza di camera oscura proprio nelle scuole pubbliche, tanto che molti dei fotografi intervistati su Camera Obscura hanno iniziato la loro carriera proprio in questo modo. Forse questi sono personaggi particolarmente fortunati, ma resta il fatto che un minimo di educazione artistica nelle scuole si fa. Certo si prediligono le arti plastiche intese in senso classico, tralasciando la fotografia, ma l’analisi dell’immagine ha sicuramente tantissimi punti comuni fra pittura e fotografia. Certo non sarà il soggetto di valutazione più incisivo sul risultato finale, ma sta di fatto che nella scuola pubblica una sorta di educazione esiste.

L’assenza di studio di tutto ciò che è contemporaneo poi non riguarda comunque esclusivamente la fotografia, ed è questo secondo me, il vero problema. Per esempio in Italia, prima di entrare all’università, si studia storia solo fino alla prima guerra mondiale, o fino alla seconda se si è parecchio fortunati, ignorando completamente tutto quello che è successo dopo. Si passano tre anni a leggere Dante quando basterebbe un semestre per godersi gli splendidi versi dell’Inferno, senza tediare gli studenti con il noiosissimo Purgatorio e Paradiso. I due anni e mezzo così guadagnati si potrebbero utilizzare per leggere tanta splendida letteratura contemporanea, praticamente tralasciata in toto, molto più formativa, toccante, divertente e utile per qualcuno che vive nel XXI secolo. Ma come stupirsi, l’Italia è il paese dove ancora nei licei scientifici si sprecano molte ore a settimana dietro al latino, quando poi i ragazzi che hanno passato la maturità parlano ridicolamente male inglese, trovandosi ad anni luce di svantaggio dai loro coetanei tedeschi e olandesi. Sia chiaro, non sto dicendo che il latino o Dante siano da buttar via, personalmente ho amato sia l’uno che l’altro, e sicuramente hanno contribuito a farmi diventare quello che sono, ma c’è un fondamentale problema di scelte, di priorità e di quantità. Avrei preferito giusto una breve introduzione al Manzoni e sapere però perché è scoppiata la guerra del Vietnam, avere solo una vaga idea di chi fosse Catullo ma imparare cinese (come si può fare in molti licei francesi) senza doverlo studiare oggi, rubando tempo alla fotografia, studiare in modo meno approfondito i pensatori della grecia antica e non dovermi leggere da solo Nietzsche, perder meno tempo dietro le traduzioni del De bello Gallico e imparare ad utilizzare il computer, che ho acceso per la prima volta al primo anno di università di fisica, con un ritardo mostruoso.

Insomma, secondo la mia esperienza personale e quello che ho visto attorno a me, non è tanto la mancanza di educazione all’immagine ad affliggerci nei programmi di educazione della scuola dell’obbligo. Il problema vero è che in Italia l’educazione fa praticamente schifo. La formazione classica, teorica, impegnata, fondamentale, etc, puzza di vecchio e di morto, quella moderna invece è quasi unicamente superficialità e approssimazione pura. Da una parte si mantengono in vita le mummie ammuffite dei sacerdoti dell’ortodossia della civiltà, dall’altra si prende il peggio del peggio della trivialità delle orde barbariche. Nella media dell’insegnamento obbligatorio in Italia non c’è quasi niente che ti prepari alla vita reale, che ti permetta di formarti criticamente e farti un pensiero tuo, una cultura vera. Devi studiarti da solo quello che ti interessa, autoformarti, essere un autodittata curioso e insaziabile. L’unica nota positiva sono certi professori che, per questioni puramente personali, escono dalla media, ma si tratta di eccezioni, il sistema in sè, almeno per quanto riguarda la mia esperienza personale, è una catastrofe tanto nell’educazione all’immagine quanto in qualsiasi altro ambito.

Esaurita la questione dell’educazione in Italia, l’intervista a Sandro Iovine continua con l’azzeccatissima parte dove si puntualizza il fatto che, per fare professionalmente fotografia giornalistica, non è sufficiente saper fare belle immagini, ma serve molto di più.

Occorre sapersi relazionare, essere manager di stessi, saper intuire, prevedere, rischiare, avere la capacità di sviluppare reti di contatti infinite e poi, solo dopo aver dimostrato di saper fare tutto questo, bisogna anche saper fare buone foto.

Sandro Iovine

Questo è un punto a cui sono particolarmente sensibile, anche se personalmente faccio fotografia artistica e non giornalistica. Spesso sento che sono carente in certe doti al contorno, che per quanto riguarda l’immagine fotografica ci siamo, ma manca poi qualche cosa per farla uscire e diffondersi. Il tutto è purtroppo una vera noia, perché vorrei fare il fotografo e non il manager, vorrei che il tempo che passo a fare fotografia fosse al 100% dedicato a produrre immagini, e non piuttosto un misero 20%. Effettivamente in questo campo una formazione ad hoc potrebbe servire, anche se credo che molte di queste doti ancora una volta siano determinate dalla voglia di riuscire di ognuno, da quanto si è agguerriti e ostinati. Idealmente comunque, e questa probabilmente è un’utopia, mi piacerebbe pensare che la soluzione non sarebbero delle scuole che tiinsegnino tutto questo, m un sistema dove il fotografo fa il fotografo e basta. Ma visto lo stato delle cose probabilmente è un sogno destinato a restare tale.

L’intervista finisce con una domanda cara a Max Boschini: il rapporto fra digitale e analogico. Se condivido con Sandro Iovine l’idea che, presa la fotografia come strumento, non conta assolutamente niente se la macchina era analogica o digitale, ho invece le mie riserve su quello che segue.

La fotografia analogica ha una natura profondamente indicale in quanto deriva dal principio dell’impronta a tratto continuo. Ma la fotografia digitale porta con sé le caratteristiche dell’icona, in quanto sfrutta il meccanismo dei tratti discreti organizzati e ricostruiti a partire da un codice. Interessante quindi come in questo senso la fotografia digitale sia teoricamente più vicina al disegno manuale, in quanto icona, di quanto non lo sia quella analogica, in quanto indice. In realtà il discorso è assai lungo e complesso e immagino non sia questa sede per approfondirlo. Ecco direi che il mio rapporto con il digitale potrebbe incentrarsi al momento sull’interesse per il recupero da parte della fotografia di un forte principio di codificazione, rispetto allo statuto privo di codice della fotografia analogica, ovvero sulla trasformazione epistemologica che ne può derivare per la nostra cultura visiva.

Sandro Iovine

Questo è un punto che proprio non capisco. La natura di indice della fotografia mi sembra comune tanto al digitale che all’analogico. Cambia lievemente la natura della traccia, modificazione chimica da una parte e elettronica dall’altra, ma siamo vicini vicini. Senza contare che chimica e elettronica alle fondamenta sono praticamente la stessa cosa. Alla fine comunque che importa, il fumo di un fuoco e l’orma di un gabbiano sulla spiaggia sono tracce ben diverse, ma entrambe condividono chiaramente la natura essenziale dell’indice.

Inoltre il digitale è spesso additato per la sua facilità di manipolazione, di stravolgimento della realtà, o se vogliamo dirlo in modo diverso, di essere un’icona inaffidabile. È una tesi che non condivido minimamente, ma è curioso notare come Sandro Iovine veda la natura intima della fotografia digitale esattamente all’opposto del sentire comune a moltissime persone.

Per quanto mi riguarda il digitale non è più icona dell’analogico, entrambi sono indici a tutti gli effetti, e questa è la natura fondamentale della fotografia, analogica o digitale che sia. Sarei curioso di sapere cosa ha portato Sandro Iovine a pensarla diversamente. Se un giorno dovesse leggere queste righe e pensasse che Camera Obscura o il suo blog sono dei luoghi adeguati ad approfondire questo punto sarò felice di contribuire alla discussione.

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Fotografia e verità 8: simbolo e interpretazione /it/2008/fotografia-verita-simbolo-interpretazione/ /it/2008/fotografia-verita-simbolo-interpretazione/#comments Mon, 23 Jun 2008 21:20:50 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=492 Sottoesposizione
Sottoesponendo è possibile scurire una scena particolarmente chiara.

Abbiamo visto nell’ultimo articolo della serie fotografia e verità che durante il XIX secolo l’atteggiamento dominante è stato quello di mettere avanti la somiglianza perfetta fra reale e fotografia, detto in altre parole la sua caratteristica fondamentalmente iconica.

A partire dall’inizio secolo scorso invece l’accento della maggior parte dei fotografi e dei filosofi è stato sulla fotografia come trasformazione del reale. I pittorialisti, impegnati nella loro battaglia per giustificare la fotografia come forma d’arte, non perdevano una sola occasione per elencare i casi in cui la fotografia falliva come rappresentazione mimetica della realtà.

È per me stupefacente pensare che, più di cento anni dopo, ancora bisogna ripetere argomenti simili per convincere le persone che la fotografia può avere un rapporto mimetico con la realtà, ma che questa non è assolutamente una sua caratteristica fondamentale. Insomma, una foto può più o meno assomigliare alla realtà, ma in un certo modo la distorce sempre. Non voglio perderci troppo tempo, quindi sarò abbastanza veloce. Rudolf Arnheim, nel suo libro Film as art, smonta sistematicamente il rapporto mimetico con la realtà, e rimando a questo testo ogni lettore interessato. Per il momento mi limito ad elencare alcune caratteristiche della fotografia, per chiunque abbia fatto un minimo di fotografia e non si limiti a pigiare un bottone, rendono evidente come la fotografia comporti immancabilmente distorsioni della realtà.

La cosa interessante è che la fotografia fallisce nel compito che gli viene affibbiato di avere un rapporto mimetico preciso con la realtà non solo quando ci si sforza di ottenere una resa pittorica, quando si maltrattano le emulsioni o si esplorano le cosiddette tecniche antiche. La fotografia, intrinsecamente, non riproduce in maniera precisa la realtà nemmeno quando la si usa nel modo più diretto e puro possibile.

Aberrazioni obiettivo
Dettaglio (sinistra) di una foto del Mont St. Michel dove sono evidenti i difetti ottici dovuti alle aberrazioni dell'obiettivo.

Per cominciare si possono citare tutti i difetti delle ottiche. Perdita di nettezza sui bordi, resa dello sfuocato ad esagoni (o qualunque poligono disegnato dalle lamelle del diaframma), aberrazioni varie degli obiettivi, vignettatura, distorsioni a cuscinetto e a barilotto. Nessuno quando guarda alla realtà la vede con una perdita di luce ai bordi. Quasi nessuno ha negli occhi delle aberrazioni che pregiudicano la nitidezza della percezione del mondo. La visione umana dello sfuocato è sempre indiretta, appena si fissa lo sguardo in un punto lo si mette subito a fuoco. A meno naturalmente di essere miopi, ma in ogni caso la realtà, di per se, è sempre a fuoco, sono solo le immagini ottiche di questa che possono essere più o meno sfuocate.

Anche la focale degli obiettivi deforma profondamente la realtà. La visione umana corrisponde grossomodo ad una focale di 50mm su una pellicola di 24x36mm. Tutte le focali superiori o inferiori implicano deformazioni importanti dello spazio, della prospettiva, delle distanze. Con un grandangolare spinto si può far sembrare una stanza infinitamente più grande di quello che è in realtà, esasperare le fughe prospettiche, far sembrare le nuvole in cielo un accavallarsi impetuoso di cavalloni di mare in tempesta, gli oggetti vicini diventano smisuratamente grandi e quelli lontani minuscoli e irraggiungibili, il naso di una persona diventa grosso come un pallone e le orecchie piccole piccole. I teleobiettivi invece schiacciano completamente le prospettive, annullando le distanze. Oggetti lontani e vicini sembrano tutti alla stessa distanza dal fotografo. Trucchetto conosciutissimo di tutti i paparazzi, con un obiettivo si riesce a far sembrare che due persone camminano a braccetto quando invece si trovano a diversi metri di distanza l’uno dall’altro.

