Paris Photo 2008
Settimana scorsa al Carusel du Louvre si è svolta Paris Photo, una delle fiere di fotografia d’arte più importanti al mondo.
Naturalmente ho dedicato una giornata intera all’evento. Visto il numero di gallerie presenti e di fotografie esposte sarebbe comunque stato impossibile pensare ad una visita più rapida, e così ho passato insieme ad un caro amico fotografo 7 lunghe ore nelle sale rumorose e affollate ad ammirare, assorbire e commentare centinaia e centinaia di fotografie.
Mi ricordo che l’anno scorso uscii da Paris Photo praticamente disgustato. Dopo un po’ il cervello inizia ad essere saturo, a non riuscire più ad accettare altri stimoli visivi, a restare concentrato. Un po’ come ad un banchetto, quando si continua a ingollare pietanze, senza pause. Si arriva ad un punto in cui nemmeno un boccone può andare ancora giù, se non si smette di mangiare si rischia di vomitare.
Quest’anno invece è andata molto meglio. Innanzitutto ho fatto 2 lunghe pause per separare le 3 grandi sale della fiera. Invece di analizzare tutto con attenzione maniacale mi sono concentrato su quello che mi interessava, facendo una preselezione mentale. Ho dato un’occhiata a praticamente tutte le foto appese negli stand, ma sono stato molto meno tempo a guardare le foto vintage e moderne, concentrandomi sull’arte contemporanea. Le foto vecchie sono belle, ed è sempre un grande piacere vedere una stampa dal vero di Kertez, HCB, Steichen, etc. Come è un piacere ammirare i bromoli, le gomme, i cianotipi su platino e tutte le altre tecniche antiche presenti a Paris Photo. Però il mio interesse prioritario quest’anno era un altro: vedere cosa si fa oggi in fotografia. Vedere quali sono i grandi nomi della fotografia artistica contemporanea e che tipo di lavori fanno. Quindi una discreta percentuale di gallerie l’ho visitata a discreta velocità. Infine, un altra ragione per cui mi sono stancato meno, è che ho già avuto modo di apprezzare dal vero, e a volte pure a più riprese, molte stampe originali che ho continuamente rivisto a Paris Photo. L’esperienza acquisita mi quindi ha permesso di muovermi con più velocità fra le varie gallerie e apprezzare di più l’evento.
Nel complesso devo dire che, a parte tanti lavori che amo e che conoscevo già bene, non ho visto niente che non conoscessi già che mi abbia lasciato completamente esterrefatto. Tante splendide fotografie di tanti fotografi che non conoscevo, ma le foto che ho più amato alla mostra restano quelle di quei 5 o 6 nomi straconosciuti. Insomma, restano alcuni nomi imprescindibili, poi gli altri, anche se a livello altissimo e anche se le foto sono godibilissime, sono un po’ un gradino sotto.
Vee Speers e Erwin Olaf
L’autore che più mi è piaciuto è stato, come l’anno scorso, Vee Speers, praticamente a parimerito con Erwin Olaf.
La serie The Birthday Party di Vee Speers è di una bellezza disarmante. In generale non sono un amante dei lavori fotografici e artistici sull’infanzia e i bambini, anzi, ma questa serie di fotografia fa eccezione. I ritratti sono di un’intensità che da quasi ai brividi e le stampe colorate a mano di una bellezza che fa venir voglia di piangere, impossibile da apprezzare sul sito dell’artista. Le foto in se sono semplicissime, un bambino, in posa, con qualche oggetto in mano. Ma i ritratti sono estremamente intensi, si ha voglia di guardarli e riguardarli, di perdercisi dentro. Le stampe sono di una finezza e eleganza squisita. Sicuramente fra le fotografie nell’olimpo delle cose più belle che ho visto in vita mia.
Di Erwin Olaf, oltre alle splendide foto della serie Grief che conoscevo già, era esposta la nuova serie intitolata Fall: ritratti di persone dagli occhi socchiusi alternati a nature morte floreali. Anche in questo caso, un genere, quello delle fotografie di fiori, che di solito detesto, ma la bravura di Erwin Olaf ne ha fatto qualcosa di splendido, confermandolo come uno dei miei fotografi preferiti in assoluto.