Del resto con le distanze, le deformazioni e le prospettive si può fare veramente di tutto per ingannare l’osservatore. Un giochetto ben noto a tutti i turisti che durante i primi anni di università ho visto visitare Pisa, tutti a farsi immortalare con la mano alzata come se non ci fossero loro a tenerla su la torre, questa verrebbe giù in un attimo. Più seriamente, lo splendido lavoro di Georges Rousse è tutto basato sugli inganni visivi. Per riassumere un lavoro lungo, complesso e impressionante Rousse dipinge nello spazio delle anamorfosi, che da certi punti di vista sembrano creare inserti su piani e distanze completamente diversi da quelli reali.

Cambiando genere, se si scatta poi con velocità troppo basse si rischia di fare una foto mossa di un oggetto che in realtà non si è spostato di un millimetro. Con le lunghe esposizioni poi le persone si trasformano in fantasmi evanescenti, nelle foto notturne le automobili lasciano lunghe righe rosse. Con le lunghissime esposizioni addirittura si riescono a far sparire del tutto persone e macchine in movimento. Delle primissime foto della storia fatte a Parigi, i primi dagherrotipi, non c’è mai nessuno per le strade, non un passante, non una carrozza, non un cane. Le pose delle prime lastre fotografiche erano talmente lunghe che tutti gli oggetti in movimento non riuscivano a lasciare nessuna traccia visibile. Fra quelle primissime foto fa eccezione un famoso dagherrotipo dove un passante, facendosi lucidare le scarpe, è rimasto immobile abbastanza a lungo da lasciare una traccia sull’emulsione sensibile. Volendo credere al rapporto mimetico della fotografia con la realtà bisognerebbe dedurre che nell’ottocento le strade di Parigi erano completamente deserte, salvo forse un unico personaggio preoccupato dalla patina del cuoio dei suoi stivali.

Sovraesposizione
Immagine volutamente sovraesposta.

A volte capita di sbagliare clamorosamente un’esposizione, e trasformare una stanza riempita da una luce accecante in una dove regna la penombra. Oppure, naturalmente di produrre intenzionalmente immagini scurissime o chiarissime. Una foto notturna, se esposta a lungo, può essere chiara come una scattata di giorno. Chiunque abbia utilizzato seriamente il sistema zonale, un metodo di esposizione in generale particolarmente apprezzato proprio dagli amanti di una presunta fotografia ortodossa, sa benissimo che il punto di partenza è fotografare un muro o una superficie testurata esponendolo in modo che diventi un grigio medio al 18%, questo da la zona V. Poi fare tutta una serie di scatti aprendo e chiudendo il diaframma fino ad ottenere un bianco senza dettagli (zona X) e un nero senza dettagli (zona 0). Dalla serie di film esposti in questo modo è possibile ottenere poi tutta una serie di informazioni che permettono di controllare la gamma tonale delle proprie immagini. Ma quel muro, era grigio, bianco o nero? Oppure, sempre per restare in tema di sistema zonale. Come diavolo è che se una scena ha più di sette zone (o anche un filo di più se si aggiustare lo sviluppo) di differenza di luminanza, alcune parti dell’immagine diventano completamente bianche e altre completamente nere quando nella realtà c’era dettaglio ovunque?

Posa lunga
Tempi di posa lunghi trasformano gli oggetti in movimento.

La scelta della pellicola, tanto del bianco e nero che del colore ha effetti rilevanti sulle caratteristiche della fotografia che viene ottenuta appunto dalla pellicola in questione. Ogni pellicola per esempio ha la sua curva caratteristica. Certe emulsioni sono piuttosto lineari, altre hanno una lunga spalla o un grosso piede. Fotografando la stessa scena con pellicole diverse si ottengono risultati diversi. Senza contare che le emulsioni possono essere ortocromatiche o pancromatiche, ovvero più o meno sensibili a tutte le lunghezze d’onda della luce. Nel primo caso si otterranno dei bei cieli completamente bianchi slavati, e un sacco di foschia nelle valli. Con lo stesso giochetto ma dall’altra parte della gamma dello spettro, ovvero utilizzando pellicole per il bianco e nero sensibili ali infrarossi, è possibile bucare la nebbiolina che rende grigiastre così tante fotografie. La chimica scelta per lo sviluppo di pellicole in bianco e nero influenza enormemente le caratteristiche del negativo. Uno sviluppo più o meno lungo, a due bagni, con una certa temperatura, l’intensità e la frequenza dell’agitazione sono tutte variabili determinanti sulla resa della pellicola. Queste influenzano pesantemente il contrasto, la forma della curva di risposta, la granulosità della pellicola. La realtà che la fotografia sembra riprodurre in maniera così precisa qual’è? Quella dell’HP5 sviluppata 13 minuti in D-76 1+3 a 20°C con10s di agitazione al minuto o quella della Tri-X sviluppata per 10 minuti in HC-110, soluzione B, a 15° con due sole agitazioni durante lo sviluppo? Le combinazioni pellicola sviluppo sono praticamente infinite e danno risultati estremamente diversi fra loro, come decidere quale si avvicina di più alla realtà?

Grana
Tutte le fotografie presentano una grana.

La grana, visto che siamo in tema, se intensa e grosse, crea suggestive e splendide immagini che niente hanno a che vedere con la realtà. Immagini oniriche, sognanti. Dove la gamma tonale sparisce, si riduce alla sua essenza, le forme si scompongono e si ammorbidiscono. Ma le fotografie scattate a 25 iso sono anche loro composte dalla grana, semplicemente è così piccola che l’occhio, ad ingrandimenti normali, non riesce a percepirla. È come se la vedessimo da molto lontano e tutto si impasta creando l’illusione del continuo e dell’immagine liscia e morbida, ma in realtà, nella loro essenza, tutte le fotografie sono granulose come quelle scattate a 6400 iso, è solo la finezza che inganna il nostro occhio creando l’illusione di mimetismo con la realtà.

Per quanto riguarda la fotografia a colori, la situazione è praticamente la stessa del bianco e nero. Diapositive diverse, come il famoso tris della Fuji: Provia, Velvia e Astia; producevano risultati completamente eterogenei, dove la più grossa differenza era la saturazione delle tre pellicole. Ogni fotografo, prima di scattare, decideva se voleva una resa pastello dei colori o una molto sparata, e sceglieva di conseguenza la pellicola che avrebbe utilizzato. Adesso con le digitali e il bilanciamento automatico del bianco ci si dimentica che una volta la temperatura cromatica della luce faceva ammattire i fotografi. C’erano le pellicole calibrate per la luce diurna, quelle per il tungsteno, e tutti i filtri possibili per riscaldare e raffreddare l’immagine, in maniera da avere colori naturali anche in condizioni difficili. La resa dei colori comunque è sempre un’approssimazione più o meno fedele della realtà, ma non sarà quasi mai esattamente la stessa, altrimenti non si spiegherebbero gli sforzi necessari nella gestione del colore per ottenere risultati accettabili quando si cerca di riprodurre un’immagine.

Temperatura cromatica
Utilizzando un'illuminazione con lampadine a incandescenza oggetti bianchi diventano completamente gialli.

Certi “colori” poi sono impossibili da ottenere con le emulsioni fotografiche. Per esempio dell’oro, come sanno benissimo i pittori, è qualcosa di impossibile ad ottenere mischiando fra di loro rosso verde e blu o ciano, magenta e giallo. Per dare la sensazione dell’oro occorre un pigmento che è ottenuto con una polvere metallica riflettente, è necessario riutilizzare la materia stessa, o perlomeno giocare con i riflessi, i colori da soli non bastano. I fotografi di gioielli, uno dei generi di still life più difficili, lo sanno perfettamente e si portano dietro tutta una serie di cartoncini bianchi e neri per disegnare i riflessi che danno forma ai gioielli. Fotografate un anello d’oro dal valore di 30 mila euro in luce completamente diffusa e avrete un orrendo pezzo di plastica gialla.

Si potrebbe continuare su questo tono ancora per molto, ma non ne vale la pena, preferisco tirare subito le somme. La pratica fotografica, per quanto utilizzata in senso “puro”, “diretto” e “incontaminato”, comporta sempre delle distorsioni, modificazioni, approssimazioni e interpretazioni della realtà. Tale deformazione, a pensarci bene, è estrema e implicita nel media. Fino ad ora mi sono limitato a caratteristiche e difetti tecnici del sistema fotografico, ma la sua incapacità a registrare in maniera iconica perfetta il reale è molto più profonda. Semplicemente la rappresentazione fotografica del reale si iscrive in un sistema di percezione del mondo codificata cui siamo abituati, e ormai non ci rendiamo più conto di quanto in realtà le due entità siano profondamente distanti l’una dall’altra. Per dirne una, il bianco e nero, che siamo abituati a leggere come riproduzione della realtà, in realtà è una modifica e distorsione pesantissima di questa. Eppure, secoli di disegno e un centinaio d’anni di fotografia quasi esclusivamente monocromatica ci hanno abituati culturalmente all’idea di una rappresentazione simbolica della realtà in scala di grigi.

Riflessi
Obiettivi o filtri di scarsa qualità producon spesso riflessi indesiderati.

Infine, oltre alle caratteristiche tecniche del tipo di emulsione, bisogna ricordarsi che la fotografia isola un momento e un luogo, per la semplice scelta dell’inquadratura e del tempo di esposizione il fotografo ritaglia dalla realtà qualcosa che non le appartiene più. Senza contare che una fotografia è un’immagine bidimensionale, mentre la realtà ha almeno quattro (la teoria delle superstringhe ne aggiunge ancora un bel po’…) dimensioni: le tre che caratterizzano lo spazio e il tempo. Una fotografia sarà solo una codifica di questa realtà a quattro dimensioni.

Ma si tratta appunto più di un simbolo che di un’icona. In realtà vedremo in futuro che nemmeno l’essere simbolo è la caratteristica fondamentale della fotografia, ma per un primo momento è bene raggiungere e assimilare questa tappa mentale. La fotografia, più che avere un rapporto mimetico con la realtà, la trascrive deformandola secondo un sistema decodificato. Questa visione delle cose ha avuto anche delle conferme scientifiche. Sono noti i casi di persone cieche da lungo tempo o dalla nascita che riacquistano la vista in seguito ad un’operazione agli occhi. Quando ancora non hanno “imparato a guardare” se gli viene mostrata una fotografia di un oggetto rotondo e uno quadrato non sono capaci di associarle visivamente e sono obbligati a chiudere gli occhi. Una volta imparato il procedimento di decodifica il riconoscimento diventa immediato, ma c’è una tappa mentale in più. Un altro caso famoso è quello dell’antropologo Melville Herskövits. Questi mostrò un giorno ad una aborigena una foto del figlio di questa. L’aborigena era completamente incapace di riconoscere nell’oggetto mostratogli il ritratto del proprio figlio, la fotografia non gli comunicava nessun messaggio fino a che l’antropologo non le ha spiegato come leggerla. Questa esperienza dimostrò chiaramente come la fotografia è un dispositivo culturalmente codificato.

Grandangolo
Un grandangolo spinto modifica la percezione degli spazi e fa sembrare le nuvole enormi e bassissime.

Per quanto ci riguarda, volendo anticipare un po’ le cose e mettere qualche altra carta in tavola, facciamo una piccola provocazione. Abbiamo visto che in ogni caso la fotografia, per quanto la si pratichi nel modo più diretto e automatico possibile implica sempre una deformazione della realtà. A partire dalla scelta della pellicola che mettiamo nella macchina avremo due risultati diversi. Perché allora scurire un cielo è una deformazione della realtà considerata da molti non fotografica, mentre scegliere una pellicola diversa sembra esserlo? Questa scala di valori delle distorsioni della realtà che viene usata per stabilire cosa sia lecito e cosa non lo sia è basata su considerazioni razionali o è puramente arbitraria? A questo punto della serie fotografia e verità penso che sia inutile dire come la penso.

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Fotografia e verità 7: la mimesi della realtà /it/2008/fotografia-verita-mimesi-realta/ /it/2008/fotografia-verita-mimesi-realta/#comments Tue, 03 Jun 2008 07:29:47 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=423 Baudelaire
Charles Baudelaire

Negli ultimi due articoli di fotografia e verità abbiamo visto come la caratteristica in generale considerata fondamentale di interazione della luce tanto fondamentale poi non sembra essere, nel senso che non riesce a determinare in modo razionale cosa sia fotografia e cosa no. Da una parte siamo obbligati a sottolineare che deve avvenire unicamente un’interazione fra luce e materiale sensibile, perché lasciando cadere l’unicità quasi tutto può essere incluso nella categoria fotografia, dall’altra parte però questo esclude dall’ambito fotografico la quasi totalità delle immagini che praticamente tutti consideriamo fotografia. Immagini, è il caso di dirlo, che sono vere e proprie fotografie a tutti gli effetti.