Oltre all’intensità dei ritratti e alla bellezza e perfezione delle foto in sé, anche in questo caso le stampe erano fantastiche. Secondo quanto mi ha detto la gallerista, scatto con dorso digitale, stampa digitale lambda su carta lucida, montata diasec sotto plexy matte. Una pastosità di toni acquarello, a metà fra la fotografia e la pittura, la carta baritata matte e il plexy solito dei diasec, che mi ha letteralmente conquistato. Tutti gli integralisti che sputano sul digitale predicando che la qualità non è ancora accettabile dovrebbero iniziare a farsi qualche giro nei musei per vedere a quanta bellezza si può arrivare oggi con fotografie realizzate dalla A alla Z in digitale.
Fra parentesi colgo l’occasione per dire che sul sito di Erwin Olaf è possibile visualizzare tutte le sue fotografie ad alta risoluzione, un vero piacere rispetto a tanti siti con foto minuscole impossibile da apprezzare. Un sito che dovrebbe essere da esempio per tutti.
A parte questi due grandi nomi, a Paris Photo erano comunque esposte tantissime splendide fotografie. Ogni tanto qualche rara porcheria, ma in percentuale il livello è veramente ottimo. Piuttosto che fare una lista della spesa con i nomi che mi hanno interessato mi limiterò a qualche impressione globale sulla fiera. In ogni caso una selezione parziale e incompleta di bei lavori che ho visto è presente nelle immagini che accompagnano quest’articolo.
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Massimo Cristaldi
ha detto, il 28 Novembre 2008 @ 2:00 PM :
Non c’è niente di peggio che scrivere qualcosa sul proprio blog e non avere alcun commento…. Eccomi quindi, nella convinzione che i blogger si tengono vivi solo se hanno interlocutori, altrimenti chiudono bottega e questo, soprattutto nel tuo caso, sarebbe un peccato.
Mi è piaciuto molto il tuo reportage Fabiano. Ho chattato un po’ con Marco Tardito che non condivideva il “velato” entusiasmo che compare dal tuo scritto. Conoscevo praticamente tutti i fotografi da te citati tranne Vee Speers. Grazie per la segnalazione. Ho impressione che ci sia ancora spazio per la fotografia “fine art” e questo in qualche modo mi rincuora….
Massimo
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 28 Novembre 2008 @ 7:45 PM :
Ciao Massimo
e come al solito grazie del commento e dei complimenti. Effettivamente questi ultimi non sono mai stati numerosi, nonostante le visite sul sito siano in continuo aumento. Credo che sia un problema di tempo, sia per me che per i lettori. Per me perché intavolo poche discussioni, sia qui che su altri blog, ma purtroppo Camera Obscura, visto il taglio che ho deciso di dargli (articoli lunghi, approfonditi e originali) mi assorbe tantissimo tempo e energie. Per i lettori sarà un po’ la stessa cosa, saranno sicuramente occupati quanto me, e il poco tempo a disposizione lo preferiscono passare a leggere l’articolo piuttosto che a sviluppare una conversazione. Del resto lo sanno bene tutti quelli che hanno frequentato qualche forum: facile cazzeggiare, ma intavolare una discussione interessante, e soprattutto conclusiva costa tempo e fatica, quindi di solito si finisce per restare sul superficiale.
A proposito di Paris Photo. Certo che mi è piaciuta, ma non incondizionatamente. Non ho scoperto niente di veramente nuovo e emozionante, niente di sconvolgente. Niente che possa paragonare a suo tempo alla scoperta per esempio di Gregory Colbert o Desirée Dolron. Però resta il fatto che Paris Photo è il posto dove si possono vedere dal vivo le foto di tutti gli autori già citati e mille altri bravissimi: Sarah Moon, Michael Kenna, Fan Ho, Kishin Shinoyama, Giacomo Costa, Edward Burtynsky… e tanti, tanti altri. Sarà forse il mio amore per la fotografia e la bellezza, ma di fronte a tali foto non posso non sentire almeno un po’ di velato di entusiasmo…
Fabiano
Massimo Cristaldi
ha detto, il 29 Novembre 2008 @ 1:30 AM :
Sulle ragioni che spingono a parlare “oltre” ho scritto un post proprio oggi.
Cito anche te e le ragioni alla base di maGma (piuttosto ti ho inviato un invito)…
Massimo
Claudio
ha detto, il 6 Dicembre 2008 @ 8:15 PM :
Leggere questa tua disamina è stato davvero piacevole, e al di là del discorso critico, mi ha suggerito un approccio diverso alla visita delle mostre del Lucca Digital Photo. L’edizione passata infatti mi aveva procurato quella saturazione causata dalla stimolazione eccessiva del cervello tramite immagini visive, e alla fine stavo davvero crollando. Così per questa mia visita odierna mi sono informato sulle varie opere e ho fatto una cernita. E adesso che ritorno mi piacerebbe stare a discutere di Alex Webb o di Matteo Basilè, di Massimo Vitali o di Mario Cravo Neto, oppure del vincitore del World Press Photo Tim Hetherington.
Eppure me ne torno insoddisfatto, al limite dell’incazzatura. Ma è mai possibile che una persona, quando posiziona una foto per una mostra, non si accorga che con quell’illuminazione non si vede niente? Il che può arricchire le foto di Webb, che spesso gioca con i riflessi, per cui è persino ironico guardare il riflesso della foto di Webb che è alle tue spalle nella foto che stai cercando di guardare di fronte a te. Ma per altri artisti è stato davvero una presa in giro. La gente si contorceva per scorgere qualcosa nelle fotografie esposte, cercando posizioni che minimizzassero i riflessi. Sono cosa che capitano un po’ ovunque, mi ricordo quanto mi intossicai per non poter godere pienamente di Gericault al Louvre… Le uniche foto guardabili sono quelle della mostra del World Press Photo vera e propria, perché senza vetro, tutto il resto è impossibile da osservare. E dopo aver avuto a che fare con le ferrovie italiane che anche per una tratta di venti minuti riescono a farti perdere la pazienza, dopo aver pagato comunque 15 euro per il biglietto cumulativo, dopo essersi inzuppato le scarpe, quelle con la membrana che non fa entrare l’acqua e che fa uscire il sudore che però forse a me avevano montato al contrario, dopo tutto ciò speravo di godermi una mostra fotografica e invece sono riusciti a farmi alterare ancora di più!
Perdona lo sfogo, mi chiedevo se sono l’unico che vorrebbe vedere le foto di una mostra piuttosto che le finestre riflesse, e colgo comunque per farti i miei più sinceri complimenti per questo blog che da quando l’ho scoperto (grazie a Massimo) non manco di osservare e di “divorare”.
Un saluto,
Claudio.
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 7 Dicembre 2008 @ 12:15 PM :
Ciao Claudio,
grazie mille del commento come dei complimenti, che fanno molto piacere.
A proposito: dici “osservare e divorare”. Ti posso chiedere in che modo usufruisci del blog? Ti spiego: Dalle statistiche mi sembra di capire che la maggior parte dei lettori affezionati, iscritti anche non iscritti al feed, leggano unicamente i post correnti, e non si mettano mai a navigare il sito per vedere cosa scrivevo un po’ di tempo fa. È così anche per te? Ti limiti a leggere gli articoli recenti? Oppure leggi anche quelli nell’archivio? Mi è venuto in mente di chiedertelo perché “osservare” mi fa pensare a “seguire le novità”, mentre “divorare” mi fa sperare in una lettura anche degli articoli del passato… ma forse sono troppo ottimista. Su Camera Obscura è possibile una navigazione taxonomica tramite le categorie, folkonomica tramite le parole chiave, cronologica tramite l’archivio e i numeri di pagina. Eppure mi sembra che i visitatori non sfruttino molto queste possibilità. Cosa ne pensi? Qual’è la tua esperienza di scopritore di un blog che contiene già più di un centinaio di pagine?
Per quanto riguarda i riflessi alle esposizioni il discorso è lungo è complesso.
Tecnicamente è difficile evitare i riflessi. Intanto i vetri nomali riflettono tutti. Quelli antiriflessi, oltre a costare un patrimonio, in generale “spengono” la foto e spessissimo introducono dominanti fastidiose. Quello che è un po’ lo standard della fotografia a colori contemporanea di grande formato, il diasec lucido, è strapieno di riflessi.
Perché la gente sceglie il diasec lucido invece di quello opaco? Perché mette un vetro invece di esporre direttamente la fotografia?
Due esigenze principali: espressive e di protezione. Nel primo caso è vero che una foto lucida avrà i riflessi, ma i neri saranno più neri e brillanti, i colori più saturi, la resa più moderna e aggressiva. Questione di scelte, può piacere o meno, ma se l’autore cerca quel tipo di atmosfera lì, potrebbe esser pronto a pagare il prezzo dei riflessi. La seconda ragione è quella della conservazione. Una mostra o una fiera di fotografia, dove migliaia di persone si avvicinano e potenzialmente toccano le fotografie esposte, potrebbe mettere in serio pericolo la conservazione delle stampe, che in generale sono fragilissime e carissime. Ecco quindi che si sceglie una soluzione di compromesso. E non bisogna vederlo necessariamente come una concessione alla mediocrità. La fotografia è sempre questione di compromessi: pellicola più sensibile ma più grano, diaframma più aperto ma profondità di campo più piccola, esposizione più lunga ma rischio di mosso, e così via.