Durante gli ultimi articoli abbiamo parlato brevemente anche di altre presunte caratteristiche fondamentali, che si sono tutte verificate come non essenziali e non discriminanti. Prima di tirare qualche conclusione e chiudere questo primo capitolo della seria, trattiamo rapidamente ancora un’altra proprietà “fondamentale” della fotografia molto importante, fonte di equivoci infiniti. Ovvero il rapporto mimetico della fotografia con la realtà. Detto in parole povere l’idea che la fotografia assomiglia terribilmente alla realtà che rappresenta, sembra uguale, tanto da considerare questa caratteristica non una contingenza, ma un suo tratto distintivo. Il rapporto mimetico fra fotografia e realtà è infatti proprio uno dei motivi principali che hanno portato ad identificare fotografia e realtà come la stessa e unica entità.

Autochrome
Autochrome del 1907

Del resto è proprio questa caratteristica di riproduzione precisa e fedele del reale che attirava e stupiva i pionieri dell’immagine fotografica. I primi uomini a vedere le primissime fotografie rimanevano a bocca aperta e si chiedevano cosa fosse, un disegno perfetto o qualche opera di stregoneria. Si dice che una delle reazioni più comuni di chi per la prima volta guardava una fotografia stereoscopia era allungare la mano per cercare di afferrare gli oggetti che vedeva nello spazio di fronte a se, come se fossero reali.

Io stesso sono stato spesso colpito dalla forza di mimesi che può avere la fotografia. Una delle esperienze fotografiche più intense della mia vita, infatti, fu una mostra alla MEP di diapositive autochrome, un procedimento in tricromia inventato nel 1903 dai fratalli Lumière, rare immagini a colori di inizio secolo su finissime e splendide lastrine di vetro. Lastre di una decina di centimetri di lato, retroilluminate e montate su una parete nera, in una stanza molto buia. Per vederle ci si doveva avvicinare al muro, e mi ricordo che ho avuto la sensazione fortissima di guardare come attraverso un buco, un buco in un muro che si affaccia su un mondo diverso che è dall’altra parte. Per uno strano scherzo della natura il tempo e lo spazio avevano fatto un salto, non c’era più una linea retta, di là dal muro c’erano veramente signorine con cappelli e ombrelli per proteggersi dal sole, signori col cilindro intenti in amabili conversazioni, fanciulle sedute sull’erba immerse nella lettura di un romanzo. Ed erano vere, verissime, quasi le si poteva toccare, il buco nel muro mi aveva riportato letteralmente indietro nel tempo. L’ottocento era li davanti ai miei occhi e sembrava di poterlo toccare. Ne uscii letteralmente con le lacrime agli occhi.

Arafat Rabin
La stretta di mano di Arafat e Rabin

Non solo i fotografi e la gente comune sono stati colpiti dal rapporto mimetico fra fotografia e realtà, ma anche moltissimi intellettuali e personalità di spicco. Soprattutto durante il diciannovesimo secolo, con alcuni strascichi contemporanei. Nel novecento i filosofi e gli analisti poi si resero conto che il rapporto mimetico non era un proprietà fondamentale della fotografia, ma solo una contingenza. La fotografia quindi iniziò ad essere riconosciuta come interpretazione della realtà. Fotografia quindi non come icona ma come simbolo. La cosa andò avanti per svariati decenni, fino a quando finalmente i filosofi si resero conto che la fotografia non è fondamentalmente né l’una né l’altro, né icona né simbolo, ma piuttosto indice. Torneremo in dettaglio su questo argomento, per il momento limitiamoci a ripercorrere rapidamente la storia della percezione delle caratteristiche della fotografia, la percezione come icona e come simbolo. In questa sede l’unica cosa che preme è far capire che l’essere icona della fotografia, il suo rapporto mimetico con la realtà, non è affatto una sua proprietà fondamentale. Questo come dicevo è stato riconosciuto molto presto, ormai da almeno un centinaio di anni, ed è stupefacente doverlo ripetere ora. Ma vista la quantità di persone che ancora si lasciano ammaliare conviene insistere un po’ su questo argomento. Per farlo seguirò in parte l’ottimo libro L’acte photographique di Philippe Dubois, di cui consiglio la lettura a tutte le persone che si interessano alla filosofia della fotografia.

Autochrome
Autochrome

Le prime reazioni del mondo intellettuale di fronte alla novità assoluta rappresentata dalla fotografia sottolineavano con veemenza la rassomiglianza fra fotografia e reale. Questa caratteristica poteva essere portata a prova della grande utilità di questa nuova invenzione per l’umanità, ma anche come dimostrazione che la fotografia in alcun modo poteva e doveva aspirare a diventare qualcosa di paragonabile alla pittura. Famosissimo per esempio è il giudizio disgustato di Baudelaire a proposito della fotografia:

Credono che l’arte è e non può essere che la riproduzione esatta della natura [...]. Un Dio vendicatore ha esaudito il desiderio di questa moltitudine. Daguerre è stato il suo Messia. E allora questa [la moltitudine] ci dice “visto che la fotografia ci da tutte le garanzie desiderabili di esattezza (ci credono, gli insensati), l’arte è la fotografia. A partire da questo momento la società immonda si è precipitata, come un solo Narciso, per contemplare la sua triviale immagine nel metallo. Una follia, un fanatismo straordinario si è impadronito di tutti questi nuovi adoratori del Dio sole.

Catalogo

È nota l’avversità di Baudelaire all’idea che la fotografia potesse essere arte. L’idea che la fotografia sia una copia perfetta della realtà e che quindi potesse sostituire la pittura era completamente disgustosa per il poeta, che vedeva l’arte come ispirazione sublime e immateriale. Molte reazioni contemporanee a Baudelaire invece sono invece entusiastiche, vedo l’utilità della fotografia nella sua esattezza, ma si basano sempre sulla stessa identica concezione di una separazione netta fra da una parte l’arte, nobile invenzione della fantasia sufficiente a se stessa, e dall’altra la fotografia, semplice strumento di riproduzione fedele del reale. Utile per riprodurre libri, documentare viaggi e ottenere rapidi bozzetti, ma niente di più di uno strumento automatico. Un contemporaneo di del grande poeta francese, Hippolyte Taine, scrive:

La fotografia è l’arte che, su una superficie piana, con delle linee e dei toni, imita alla perfezione e senza nessuna possibilità d’errore la forma dell’oggetto che deve riprodurre.

Anche un pittore del calibro di Picasso considerava la fotografia come un fedelissimo mezzo di riproduzione del reale.

Perché l’artista continuerebbe a trattare dei soggetti che possono essere ottenuti con tanta precisione con l’obiettivo della macchina fotografica? [...] La fotografia è arrivata al punto di liberare la pittura da ogni aneddoto, da ogni letteratura e pure dal soggetto.

Follmi
Fotografia di viaggio
© Olivier Föllmi

Strascichi di questa concezione di rapporto mimetico fra realtà e fotografia, purtroppo come dicevo non si limitano al 1800, ma è arrivata anche ai nostri giorni. Se questo è comprensibile per la gente comune, che ha una visione se vogliamo fresca e innocente come i primi utilizzatori delle prime fotografie, rimane stupefacente che un pensatore salti decenni e decenni di critica storia della filosofia estetica e continui a vedere la fotografia nell’ottica dei primi, accecati, fotografi e pensatori ottocenteschi. Giusto per fare due esempi del ’900:

La fotografia è cancellazione totale di fronte al reale, con il quale coincide. È il mondo tale e quale, nella sua verità immediata, che riproduce sulla carta o su uno schermo. Roger Munier

Oppure, sempre sulla stessa lunghezza d’onda:

L’originalità della fotografia rispetto alla pittura risiede nella sua obiettività essenziale. [...] per la prima volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creatore dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso. André Bazin

E per finire anche il tanto studiato e apprezzato Roland Barthes:

Cosa trasmette la fotografia? Per definizione, la scena stessa, il reale letterale. [...] certo l’immagine non è il reale, ma ne è il suo analogo perfetto ed è precisamente questa perfezione analogica che, per il senso comune, definisce la fotografia.

Quello del rapporto mimetico fra fotografia è realtà è quindi uno zoccolo duro della percezione di cosa sia o meno fotografia. È un approccio giustificato, perché in generale è vero che le fotografie assomigliano a quello che rappresentano. È vero che sono icone spesso incredibilmente veritiere dell’oggetto che rappresentano. Del resto la fotografia pubblicitaria funziona perché permette di rappresentare in modo abbastanza fedele l’articolo in vendita. Le foto tessere sui documenti di identità servono a identificarne il possessore. Le fotografie di viaggio mostrano come sono luoghi lontani, che non potremo mai visitare. La stretta di mano fra leader politici viene immortalata con una fotografia.

Il grande errore sta nel considerare la mimesi con la realtà una proprietà fondamentale della natura fotografica. Proprietà fondamentale significa che permette di distinguere la fotografia da altri tipi di immagini, che costituisce l’essenza del fotografico. In realtà le fotografie possono essere icone più o meno riuscite della realtà, ma questo loro essere icone non è assolutamente necessario, come vedremo nel prossimo articolo.

Autochrome
Autochrome, 1920

Inoltre la fotografia segue tutta una serie di codici di lettura assodati. Che i primi uomini a contatto della fotografia non si siano resi conto che non erano tanto icone, ma piuttosto simboli, è dovuto al fatto che la fotografia si iscriveva in un sistema di rappresentazione del reale che segue tutta una serie di costruzioni mentali e simboliche di una traduzione iniziata con il rinascimento. Tradizione tanto assodata da non rendersi conto che, più che mimesi, si tratta di simbologia.

Nel prossimo articolo vedremo quindi come la proprietà di mimesi della fotografia non solo in generale non è necessaria, perché molte fotografie possono non assomigliare alla realtà, ma oltretutto è anche illusoria, la fotografia nella sua essenza è molto più simbolo, codifica della realtà, piuttosto che icona del reale.

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Fotografia e verità 6: quasi niente è fotografia /it/2008/fotografia-verita-niente/ /it/2008/fotografia-verita-niente/#comments Fri, 23 May 2008 08:34:48 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=402 Ansel Adams

Nello scorso articolo Anche il vento è fotografia di questa nostra serie dedicata al rapporto fra fotografia e verità, abbiamo visto come la proprietà fondamentale di interazione fra luce e materiale sensibile, se viene applicata seguendo un procedimento logico e razionale, porta ad includere nella categoria fotografia moltissimi fenomeni che tutto sono salvo fotografie, almeno secondo il senso comunemente attributo al termine fotografia.

Un lettore attento avrebbe potuto ribadire in questo modo: Non ci prendere in giro! Poco tempo fa ci hai dimostrato che le stampe a getto d’inchiostro non sono fotografie, visto che non sfruttano l’interazione fra luce e materia, non sono costituite da sali sensibili, ma sono semplice inchiostro su carta. La maggior parte dei fenomeni che citi non sono più inclusi nella categoria “fotografia” se aggiungiamo una semplice puntualizzazione alla definizione: è fotografia il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materia sensibile.