Inoltre è difficile ed economicamente impegnativo, studiare un’illuminazione adeguata. A volte forse anche impossibile. Ho visto delle mostre al Pompidou dove la luce era gestita con una maestria e una precisione sorprendente, non solo valorizzando le opere, ma quasi creando un surplus, trasformando quasi l’esposizione in istallazione. Ma, a parte il budget del Pompidou, forse ad una fiera non è possibile ricreare quelle codizioni. Penso alle luci delle altre gallerie, o a quelle necessarie per schiarire i corridoi dove cammiana la gente. A Paris Photo almeno la situazione era questa. Non tragica, ma i riflessi spesso c’erano comunque.
Che fare? Non so, credo che, a meno che la situazione non sia davvero penosa non valga la pena incazzarsi. Bisogna cercare di assaporare quello che si può con gli strumenti di bordo. E poi magari protestare con una lettera all’organizzazione, sperando che in futuro migliorino le cose…
Claudio
ha detto, il 7 Dicembre 2008 @ 12:54 PM :
Ciao Fabiano, per “osservare e divorare” intendo esattamente quello che hai inteso, anzi, riprendevo proprio il termine per assonanza al tuo essere “onnivoro”. Io non sono onnivoro e ho dei gusti limitati, ma ho tanto appetito. E un po’ alla volta, con calma, sto andando a vedere tra gli articoli passati, avevo già notato come navigare all’interno del blog e devo dire che è anche molto fruibile. Non sono iscritto al feed perché mi rimane più semplice aprire il blog e controllare, tanto anche se non c’è un articolo nuovo, ci sono quelli vecchi, e qualcosa da leggere c’è sempre.
Tornando al discorso dell’esposizione, mi rendo conto che il riflesso ci sarà sempre, però ci sono delle situazioni al limite del ridicolo. Ti citavo Gericault perché è inconcepibile per me che un museo come il Louvre, tra i più famosi del mondo, esponga un quadro come quello in un corridoio, dove non si riesce a guardarlo nell’insieme, e soprattutto è pieno di riflessi. Così è stata Lucca Digital Photo Fest, ovvio che i riflessi ci saranno sempre, nessuno chiede che vengano eliminati, ma ti assicuro che specialmente per quanto riguarda due autori è stato paradossale, al limite del ridicolo. Matteo Basilè esponeva il suo progetto “The Saints are coming”, le cui stampe avevano dimensioni di una finestra, ed erano inclinate verso l’alto quasi a cercare i faretti che illuminavano la bellissima volta affrescata della sede della mostra. Col risultato però che metà foto era di riflessi di puttini alati e compagnia cantante. Problema analogo per le foto di Mario Cravo Neto, dei bianco e neri estremamente intensi, ma impossibili da vedere a causa del riflesso. Per vederle la gente cercava tutte le angolazioni strane, io ho sfruttato la mia ombra, che ho cercato di espandere sfruttando l’estensione del mio giaccone, ma con scarsi risultati. Il riflesso è normale, ma quando ti impedisce di vedere la foto si esagera!
Ciao, Claudio.
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 7 Dicembre 2008 @ 1:28 PM :
Sono contento che le statistiche non dicano tutti e con il contatto diretto con una persona si riesca a smentir quello che sembra il trend generale dei visitatori di un sito.
Per quanto riguarda il fatto che sia una vergogna che il Louvre non abbia un’illuminazione adeguata purtroppo non posso far altro che darti ragione. Nel mio commento precedente effettivamente mi riferivo a riflessi moderati, che non pregiudichino completamente la fruizione delle opere esposte. Effettivamente, quando si arriva ai livelli che descrivi, è difficile non incazzarsi.
Certo che i dovrebbe far parte del lavoro dei galleristi… va bene scendere a compromessi, va bene a volte fregarsene un po’ e non farsi eccessive pippe mentali, però quando l’illuminazione impedisce completamente di apprezzare una stampa non riesco a capire come non possa essere evidente che si perdono clienti potenziali…
Michele
ha detto, il 8 Gennaio 2009 @ 12:20 PM :
Ciao Fabiano,
seguo il tuo blog da tempo con estremo interesse, visto il “taglio” affine alla mia visione della fotografia. Vorrei chiederti una delucidazione riguardo al giudizio non positivo che dai sulla stampa lambda in b/n. Ero interessato a questa tecnica per un lavoro che devo fare, e visti i problemi che menzioni per il montaggio delle inkjet di grandi dimensioni (100×150) mi sembrava papabile. Purtroppo però non posso dare un giudizio perchè non ho esperienza in merito, quindi mi affido al tuo consiglio. Inoltre, hai mai visto dal vivo stampe lambda su carta baritata Ilford Galerie FB (Giovanni de Angelis es.)?