La precisazione è estremamente ben posta. Fino a questo momento unicamente è sempre stato più o meno implicito. Di fatto non si può farne a meno, perché altrimenti davvero nella definizione di fotografia ci si può mettere anche il panettone e i frutti canditi. Se si rinuncia infatti a unicamente, dicendo che fotografia è il prodotto di un procedimento che, almeno una volta, ha utilizzato l’interazione fra luce e materiale sensibile, allora le stampe inkjet rientrano automaticamente nella categoria, visto che al momento dello scatto si è utilizzata l’interazione fra luce e supporto fotosensibile, e le fasi seguenti sono semplicemente il seguito del processo. Insieme alle stampe getto d’inchiostro però rientrano subito i dipinti di Chuck Close, visto che anche in questo caso almeno un momento di interazione fra luce e materiale sensibile c’è stato. E naturalmente rientrano anche le fotografie dipinte di Araki, quelle graffiate di François Delandre, i fotomontaggi di Jerry Uelsmann, i mordençage di Elizabeth Opalenik. Oltre a queste, qualunque altro prodotto che derivi in modo più o meno stravagante da un unico attimo di interazione con la luce, diventerebbe automaticamente fotografia: se espongo un negativo e me lo mangio divento io stesso una fotografia vivente. Alla lunga qualunque oggetto, in un modo o nell’altro, ha interagito almeno una volta con la luce, quindi la definizione sarebbe veramente troppo vasta. Ne consegue che questa piccola precisazione è strettamente necessaria: fotografia è il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materiale sensibile.

Porre l’accento sull’unicità dell’interazione fotoelettrica eliminando ogni possibile intervento esterno fa sparire buona parte delle difficoltà esposte nell’ultimo articolo. Il vento che soffia, le piante che crescono in primavera, la malinconia nei giorni grigi d’inverno non sono più fotografie. Restano invece fotografie la pelle abbronzata e gli oggetti che si scolorano al sole, ma questo è abbastanza plausibile anche per gli ortodossi della fotografia pura. Sono entità che non siamo abituati a vedere e considerare in quanto fotografie, ma pensandoci un po’ la cosa si fa accettabile anche per i più scettici.

Aggiungendo quell’unicamente, anche molte delle stampe che utilizzano colloidi e pigmenti non sono più fotografie. Questo può dar fastidio a qualcuno che si diletta con antichi procedimenti fotografici, ma del resto, nelle già citate discussioni infinite se le stampe a getto d’inchiostro sono fotografie o meno, i maghi delle tecniche antiche di stampa riconoscono che spesso le stampe pigmentarie, al pari delle stampe inkjet, non sono fotografie, quindi la cosa è abbastanza assodata anche in un pubblico specialistico.

Riprendiamo con qualche dettaglio per esempio il caso della stampa alle polveri. Per ottenerla si sensibilizza un supporto, in generale della carta nobile come la carta da acquarello, con un misto di gomma arabica, zucchero e bicromato di potassio. Il foglio, una volta asciutto, viene esposto per contatto dietro un negativo. Lo strato di gomma zuccherina diventa più o meno appiccicoso a seconda della quantità di ultravioletti ricevuti. A questo punto, facendo cadere a pioggia un pigmento ridotto in polvere, un poco come lo zucchero a velo spolverato su un dolce, questo aderirà maggiormente nelle zone più appiccicose, generando quindi l’immagine.

È chiaro che una stampa di questo tipo condivide molte caratteristiche con le stampe a getto d’inchiostro, in particolare l’immagine è costituita da pigmenti, e non da un materiale che è stato modificato dalla luce. La vera fotografia in questo caso si limita unicamente alla matrice più o meno appiccicosa in seguito all’esposizione agli ultravioletti, fino a che ci si è limitati ad esporre la carta sensibilizzata si è in un ambito puramente fotografico, l’aggiunta del pigmento fa scivolare immediatamente la stampa in una non-fotografia, spolverare con il colore è un’azione simile a quella di Chuck Close quando ricopia una fotografia, è aggiungere colore su una fotografia.

Mario Stellatelli
© Mario Stellatelli

Limitarsi unicamente all’interazione con la luce però pone i suoi problemi, e anche grossi. Di fatto, seguendo un minimo di logica e portando avanti il discorso in modo analogo, significa per esempio che tutte le fotografie virate non sono fotografie. Il viraggio è una pura e semplice reazione chimica, dove la luce non ha assolutamente niente a che vedere. Del resto si può virare una fotografia su carta baritata anche anni dopo averla fissata e asciugata. Si tratta semplicemente di una reazione chimica fra i sali che costituiscono l’immagine e quelli nella soluzione di viraggio, la luce non ha la minima funzione in questo caso. Le fotogafie che sono state virate allora, seguendo la definizione, non sono più fotografie, ma “altro”. Questo è problematico, perché la stragrande maggioranza delle fotografie analogiche del secolo scorso destinate ad essere esposte nei musei hanno subito almeno un leggero bagno di viraggio al selenio per fini protettivi, visto che questo migliora sensibilmente la stabilità dell’immagine e la sua resistenza all’ossidazione.

Robert Schramm
Viraggio all’uranio
© Robert Schramm

Altri viraggi comunemente praticati, soprattutto durante il primo secolo di storia della fotografia, sono quelli all’oro e al platino, decisamente più costosi di quelli al selenio, ma ancora più stabili dal punto di vista della conservazione. Oltre a questi, sempre durante gli anni dei pionieri dell’immagine fotografica, molti altri viraggi -tanto per fini espressivi che per conservazione- erano diffusissimi e estremamente vari: al piombo, al rame, al ferro, vari ossalati e citrati, persino all’uranio, per ottenere tutte le possibili tonalità, dal seppia, al rosso, al verde, il blu. I viraggi poi possono essere combinati e localizzati per trasformare immagini in bianco e nero in magnifiche e finissime stampe a colori, come dimostrano ad esempio gli splendidi lavori del maestro dei viraggi selettivi: Mario Stellatelli.

Ebbene, tutte queste immagini, la maggior parte delle stampe analogiche esposte nei musei di fotografie e la maggior parte delle fotografie antiche allora non sono fotografie, visto che non sono il prodotto unicamente dell’interazione fra luce e materiale sensibile. Non sono foto allora quelle dei fratelli Alinari, le albumine di Atget, le fotografie di Julia Margaret Cameron, i paesaggi di Ansel Adams. Ancora una volta però, se sopprimiamo quell’unicamente, sono foto anche i quadri ispirati da fotografie, se lo teniamo siamo costretti a considerare non-fotografiche la maggior parte delle stampe che sono sotto i nostri occhi.

François Delandre
© François Delandre

Ma non è finita qui, non è solo sul viraggio che siamo obbligati a puntare il dito. La procedura di stampa della carta al bromuro di argento, per intendersi la procedura di stampa usata probabilmente per almeno il 99,99% delle stampe dagli anni cinquanta del secolo scorso fino all’avvento del digitale, è nota a chiunque abbia praticato un minimo di camera oscura: si espone la fotografia all’ingranditore, la luce sensibilizza i sali presenti nella carta, creando un’immagine latente. La carta viene prima passata in un bagno di sviluppo, i cristalli eccitati dai fotoni reagiscono producendo argento metallico, mentre quelli che non sono stati eccitati rimangono sensibili ma non anneriscono, se si accende la luce si perde quindi la stampa. È necessario allora, dopo un bagno per arrestare l’azione dello sviluppo, procedere al fissaggio, ovvero immergere la stampa in una soluzione che rimuove i sali ancora sensibili presenti nella stampa. A questo punto si può accendere la luce e inizia il lavaggio.

Fratelli Alinari
© Fratelli Alinari

Ancora una volta l’unico momento di interazione fra luce e materiale sensibile è durante l’esposizione all’ingranditore. Il resto è pura e semplice chimica. Il parallelo con l’esempio della stampa alle polveri non potrebbe essere più lampante. In entrambi i casi è un intervento esterno che produce l’immagine, altrimenti questa è solamente latente. Uno strato di gomma arabica più o meno appiccicoso senza nessuna immagine e un foglio di carta baritata completamente bianco, esposto ma non sviluppato. Sono queste, e praticamente solo queste le vere fotografie!

Naturalmente per quanto riguarda i negativi vale la stessa cosa, visto che di fatto quello che si fa con l’ingranditore in camera oscura è fare una foto di un negativo. Anche le pellicole hanno bisogno infatti di essere sviluppate, e anche in questo caso l’azione è puramente chimica, assolutamente senza alcun intervento della luce. Ne consegue che, se vogliamo essere razionali e logici e seguire la definizione data in modo ragionevole, le sole vere fotografie sono i nostri negativi esposti ma non sviluppati, fotografie che nemmeno possiamo guardare. Bel guadagno abbiamo fatto con la nostra definizione di vera fotografia!

Mathew Brady
Abraham Lincoln
© Mathew Brady

Per amor del vero e questioni di completezza devo citare il fatto che esistono delle “vere fotografie” che possono essere viste, delle fotogafie che non hanno bisogno di sviluppo. Un’altra possibile classificazione delle tecniche di stampa è quella che le distingue fra a sviluppo e ad annerimento diretto. La comune carta al bromuro d’argento è a sviluppo, come per esempio la gomma bicromata, il platino, il carbone, il collodio umido. Altre tecniche però sono ad annerimento diretto, come ad esempio la carta salata, l’albumina, il “platino umido”, il Van Dyke Brown. Queste ultime tecniche sono sensibili agli ultravioletti, quindi, anche se non hanno bisogno di sviluppo, vanno fissate se vogliono essere ammirate alla luce del sole. Se vogliamo evitare di fissarle, visto che questo, seguendo la nostra logica di definizioni, le trasformerebbe in non-foto, possiamo comunque vederle sotto una tenue luce gialla. Eccole, le nostre uniche vere foto! Negativi alla carta salata tenuti al buio e osservati, prima che spariscano del tutto, ad una tenue luce gialla!

Nel prossimo articolo ci sarà modo di tirare le conclusioni su questa ricerca di una definizione univoca che stabilisca cosa sia e cosa non sia fotografia. Per ora limitiamoci a sottolineare il fatto che, volendo utilizzare la luce come discriminante, da una parte quasi qualunque cosa che ci circondi appartiene alla categoria di fotografia, dall’altra parte, allo stesso tempo, la maggioranza quasi assoluta di quelle che sono considerate fotografie invece non lo sono.

Se questo non è assurdo…

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Fotografia e verità 5: anche il vento è fotografia /it/2008/fotografia-verita-vento/ /it/2008/fotografia-verita-vento/#comments Sun, 18 May 2008 18:04:23 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=384 Moholy Nagy
Fotogramma
© Moholy Nagy

Come punto di partenza per questo nuovo articolo della serie fotografia e verità riprendiamo la definizione data in precedenza, ovvero definiamo fotografia come il prodotto dell’interazione della luce con un materiale sensibile. In questo quinto articolo vedremo come tale definizione porta ad includere naturalmente nella categoria fotografia tutta una serie di fenomeni che, per il senso comune, e per chiunque sia appena appena ragionevole, tutto sono salvo che fotografie.

Visto che siamo in vena di definizioni, diamo subito anche quella di fotosensibile (tratta dal vocabolario), in modo da aver fissi tutti i punti di partenza e procedere in modo rigoroso.

1) Fisicamente, chimicamente, sensibile alla luce;
2) di corpo, sostanza o dispositivo le cui caratteristiche siano modificabili dalla luce o dalle radiazioni;
3) biologicamente, di organismo, che reagisce agli stimoli luminosi.

Messe le carte in tavola veniamo subito al primo esempio. È stagione e già si vedono in giro già da un po’ persone dalla pelle arrossata, quindi parliamo dell’abbronzatura. L’esempio può far sorridere, ma basta pensarci un attimo per rendersi conto che tutti gli ingredienti ci sono. L’interazione con la luce, il materiale fotosensibile. Fra l’altro si parla di fotosensibilità chimica, esattamente la stessa delle fotografie su carta baritata.

Ragazze spiaggia
Quattro “fotografie” in fase di esposizione.
© Rooshv (creative commons)

I responsabili della colorazione della nostra pelle, oltre che a proteggerla, dai raggi UV nocivi per l’organismo, sono delle molecole del gruppo delle melanine, ovvero dei pigmenti delle famiglie dei poliacetileni o delle polianiline che hanno la proprietà di rendere bruni i loro copolimeri. Il meccanismo molecolare preciso dell’abbronzatura è ancora dibattuto dai ricercatori, però Wikipedia ci insegna a grandi linee come funziona la tintarella:

Sembrerebbe trattarsi di un’azione forse mediata dall’ormone melanocita stimolante, dalla vit.D3 o suoi derivati. Tale azione è in grado di stimolare la tirosinasi la quale converte poi il substrato iniziale, la tirosina, in dopa e poi in dopachinone. Segue, a cascata, una serie di reazioni ossidative, alcune delle quali potrebbero essere sotto controllo enzimatico, che porta alla produzione dapprima di chinoni e da ultimo, alla sintesi dei polimeri terminali deputati alla pigmentazione cutanea: eumelanina e feomelanina.

Azioni ossidative, che fanno subito pensare a tutte le tecniche di stampa ai sali ferrici, quali van dyke brown, cyanotipo, palladio e platinotipia, tutte tecniche che sfruttano il principio di ossido riduzione, proprio come la tintarella. La stampa al platino, fra l’altro, è una delle tecniche preferite dagli ortodossi della camera oscura, una di quelle considerate “più pure”. Beh, una bella ragazza abbronzata ha, dal punto di vista fotografico, la stessa purezza ontologica di una stampa al platino.

Gli scettici che si stanno agitando sulla loro sedia a causa di tali paragoni poco ortodossi, si chiederanno magari dov’è all’ora il negativo, senza pensare che, a meno la bella ragazza di cui stiamo parlando non sia nudista, al mare si va in genere col costume da bagno addosso.

Anthotipo
Anthotipo
© Hans de Bruijn

Nella definizione originale in ogni caso non si parla di negativo, ingranditore e simili, ma solo di interazione fra luce e materia. Se proprio vogliamo mettercelo sto negativo facciamo un altro esempio. Immaginiamo una casa, una finestra al sole, una tenda e un vaso posato sul davanzale. Dopo qualche mese o al massimo anno sulla tenda rimarrà l’impronta scura del vaso, ed avremo, di fatto, una bella fotografia. Fra l’altro sfruttare la perdita di colore dei pigmenti dovuta al sole è alla base dell’anthotipo, una tecnica fotografica inventata da John Herschel, lo stesso inventore del cianotipo. Un supporto viene colorato con una tintura ottenuta a base di piante, una volta esposto al sole per lunghi periodi il pigmento si scolora permettendo appunto di ottenere l’immagine, proprio come la tenda.

In questo caso comunque ci sono veramente tutti gli ingredienti presenti nella stampa fotografica tradizionale. Non si usa l’ingranditore è vero, ma la maggior parte delle tecniche di stampa utilizzate durante i primi cento anni di storia della fotografia (ancora una volta, quelle considerate “più pure”) non usano ingranditore. I materiali diffusi all’epoca infatti erano talmente poco sensibili agli ultravioletti da rendere inapplicabile l’ingrandimento. Le stampe venivano quindi tutte eseguite per contatto, utilizzando uno speciale strumento per premere insieme negativo e carta, che si chiama torchietto o pressino. Il contatto serve unicamente per riprodurre al meglio i dettagli del negativo, ma non è necessario e non è certo una delle proprietà fondamentali della fotografia. Del resto c’è chi sfrutta gli effetti del mancato contatto fra negativo e carta a fini creativi. Anni fa vidi la mostra di fotografo che metteva una biglia sotto al foglio in modo da avvallare la carta e ottenere una messa a fuoco selettiva. Non ho prove certe, ma in certi casi ho la sensazione che anche Mario Giacomelli e Raymond Meeks hanno fatto qualcosa di simile. Dall’altra parte, il contatto, anche con i migliori pressini, non è mai perfetto, soprattutto se si usano carte testurate, o che hanno la spiacevole tendenza ad imbarcarsi. Ancora una volta una frazione di millimetro in un torchietto o i centimetri del vaso non fanno nessuna differenza dal punto di vista concettuale.

Thomas Bachler
Crime scenes
© Thomas Bachler

Una delle proprietà fondamentali della fotografia citate in aggiunta a quella dell’interazione fra luce e materiale sensibile è quella dell’uso di un “dispositivo fotografico”. Magari si pensa subito alla macchina, con tutto il suo complesso corredo di autofocus, esposimetro, lenti taglienti alla linea per millimetro e via dicendo. Eppure esistono molti modo di fare fotografia ben più rudimentali, dagli utilizzatori delle macchine ottocentesche agli amanti della fotografia stenopeica, un modo di fare fotografia senza lenti, che parte solo dal principio della proiezione di un’immagine su una superficie, che già ha alcune analogie con l’ombra di un vaso proiettato su una superficie. Le macchine stenopeiche, o se vogliamo il dispositivo fotografico, possono essere veramente molto semplici. Thomas Bachler per esempio, per la sua serie Crime scenes, prepara una scatola con la carta sensibile, ci spara contro un colpo di pistola e sfrutta proprio il foro del proiettile per generare l’immagine. Ridotto al minimo il dispositivo fotografico diventa quindi o una foro (o anche fessura) per proiettare l’immagine, oppure un negativo, proprio come nel caso della tenda. L’obiettivo è un terzo modo per proiettare l’immagine, ma appunto non necessariamente l’unico. Anzi, esiste perlomeno un quarto metodo, lo zone-plate, che sfrutta la diffrazione invece della rifrazione per mettere a fuoco l’immagine.

Moholy Nagy
Fotogramma
© Moholy Nagy

Un negativo quindi è sicuramente una delle forme di base di dispositivo fotografico. Il negativo può essere incollato al materiale sensibile o posizionato un po’ lontano da questo, può essere traslucente come le lastre fotografiche al collodio oppure opaco come un vaso, ma sempre di “dispositivo fotografico” si tratta. Fotografie realizzate in questo modo infatti ne esistono a bizzeffe, dai primi esperimenti con piante e merletti che hanno segnato la nascita della fotografia e che sono stati già citati nell’articolo il disegno di luce e la persecuzione dei greci, agli esempi illustri dei radiogrammi di Man Ray, le Schadographie di Christian Schad o i fotogrammi di Moholy-Nagy. Tutti questi noti artisti in ogni caso posavano oggetti su materiali sensibili e ne registravano la traccia lasciata dalla luce sul materiale sensibile.

Radiografia
Radiografia

Un esempio infine di fotogramma cui siamo tutti familiari, un esempio in tutto e per tutto uguale a quello del vaso e della tenda sono le radiografie fatte negli ospedali. In questo caso il negativo sono le nostre ossa (e in parte minore anche i tessuti molli), e proprio come nel caso della tenda queste non sono messe a contatto con la lastra, quella che viene registrata è praticamente “l’ombra” delle nostre ossa.

Naturalmente le tende sono solo un esempio, praticamente tutti i materiali che ci circondano si scolorano alla luce, la plastica polimerizza, la vernice di una porta si scrosta, la segnaletica stradale impallidisce. In pratica siamo circondati da fotografie senza saperlo, quasi ogni oggetto su cui posiamo gli occhi è una fotografia, semplicemente l’esposizione è molto lunga e l’immagine del sole non è quasi mai a fuoco.

Dire che queste non sono foto perché l’esposizione in realtà è troppo lunga non ha molto senso, visto che i tempi di esposizione di qualunque foto, non sono mai istantanei, ma si tratta sempre di intervalli di tempo finiti e quantificabili. Se non fosse così non butteremmo mai via le foto che son venute mosse perché c’era poca luce e abbiamo dovuto utilizzare tempi lunghi. La notte poi la posa può protrarsi molto a lungo, le foto di cinema di Hiroshi Sugimoto durano il tempo di uno spettacolo e alcune fotografie di Michael Wesely addirittura anni, tanto che il titolo è la data di inizio e di fine esposizione.

Retina
Coni e bastoncelli della retina

Un esempio di “fotografie” invece che non hanno bisogno di tempi di esposizione biblici e che, a meno di patologie, non sono sfuocate, sono i nostri stessi occhi. Nella retina infatti si trovano due ricettori biologici alla luce: coni e bastoncelli. I primi, una volta stimolati dalla luce, producono un pigmento chiamato iodopsina, mentre i secondi producono la rodopsina. Quando un fotone colpisce una molecola di uno di questi due pigmenti, questa cambia la sua struttura molecolare. Questo fa partire tutta una serie di reazioni chimiche a catena che produce un’iperpolarizzazione che rende fortemente negativo il potenziale di membrana. In seguito tutta una serie di reazioni nervose hanno come risultato finale la visione del mondo che ci circonda. Quello che avviene nei nostri occhi però, di fatto, ancora una volta ha tutte le caratteristiche della definizione data per fotografia: l’interazione della luce con un materiale chimicamente fotosensibile.

Un altro esempio di fenomeni che rientra nella definizione di fotografia, fenomeni che non sfruttano semplicemente l’interazione di pigmenti e luce sono le foreste e le piante in generale. Una pianta al sole cresce, ovvero modifica se stessa. Ci vogliono i sali minerali e l’acqua perché ciò sia possibile, ma anche alle foto sono necessari i bagni di sviluppo, che spesso non sono altro che sali sciolti in acqua. Di fatto quindi il pratino intorno a casa è lui stesso una fotografia.

Foresta
Tutte le piante "sono fotografie".

A questo punto gli scettici diranno che le foreste non sono un’immagine, sono dei corpi tridimensionali nello spazio. Ancora una volta sarebbe necessario fare delle aggiunte alla definizione, dire che non basta che la fotografia sia un prodotto dell’interazione della luce, ma deve essere un’immagine e bidimensionale. Se proviamo a definire immagine entriamo in un altro vespaio simile a quello che ci ha portato la ricerca di una definizione di fotografia, e in ogni caso ci sono moltissimi esempi di fotografie che non sono assolutamente bidimensionali. La stampa al carbone sfrutta proprio lo spessore della gelatina per costituire l’immagine, anzi, questa è proprio una delle caratteristiche che ne fanno la bellezza e che la rendono così appetibile ai maghi della camera oscura tradizionale. Le stesse fotografie ai sali d’argento e i negativi in un certo senso creano l’immagine grazie allo spessore dello strato d’argento, quindi sono solo macroscopicamente bidimensionali. Lo scarto fra le frazioni di millimetro in gioco in queste fotografie e i centimetri dell’erba di un prato ancora una volta da un punto di vista concettuale non fanno alcuna differenza. È comunque facile immaginare una stampa al carbone fatta con gelatina talmente scarica di pigmento da far diventare le stampe macroscopicamente tridimensionali.

Bene, siamo già nell’assurdo più completo, visto che siamo già arrivati a definire fotografie tutti i materiali che reagiscono alla luce, comprese le piante. Ma cosa succede se prendiamo anche le altre due possibili espressioni di fotosensibilità, ovvero quella biologica e fisica? Nel primo caso, volendo esagerare un po’, la meteoropatia è anch’essa fotografia, quando piove per giorni e ci sentiamo depressi perché ci manca il sole il nostro stato psicologico è pure lui una fotografia. Di fatto, è una razione di un materiale sensibile (noi, il nostro corpo e la nostra mente) alla luce del sole.

Per quanto riguarda la fisica gli esempi comunque sono molto più plausibili. Ogni impianto fotovoltaico allora è una fotografia, la temperatura che aumenta di un secchio d’acqua messo al sole fa di esso una fotografia, un optoisolatore è una fotografia, i ghiacciai che fondono (cambiamento di fase, da solido a liquido) sono fotografie.

Circolazione atmosferica
Schema della circolazione atmosferica globale.

Ma anche il vento stesso è una fotografia. Il motore della circolazione globale sulla terra è infatti il sole. Semplificando si può dire che il suolo si riscalda il suolo diversamente secondo la latitudine: forte flusso termico all’equatore e ai tropici e via via sempre meno se si va verso i poli. Il suolo caldo riscalda anche l’aria a contatto di esso, che diventa più leggera e per il principio di Archimede si innalza verso le parti alte dell’atmosfera. Visto che per continuità quest’aria deve necessariamente essere rimpiazzata da altra aria, si crea, oltre al movimento ascensionale, anche uno spostamento orizzontale di masse d’aria. Poi la rotazione della terra e la forza di Coriolis fa il resto, deviando i venti e creando per esempio gli Alisei, venti che hanno reso possibile le rotte di navigazione del passato. Lo stesso fenomeno ma ha scala ridotta è ben noto del resto ai velisti, la brezza termica ha esattamente la stessa origine, l’unica differenza è che il gradiente di temperatura invece che essere nord-sud è fra mare e terra. Ebbene, il vento alla fine dei conti è il prodotto della luce (energia solare) su un materiale sensibile (il suolo, che reagisce scaldansoi all’irraggiamento solare), quindi a rigor di logica anche il vento è una fotografia!

Si potrebbe obiettare che la risposta biologica e la fotosensibilità fisica niente hanno a che vedere con la fotografia, che è necessaria della fotosensibilità chimica (ancora un’aggiunta alla definizione, alla faccia che la discriminante è quindi la luce). In ogni caso ci si restringe al chimico gli occhi fanno comunque fotografie, la pelle abbronzata, i materiali che stingono restano comunque fotografie. Ma è comunque difficile restringersi solo alla fotosensibilità chimica. Infatti, sebbene non conosca nessuna tecnica di stampa biologica, esistono un discreto numero di tecniche fotografiche (e varianti di queste) che fanno uso di modifiche fisiche del materiale per produrre l’immagine. Le tecniche antiche (utilizzate per decenni prima della nascita della fotografia ai sali d’argento come la conoscono tutti) si dividono infatti in due grandi categorie: quelle ai sali metallici e quelle ai colloidi. In quest’ultima categoria rientrano la già citata stampa al carbone, la gomma bicromata, quella alle polveri e le resinotipie.

Resinotipia
Resinotipia
© Alberto Novo

Nel caso della stampa al carbone e della gomma, un colloide, gelatina nel primo caso, gomma arabica nel secondo, in presenza di dicromato di potassio diventa insolubile. L’immagine viene quindi creata sfruttando lo spessore dello strato di colloide, che trattiene in misura più o meno minore un pigmento aggiunto alla mescola. Nel caso della stampa alle polveri si sfrutta la proprietà della gomma arabica di divenire più o meno appiccicosa. Nella resinotipa, ideata da Rodolfo Namias attorno agli anni 20 del secolo scorso, si sfrutta il rigonfiamento della gelatina, ovvero le differenze di igroscopicità di questa. Esistono poi infinite varianti, stampe alla caseina, alla tempera, all’“uovo intero”, stampe alle polveri o resinotipie di Obernetter, di Sobacchi, Giuseppe Devincenzi etc.

Il meccanismo di cross-linking che porta all’indurimento della gelatina non è ancora noto in dettaglio, ma si tratta di legami fra molecole, che determinano poi le caratteristiche di durezza, viscosità, idrofilia, dello strato della gelatina. Si tratta in parte di modifiche chimiche in parte di modifiche fisiche, ma in ogni caso tutte le tecniche citate utilizzano le caratteristiche fisiche del supporto al fine di creare l’immagine.

Se si accetta poi che le stampe digitali a base di inchiostro sono comunque fotografie anche quelle stampate con una stampante laser lo sono, e questa utilizza un processo fisico e non chimico per produrre l’immagine. Semplificando il funzionamento di una stampante laser infatti è il seguente: un raggio laser viene modulato secondo l’immagine che deve essere stampata e viene inviato su un tamburo elettrizzato che si scarica dove viene colpito dal raggio luminoso. I pigmenti (polverizzati assieme ad altri materiali sintetici) ovvero il toner, vengono attirati grazie all’elettricità statica sul tamburo. Questi poi vengono trasferiti su carta e infine un rullo fonde il toner per fissare l’immagine sulla carta.

 

Concludiamo questo articolo un po’ pazzo anticipando una domanda dei lettori. Sei serio quando dici che anche le piante sono foto e addirittura il vento è una fotografia? Non ti sembra un’assurdità?

Mike Wesely
© Mike Wesely

Certo che è un’assurdità, ma finalmente stiamo entrando nel pieno appunto della nostra controdimostrazione per assurdo. Lo scopo di questo articolo non è voler dimostrare che il vento o la depressione sono delle fotografie, ma piuttosto mettere in luce le difficoltà cui si va in contro cercando di definire in modo univoco la fotografia. Seguendo la logica dell’interazione con la luce le stampe inkjet che si vedono nei musei di fotografia non sono foto ma “altro” mentre il vento che ci soffia in faccia d’inverno è una foto. Più assurdo di così faccio fatica a immaginarlo.

Ogni definizione che si rispetti deve essere breve e sintetica, includere tutte le accezioni possibile e escludere ciò che non deve rientrare nella categoria. La frase lapidaria che vuole la fotografia come unico prodotto dell’interazione con materiale sensibile di per se include un’infinità di fenomeni che chiaramente niente hanno a che vedere con la fotografia. Per venirne fuori si è tentati di aggiungere una serie di distinguo: sensibilità solo chimica e non fisica, tempi di esposizione brevi, spessore al di sotto del millimetro, etc. Questo da una parte mina la brevità della definizione e rende necessari tutta una serie di distinguo, dall’altra è facile trovare controesempi di tecniche veramente fotografiche che non rispettano queste presunte caratteristiche fondamentali della fotografia che ci si vede obbligati ad aggiungere per evitare di includere tantissimi fenomeni naturali nella categoria fotografica.

Tutta la difficoltà nasce dall’eterogeneità e varietà dei procedimenti fotografici. La nostra definizione deve per forza di cose poterli includere tutti, e se vogliamo farlo è necessario essere sufficientemente generali, quindi nella nostra categoria rientrano tutta una serie di fenomeni che poco o nulla hanno a che fare con la fotografia. Nel prossimo articolo vedremo che si ha anche il problema esattamente opposto, volendo essere rigorosi infatti, la definizione data non solo è troppo larga, ma è anche troppo stretta. Non si tratta unicamente delle stampe a getto di inchiostro, vedremo che la definizione non include praticamente niente di quello che si intende generalmente per fotografia!

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L’ironia del nuovo, fra tradizione e innovazione /it/2008/ironia-nuovo-tradizione-innovazione/ /it/2008/ironia-nuovo-tradizione-innovazione/#comments Mon, 12 May 2008 10:49:57 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=372 julien benhamou
© Julien Benhamou

Un paio di settimane fa volevo scrivere un articolo sulla serie di ritratti Symétries di Julien Benhamou, o al limite contattarlo per un’intervista. Conosco abbastanza bene i suoi ritratti, che si vedono ogni tanto per le mostre di Parigi o sulle riviste di fotografia. Questa serie invece è stata una piacevole scoperta, trovata grazie a ZoumZoum, nuovo blog sulla fotografia di Libération.

Il ritratto, come il tema del doppio, del prima o del dopo, è caro a Julien Benhamou. Questa nuova serie però mi subito colpito. Questi doppi visi, così simili e così diversi. Tanto uguali da sembrare fratelli, forse gemelli, tanto uguali da esser quasi la stessa persona, se non fosse per quella sensazione strana, l’impressione che c’è qualcosa che non va, come dicono i francesi, quelque chose qui cloche. Mi chiedevo se fosse lo stesso volto trafficato con Photoshop, oppure davvero gemelli, o persone che si assomigliano in maniera sorprendente.

La spiegazione invece è semplice, i ritratti sono fatti tagliando il due il volto secondo un asse verticale, e incollando la parte sinistra con la riflessione di se stessa, e lo stesso per la parte destra. In pratica creando due simmetrie perfette dall’asimmetria del nostro volto.

Takahashi Kazuumi
© Takakashi Kazuumi

L’idea mi è subito piaciuta tantissimo. Per quanto semplice e di facilissima realizzazione, mi è piaciuto l’impatto visivo, la trasparenza teorica. Il fatto che subito si è stimolati personalmente, ci si chiede che cos’è, come ha fatto. Quando poi si scopre la procedura, dopo un sorriso, si pensa subito al tema del doppio, della personalità, oppure, come vuole l’autore, ai canoni greci della bellezza. Insomma, quante volte, negli statment, si legge “questo lavoro vuole essere una riflessione sul pincopallino a sinistra” quando è veramente duro capire, tramite quelle immagini, come portare avanti una riflessione sul soggetto in questione. Nel caso di Simmetrie invece mi pare che la riflessione nasca al volo, e questo è il pregio che ho trovato in queste fotografie.

Stavo quindi iniziando a pensare ad un articolo. Se metterlo nella categoria attorno ad un’immagine, oppure no, visto che più di una fotografia quello che mi ha colpito è un’idea, l’idea che è dietro tutta la serie.

Dionisio Gonzales
© Dionisio Gonzales

Con questi pensieri in testa sono andato ad aiutare un amico a fare un lavoretto di informatica. Il fratello di sua madre era purtroppo morto, qualche giorno prima, per un attacco di cuore. Lo zio era una persona creativa, che realizzava, per piacere personale, dei video con montaggi ed effetti speciali, a detta del mio amico molto belli ed originali. La famiglia voleva recuperare tali video per ricordo, l’unico problema è che il computer era protetto da una password e nessuno la conosceva. Il mio amico mi ha quindi chiesto se sapevo come fare per accedere al materiale.

Niente di più semplice. Con Linux ho resettato la password di Windows e meno di cinque minuti dopo abbiamo iniziato a cercare, senza successo, i famosi video dello zio. Devo dire che mi ha fatto un effetto strano, mi sono sentito, se non in colpa, perlomeno imbarazzato. Entrare nel computer di una persona appena morta, vedere molte fotografie personali fino ad allora tenute segrete, mi è sembrato un atto terribilmente impudico. Quello che stavamo facendo era esplorare i resti della vita virtuale di una persona, una vita virtuale che spesso diventa importante quasi come quella reale.

Gian Paolo Tomasi
© Gian Paolo Tomasi

Ma non è di questo che volevo parlare. Cercando i video siamo finiti in una cartella con delle fotografie e la cosa sorprendente è che una conteneva una serie di immagini realizzate esattamente seguendo la stessa identica procedura di Julien Benhamou. Aggiungendo, se vogliamo essere maligni, che lo sconosciuto zio del mio amico le aveva realizzate una decina d’anni prima di questo promettente giovane fotografo.

Mi hanno sempre stupito le coincidenze. Mi capita spessissimo di pensare ad una cosa e vedere qualcos’altro che la ricorda, canticchiare, per dire, Imagine e sentire qualcuno nel metro dire “Ho appena comprato un libro sui Beatles”. Non sono superstizioso, ma davvero sembra che a volte il mondo si concentri e si annodi su degli aggregati di senso. Rimango favorevolmente colpito dal lavoro di un fotografo, mi giro già in testa le frasi che voglio scrivere e qualche minuto dopo trovo, frugando nel computer di un morto, la stessa identica idea.

Franco Fontana
© Franco Fontana

Ma cosa bisogna pensare di tutto ciò? L’impressione favorevole deve essere cancellata perché Julien Benhamou non è stato il primo ad averla? Oltre allo zio del mio amico, quante altre persone l’avranno già avuta e realizzata?

Mi viene subito in mente una frase di Picasso, anche se non so se è una citazione apocrifa o se l’ha detta veramente lui.

Se hai una buona idea l’hanno sicuramente già fatto in dieci, se invece hai un’idea geniale, stai sicuro che l’hanno già fatto in cento.

Alla fine conta davvero trovare qualcosa di completamente e sconvolgentemente nuovo? È ancora possibile?

Tempo fa, visto che sono un grande amante del mare, scattai molte foto dell’orizzonte, con l’idea di ridurre il mare al minimo, all’essenza, a segno astratto, a niente più di una sensazione che va a braccetto con il grigio del cielo, quella sottile malinconia del mare nei giorni di pioggia. Iniziai a creare piano piano una serie di paesaggi vuoti, paesaggi marini in prevalenza, provenienti da ogni parte del mondo.

Andreas Gursky
© Andreas Gursky

Quando iniziai credo che non sapessi nemmeno chi fosse Franco Fontana, mentre in seguito avevo presente unicamente il suo famoso lavoro sulle colline toscane e le sue geometrie urbane. Una volta poi, dopo aver scattato decine e decine di foto per la mia serie, sono capitato davanti a delle fotografie di Fontana. Fotografie del mare in tutto e per tutto simili alle mie. Ne rimasi molto deluso, perché era una serie su cui riposava qualche piccola ambizione. Già mi immaginavo delle stampe molto grandi, in una galleria spaziosa, dai muri tutti bianchi. Invece le stesse foto erano già state fatte trent’anni prima e per giunta da un fotografo italiano. Progetto da abbandonare, settimane di lavoro inutili. Oltre alla delusione però un pizzico di orgoglio, perché avevo reinventato, indipendentemente, un lavoro dei più grandi e noti fotografi italiani della storia. Se le sue foto avevano raggiunto quel livello lì, allora non era poi una pessima idea. Peccato averla avuta troppo tardi.

Hiroshi Sugimoto
© Hiroshi Sugimoto

Abbandonai allora il progetto. Eppure spesso mi capita di vedere le stesse foto del mare, la stessa purezza e semplicità, la sola linea di orizzonte, fotografie esposte e pubblicate, spesso anche di nomi noti. Ma come fanno? Per loro non vale la regola di essere arrivati dopo? Giusto per citare i primi che mi vengono in mente: Hiroshi Sugimoto con i suoi seascapes oppure alcune fotografie di Kazuumi Takahashi. Anche Edgar Martins volendo costruisce molte sue foto nello stesso modo, e nella serie The accidental theorist la somiglianza diventa ancora più forte. Fra le varie splendide foto del suo portfolio Simon Norfolk ne mostra anche alcune del mare, semplici ed essenziali come quelle di Fontana. Oppure, per citare altri esempi, Gursky e Massimo Vitali non hanno forse lavorato entrambi sulle discoteche, con intenti e risultati visivi molto vicini? Gli any male di Didier Rillouz non ricordano almeno in parte gli ibridi di Daniel Lee?

Natalie Czech
© Natalie Czech

Mi chiedo allora se è davvero possibile fare qualcosa di completamente nuovo. Mano a mano che si approfondisce la conoscenza della storia della fotografia, ci si accorge che quasi non esistono autori usciti dal nulla, ma che nella maggior parte dei casi si muovevano all’interno di correnti, di uno spirito di ricerca comune, che esistono stili e fotografie che si assomigliano, a volte così tanto da sembrare quasi uguali, proprio come le fotografie del mare.

Ma è così importante poi? Ogni autore si è mosso seguendo la propria sensibilità, ha scavato un lato del tunnel che non è necessariamente quello degli altri. I risultati poi, anche partendo da un punto comune, a volte sono visivamente diversi, a volte concettualmente distinguibili, a volte l’uno e l’altro. In altri casi poi gli autori sono arrivati allo stesso epilogo indipendentemente. Ha senso chiedersi allora chi ci è arrivato prima? Non hanno entrambi lo stesso merito? Non è che siamo ossessionati dalla ricerca del nuovo a tutti i costi? Dopo Duchamp cosa possiamo fare di nuovo?

Franco Fontana
© Franco Fontana

Già dieci anni fa, in occasione di uno dei miei primissimi viaggi, appuntando nel mio moleskin tutte le idee e impressioni nate dalle visite dei musei di Monaco, scrissi:

Morte al nuovo, viva il bello.

Adesso penso che comunque dei modi di innovare ci siano, che i lavori rimangano personali, pur muovendosi all’interno d i un ambiente che è già stato percorso. Si ha lo stesso materiale che hanno tutti a disposizione e lo si rimpasta e lo reinventa nel proprio modo personale. L’importante è non copiare deliberatamente. È un equilibrio sottile fra innovazione e muoversi in un ambito comune. Le foto del mare erano troppo uguali, ma è normale che negli altri casi si possano trovare assonanze fra i lavori di diversi autori.

Pascal Hausherr
© Pascal Hausherr

Per questo motivo sorrido, quando la gente vuol dire a tutti i costi “ah si, assomiglia al tal dei tali”. È un giochetto che si può fare sempre, e funziona più o meno bene, il paragone è più o meno azzeccato, ma sempre possibile, perché nessuno vive tutto solo nell’universo, alla fine siamo tutti fotografi, quindi almeno un punto in comune ce l’abbiamo: usiamo tutti la macchina fotografica.

Mi capita di sentirmelo dire anche a me, per esempio in merito alla serie dei palazzi infiniti. È logico che conosco il lavoro di Gursky, e nelle mie foto dei palazzi c’è lo stesso gusto asettico, freddo e frontale che deriva dalla scuola di Dusseldorf, ma questo non toglie che l’intento, il procedimento, le ripetizioni, l’uso di palazzi antichi posizioni il mio lavoro in un ambito molto diverso. Altre persone invece vedono una somiglianza dei palazzi infiniti con Giacomo Costa o Alessandro Cimmino. Quando mi venne l’idea del lavoro sui palazzi ancora non conoscevo né l’uno né l’altro e infatti il risultato visivo è profondamente diverso, come poi le motivazioni e la giustificazione teorica che sta dietro al lavoro.

Ancora una volta però, non sono certo l’unico al mondo a incollare pezzi di foto, basti citare il lavoro assolutamente geniale di Chris Jordan sulle statistiche americane, oppure le foreste incantate di Ruud Van Empel, la gestione dello spazio delle favelas di Dionisio Gonzales, l’ambientazione moderna dei quadri antichi di Emily Allchurch, i paesaggi e le modelle perfette Gian Paolo Tomasi, gli elementi seriali di Mario Rossi, “niente può cambiare questo mondo” di Natalie Czech, e via dicendo.

Gian Paolo Tomasi
© Gian Paolo Tomasi

Eppure ogni autore ottiene risultati diversi, perché sta esprimendo in primo luogo se stesso.

Direi quindi che ci vuole giusto un minimo di equilibrio e senso comune. È logico che lavori di molti artisti si assomiglino, partano da basi comuni. Alcuni sono più legati alle tradizioni, altri più innovativi. Quando non c’è plagio, quando non si cerca di copiare il lavoro altrui, quando un prodotto è un frutto di lavoro genuino, pazienza se non è rivoluzionario. Credere di essere diversi da tutti è anche abbastanza illusorio. Ci si muove sempre all’interno di una rete di contatti, quello che facciamo è basato sempre su tutto quello che abbiamo assimilato prima. L’importante è mettere nel nostro lavoro un pizzico di originalità, quel fattore distintivo che permette di spingere i limiti più in la, di fare un passo diverso, che ancora non era stato fatto. Quando poi capitiamo su qualcosa che invece era veramente già stato fatto, come i mari, pazienza, tocca passare ad un altro progetto.

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Fotografia e verità 4: le non-foto inkjet e le foto-vere di Chuck Close /it/2008/fotografia-verita-chuck-close/ /it/2008/fotografia-verita-chuck-close/#comments Thu, 08 May 2008 19:05:32 +0000 Fabiano Busdraghi /?p=364 Chuck Close
Olio su tela
© Chuck Close

In questo quarto capitolo della serie su fotografia e verità, riprendiamo la nostra dimostrazione per assurdo, ovvero cerchiamo di dare una definizione univoca di cosa sia la fotografia, basata su una delle proprietà fondamentali di questa. Mettiamoci per un momento nell’ottica di chi usa tale definizione per legittimare la propria pratica a discapito delle altre, diverse, che disaprova. Questo, di fatto, è proprio l’atteggiamento che vorremmo confutare con tutta questa serie di articoli. L’obiettivo non è stabilire chi ha ragione e chi ha torno, ma vedere meno pregiudizi e una fruizione più rilassata e aperta del complesso panorama fotografico.

Una delle definizioni tentate per la fotografia, anzi, probabilmente la più popolare, è quindi quella che dice: è vera fotografia l’immagine prodotta unicamente dall’interazione della luce con un materiale sensibile.

È una definizione particolarmente congeniale alla maggior parte degli stampatori moderni che usano le tecniche antiche e agli adepti della camera oscura. Spesso infatti questa definizione è usata polemicamente contro la stampa digitale a getto d’inchiostro. In questo caso è evidente l’interesse personale degli stampatori di tecniche antiche nell’adottarla come unica definizione di “fotografia”. Da una parte c’è il loro lungo e complesso lavoro manuale, le ore passate in camera oscura, gli esperimenti, il prezzo esorbitante di certa chimica, come i sali di platino, della carta acquarello, del materiale necessario per mettere in pratica tutta quest’antica arte, tutto questo sapere artigianale. Dall’altra, almeno nell’immaginario degli stampatori di tecniche antiche e dei vecchi guru della camera oscura, visto che in realtà è più complicato, dall’altra parte dicevo, c’è l’idea di premere un bottone e vedere un prodotto che esce direttamente dalla stampante, una stampa completamente meccanica.

Stampante Epson
Stampa a getto d'inchiostro.

Ecco allora la tentazione comprensibile di dire che questa non è fotografia. Il risultato è che il loro prodotto ha un grande valore, si riconosce all’interno di un filone storico importante, con tutte le sue tradizioni e blasoni, dall’altro lato si tratta invece di poco più di una fotocopia, di un prodotto artificiale e poco nobile, senza fascino.

Stiamo al gioco, almeno per un momento. La logica seguita è questa: la stampa digitale a getto d’inchiostro non utilizza in nessun momento l’interazione fra la luce ed un materiale sensibile. L’inchiostro viene finemente spruzzato sulla carta, in un procedimento meccanico tipografico e non fotografico. La stampa a getto d’inchiostro è quindi più vicina alla pittura o alla riproduzione di un quadro in un libro d’arte. Si tratta di un disegno precisissimo fatto da una macchina, il disegno di una fotografia, ma non è una fotografia vera e propria, appunto perché in nessun momento entra in gioco l’interazione fra luce e materiale sensibile.

Shi Xinning
© Shi Xinning

Questo in sintesi, è l’argomento che usano molti stampatori di tecniche antiche o tradizionalisti ortodossi della camera oscura contro la stampa a getto d’inchiostro. Basta una semplice ricerca in forum o mailing-list come apug o Alt-photo-process-l , per trovare pagine e pagine su questo argomento, fiumi e fiumi di inchiostro virtuale versato, per dimostrare che le stampe a getto d’inchiostro non sono fotografie e fregiarsi del titolo di “ultimi veri fotografi”.

La cosa di fatto ha la sua logica. Basta pensare alla tecnica delle griglie usate da Chuck Close, o a molti altri pittori hyper-realisti che hanno lavorato a partire da fotografie, dipingendo su fotografie o utilizzando tecniche di griglie. Una fotografia viene proiettata a forte ingrandimento su una tela di grandi dimensioni, divisa in tanti minuscoli quadretti. Il pittore riempe ogni quadretto con il colore che più si avvicina a quello della fotografia. Una volta finito il quadro questo assomiglia incredibilmente alla fotografia di partenza. Nel caso di alcuni dei dipinti di Chuck Close, che ho avuto modo di ammirare dal vivo, il risultato è così fine da essere virtualmente indistinguibile da una vera fotografia.

L’analogia con la stampa inkjet non potrebbe essere più completa, senza contare che fra le varie griglie usate da Cuck Close ci sono pure le griglie CMYK, esattamente le stesse delle stampanti a getto d’inchiostro. L’unica differenza è la velocità, ma dal punto di vista concettuale i 5 minuti necessari a una stampante desktop e i mesi necessari al pittore non fanno alcuna differenza. In entrambi i casi un colore viene applicato su un supporto, ricalcando una fotografia originale. Questa è interpretata tanto dal pittore, che sceglie il colore ad olio appropriato, quanto dal driver di stampa, che cerca di trasformare nel modo migliore un file RGB in uno CMYK, e la dimostrazione più lampante è l’esistenza dei profili ICC di stampa.

A rigor di logica quindi, se si vuole dire che le stampe inkjet sono fotografie allora anche i quadri di questo pittore lo sono. Ma questa è una difficoltà per chi è di vedute più lasche rispetto ai talebani della camera oscura, per loro inkjet non è fotografia quindi il problema dei quadri non si pone. Anche i grandi fautori della fotografia pura però hanno le loro magagne da risolvere.

Prima difficoltà: la maggior parte delle persone che entrano in una galleria o in un museo e vedono appesa alle pareti delle stampa a getto di inchiostro però le identificano immediatamente come fotografie. Magari è perché sono ignoranti e non sanno cosa sia una gomma bicromata, un kallitype o un’albumina, però difatto, per il 99% della popolazione mondiale, e per la stragrande maggioranza anche dei fotografi, le stampe inkjet sono delle fotografie.

Questo perché le stampe a getto d’inchiostro condividono le caratteristiche fondamentali citate negli articoli precedenti, primo fra tutti l’estrema somiglianza con il reale. Per una definizione che ricalchi il senso comune sembrerebbe quindi necessario non utilizzare un’unica proprietà fondamentale, quella dell’interazione fra luce e materiale sensibile, ma ricorrere anche ad altre proprietà. Il che rende le cose complicate, perché si entra in una marea di distinguo. È facile infatti trovare esempi di fotografie “pure” (nel senso prodotte esclusivamente dall’interazione della luce con un materiale sensibile) che non assomigliano nel senso iconico a fotografie, le stesse gomme bicromate per chi non ha esperienza di tecniche antiche di stampa sono quadri e non fotografie. Il che rende opinabile la dicitura “fondamentale” per questa seconda proprietà. Si dovrebbe dire, insomma, che in certi casi la fotografia ha certe proprietà, in altri meno, in altri quella proprietà li non ce l’ha per niente… e via dicendo. E tutto questo puzza parecchio, le definizioni non possono essere un elenco di casi particolari, eccezioni e classifiche particolari.

Questo è un secondo campanello d’allarme che indica che trovare una definizione unica e coerente è estremamente difficile. La necessità di ricorrere a una moltitudine di definizioni non sempre valide verrà comunque discussa con maggior dettaglio in futuro, per il momento limitiamoci alle stampe inkjet, citando due prime difficoltà: secondo la definizione dell’interazione con la luce non sono fotografie ma molti le percepiscono come tali, il che renderebbe necessario l’uso di una moltitudine di definizioni particolari.

© He Sen

Dal punto di vista visivo quindi, a primo colpo d’occhio e per i non addetti ai lavori, una fotografia stampata utilizzando un ingranditore e una stampa a getto d’inchiostro sono molto simili fra loro. La differenza esistenti come il tipo di carta, la resa dei colori, il contrasto, etc, non sono assolutamente sufficienti a stabilire quale sia una fotografia e quale no, il distinguo è a priori e riguarda il modo in cui queste due stampe sono state ottenute: una tramite un procedimento fotosensibile, l’altra tipografico. Colgo l’occasione per aggiungere che nei musei e nelle gallerie si vede spesso un terzo tipo di stampe: le stampe lamda o più precisamente lightjet. Si tratta di stampe su carta sensibile ma esposte digitalmente, utilizzando dei laser rossi, verdi e blu. Dal punto di vista della definizione basata sull’interazione fra luce e materiale sensibile sono vere e proprie fotografie, ma dal punto di vista operativo non cambia niente per un fotografo se vuol far stampare a getto di inchiostro o lambda, si tratta sempre di un procedimento completamente meccanico e pilotato da un computer, cosa che vanifica i tentativi dei guru della camera oscura di gettare cattiva luce sulle tecniche moderne sfruttando unicamente la definizione originaria della fotografia. Da una parte le stampe all’ingranditore sono fotografie, le lambda pure, le getto d’inchiostro no, cosa stupefacente per la maggior parte delle persone su questa terra.

L’equivoco, almeno in parte, nasce dalla confusione fra stampa e fotografia. Mentre per fotografia si intende generalmente tanto la stampa quanto l’immagine fotografica in sé, indipendentemente dalla tecnica di riproduzione, una stampa a getto di inchiostro non è niente di più e niente di meno che la realizzazione di una stampa tramite una certa tecnica, tecnica non strettamente fotografica secondo la definizione data.

Prima pagina di Repubblica
Le fotografie sui quotidiani e le riviste non sono fotografie.

Quando guardiamo la fotografia di un politico stampata su di un quotidiano, riconosciamo in essa una fotografia, anche se di fatto si tratta di una riproduzione meccanica di cattiva qualità, di quella che dovrebbe essere la vera fotografia. La parola fotografia è stata utilizzata quindi per identificare tanto la fotografia originaria quanto la riproduzione di questa, quanto infine la fotografia in senso astratto.

Dire che fotografia è una stampa realizzata grazie all’interazione fra luce e materiale sensibile equivale a ricondurre unicamente la fotografia al suo supporto, operazione almeno in parte riduttiva.

Questa è una terza difficoltà nel tentativo di dare una definizione univoca. Fra l’altro è una difficoltà intrinseca. Le prime due possono essere messe da parte dicendo che la maggior parte della popolazione mondiale, compresi fotografi, curatori di musei, giornalisti, e via dicendo, non sa cosa sia la vera fotografia (Perdonali o Signore perché non sanno quello che fanno). Chi crede di essere l’unico portare della verità può sempre arroccarsi sulla definizione data e festa finita. Per quanto riguarda questa terza difficoltà invece c’è poco da fare, la definizione identifica completamente la fotografia con la sua stampa.

È fotografia allora la stampa o l’immagine fotografica in se? Come è possibile definire le caratteristiche dell’immagine fotografica indipendentemente dal supporto?

Per quanto mi riguarda ho molte difficoltà a separare la fotografia in senso astratto dal suo supporto, e questo è dovuto al fatto che storicamente si chiama fotografia sia l’una che l’altra. Allo stesso tempo in moltissimi casi si parla di fotografia indipendentemente da questo. Per il momento accantono anche questo problema. Mi limito a segnalare che questa è già la terza difficoltà che incontriamo in questo articolo, una difficoltà fra l’altro intrinseca nel definire cosa sia fotografia utilizzando unicamente la semplicissima definizione di interazione fra luce e materia sensibile.

Queste tre problematiche, per i miei gusti, sarebbero già di per sé abbastanza per finire la mia dimostrazione per assurdo e concludere che non vale la pena disquisire cosa sia o non sia fotografia, utilizzando l’appartenenza a questa classe per dare valore a un prodotto rispetto ad un altro. Non sarebbe più semplice dire che le stampe all’ingranditore sono quello che sono, quelle lambda e inkjet pure, quelle del pittore sono prodotte col metodo eseguito punto e basta? Non sarebbe meglio limitarsi ad ammirare le belle fotografie o quadri, in qualunque modo essi siano stati ottenuti, invece che disquisire cosa sia o non sia fotografia?

Ma continuiamo con la definizione dogmatica e vediamo a che punto arriviamo. Vedremo che da una parte la definizione è troppo vasta e dall’altra invece troppo restrittiva per essere rigorosa e allo stesso tempo includere ciò che per il senso comune, anche del più integralista stampatore di camera oscura, è fotografia. Appuntamento alla prossima puntata.

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Fotografia e verità 3: il disegno di luce e la persecuzione dei greci /it/2008/fotografia-verita-disegno-luce/ /it/2008/fotografia-verita-disegno-luce/#comments Sun, 04 May 2008 09:21:01 +0000 Fabiano Busdraghi /2008/estetica/fotografia-e-verita-3-disegno-di-luce/ la prima foto
Probabilmente la prima fotografia della storia.
Joseph Nicéphore Niépce, 1826.

Continuiamo questo viaggio nel rapporto fra fotografia e verità, ricordando che il fine ultimo di questa serie di articoli è il tentativo di mettere in evidenza la difficoltà di dare una definizione univoca di cosa sia e cosa non sia la fotografia con la effe maiuscola. Che l’atteggiamento di sdegno nei confronti di certe pratiche fotografiche sia difficile da giustificare razionalmente, che tanto vale allora accettare in modo aperto le varie contaminazioni offerte oggi dalla fotografia contemporanea.

Prendiamo spunto da uno dei fatti peculiari descritti alla fine dell’ultimo articolo: le fotografie sono immagini ottenute a partire da un’interazione fra luce e materiale sensibile. Fu proprio questa constatazione evidente che dettò il nome fotografia. L’etimologia del termine viene spesso citata per decidere cosa sia e cosa non sia fotografia. Prima di discutere in pratica se l’interazione fra luce e materia permetta di tale definizione vale la pena fare alcune precisazioni sulla questione etimologica stessa.

 

L’origine del termine fotografia è nota a tutti, dal greco phos (genititivo photos) luce e graphia da graphos disegno, dipingo, rappresento.

fotogramma Talbot
Molte delle primissime fotografie sono “disegni fotogenici” di piante e foglie.
William Fox Talbot

Le prime fotografie della storia furono inventate appunto per trovare un modo per disegnare automaticamente con la luce, per fare fotocopie, riprodurre incisioni e in seguito riprodurre il reale. Questo atteggiamento riflette le aspettative di tutta un’epoca. L’idea che la fotografia sia un modo per riprodurre la realtà molto più veloce, preciso e fedele del bozzetto di un pittore.

Il termine disegnare poi non è casuale ed è dovuto probabilmente al fatto che le prime immagini fotografiche fossero monocromatiche -come il disegno appunto- e non a colori come la pittura. La fotografia quindi all’inizio viene inventata da qualcuno che cerca un metodo veloce e preciso per ottenere disegni sfruttando la luce del sole.

L’equivoco che ci proponiamo di confutare con tutta questa serie di articoli nasce proprio qui, alle origini della fotografia. Dall’idea che la fotografia sia una riproduzione estremamente fedele della realtà è derivata l’idea che sia una riproduzione completamente fedele della realtà, tanto da identificarla con la realtà stessa. E dall’idea che tale disegno sia parzialmente automatico è discesa quella che lo vuole completamente automatico.

Bisognerebbe ricordarsi che quello che si cercava di ottenere all’inizio, quello che è contenuto nell’etimologia del termine, era solo un disegno della realtà, non la realtà stessa, quindi sempre un oggetto, e un oggetto che inizialmente veniva appunto identificato con un disegno fatto a mano con straordinaria precisione. E l’etimologia non contiene nessun riferimento all’automaticità del disegno.

foglia Wedgwood
Un disegno fotografico forse antecedente alla nota fotografia di Niépce
Thomas Wedgwood

L’identificazione fra disegno di luce e realtà che esso rappresenta è avvenuta prestissimo, forse quasi in contemporanea con la nascita delle prime immagini fotografiche. Ma tutte le persone che storcano la bocca di fronte agli interventi di ritocco al computer o agli interventi pittorici, rifugiandosi nella definizione etimologica della fotografia per dire che “quelle” non sono foto, dovrebbero riflettere al fatto che in realtà la definizione originale della fotografia non è “copia con la luce” ma “disegno con la luce”. L’identificazione di fotografia e realtà, come l’idea che il disegno di luce avvenga in modo completamente automatico, seppure storicamente si siano radicate rapidamente, sono solo successive. Inizialmente si trattava di disegni, né più né meno.

Lo stesso Fox Talbot, fondando la prima rivista fotografica della storia, gli diede il nome The pencil of nature, ovvero la matita della natura. Certo, Talbot dovette specificare che le illustrazioni della rivista erano prodotte automaticamente dalla luce del sole e non a mano da un incisore. Automaticamente però nei confronti del lavoro manuale di un litografo, in realtà quell’automaticamente nasconde tutto il laborioso (nei confronti della fotografia odierna) procedimento del calotipo.

scopa Talbot
La porta aperta
William Fox Talbot

La ragione per la quale i primissimi fotografi insistevano sul fatto della completa somiglianza con la realtà e dell’automaticità del procedimento va interpretato in luce della realtà storica presente. Nessuno sapeva che cos’era una fotografia ed era necessario spiegare alla gente che non si trattava né di un perfetto disegno a matita, né di un’incisione, ma di qualcosa di molto più rapido e automatico. L’enfasi su queste due caratteristiche a mio avviso era necessaria all’epoca dei primi vagiti della fotografia, ma oggi dovrebbe finalmente essere abbandonata. Si può immaginare lo stupore dei primi uomini che hanno visto le prime fotografie, ma si può immaginare anche la confusione di fronte a questa sconvolgente novità. Attaccarsi oggi all’etimologia per derivare cosa sia o non sia vera fotografia è perlomeno anacronistico.

Fotografia, disegno di luce, è un termine inventato da persone che hanno cercato di inserire una novità assoluta in qualcosa di noto e comprensibile. Nella sua forma originaria in ogni caso non contiene né l’idea di identificazione diretta con la realtà né quella di automaticità pura.

Levati di torno i greci, che vengono sempre a mettere lo zampino dove ormai hanno poco a che fare, vedremo nei prossimi articoli di discutere meglio l’interazione fra luce e materiali sensibili.

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