Grazie per il tuo tempo,
Michele
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 8 Gennaio 2009 @ 12:48 PM :
Ciao Michele,
il mio giudizio deriva principalmente da due considerazioni, una personale e l’altra generale.
Quella personale è che a mio gusto, ogni volta che vedo una lambda in bianco e nero la trovo accettabili, ma non il massimo. Fra l’altro di solito lambda e diasec vanno a braccetto, quindi le stampe labda in bianco e nero sono montate sotto diasec lucido, che personalmente trovo veramente poco adatto al bianco e nero. Poi naturalmente è un discorso di gusti personali e di soggetti, magari hai delle foto che vanno bene stampate e montate in questo modo, oppure ti piace l’aspetto plasticoso del diasec. Oppure hai obblighi di altro tipo, per esempio devi esporre in esterni sotto la pioggia (in questo caso meglio la plastificazione da esterni). Insomma, dipende tantissimo dalle immagini, dalla destinazione e dal tuo gusto personale. Se mi dai qualche informazione in più posso aiutarti sui primi due punti, ma l’ultimo è una decisione interamente tua. La cosa migliore è fare un test, non esiste la miglior tecnica di stampa, ma solo quelle che ti soddisfano e quelle che non ti soddisfano.
Le considerazioni di ordine generale invece sono queste: quando giri per mostre e fiere di alto livello in genere il colore è stampato in lambda, il bianco e nero o in camera oscura (tradizionale o platino) o inkjet. Naturalmente ci sono le eccezioni, ma questa è la tendenza generale, ed è sotto gli occhi di tutti. Non credo che ai livelli di Paris Photo quello che conta sia la moda del momento, se questa è la situazione attuale una ragione ci sarà pure.
Tecnicamente la stampa lambda, a meno di non stampare sulla carta baritata che citi, è una stampa a colori, e in genere le foto in bianco e nero vengono fatte su questa, con tutti i problemi di dominanti e conservazione che ne derivano. Ho visto qualche stampa lambda su carta baritata, bella, sicuramente di alto livello, ma non ne sono rimasto impressionato in maniera particolare. Questo tipo di stampe poi è difficile da trovare e costa caro, se hai la possibilità di stampare in questo modo è una variabile da tenere in considerazione, ma se -perché è più diffusa o per considerazioni economiche- stampi immagini bianco e nero sulla classica lambda colori il mio giudizio personale allora è negativo.
Il getto d’inchiostro, e in particolare gli inchiostri al carbone, oggi danno dei risultati eccezionali. Quello che gira nei vari forum e sulla bocca degli stampatori professionisti con cui ho avuto modo di parlare (appena avrà finito uscirà su Camera Obscura un’intervista con uno dei migliori stampatori di Parigi proprio su questi argomenti), è che la dmax è decisamente superiore nel carbone digitale che sulla lambda e pure la camera oscura tradizionale, come del resto la conservazione della stampa. Personalmente sono due parametri che non mi interessano al parossismo, ma recentemente ho fatto stampare delle immagini ai pigmenti al carbone su carta Hanemuller fatta di fibre di bambu e i risultati a mio gusto sono straordinari. personalmente mi piacciono tantissimo, cosa che mi basta al di là di ogni considerazione tecnica.
Quello del montaggio comunque resta un problema, perché a mio gusto anche una lambda bianco e nero su carta baritata non va dietro il diasec. Si può optare per un vetro, ma deve essere veramente di ottimo livello (quindi carissimo). Stempererà un po’ l’immagine, ma se la priorità è la protezione è un compromesso accettabile, e la fotografia è fatta di compromessi. Altrimenti si può esporre senza vetro, ed è l’opzione che ho scelto, coprendo l’immagine con una vernice protettiva che la rende un po’ più resistente ai graffi. Certo, la stampa rimane molto fragile, ma quando vai al Louvre la maggior parte dei quadri sono senza vetro, eppure sono probabilmente fragili quanto una foto e sicuramente infinitamente più preziosi di qualunque foto potrò mai scattare.
Se vuoi approfondire uno di questi punti chiedi pure.
Beppe
ha detto, il 8 Gennaio 2009 @ 1:11 PM :
Mi chiamo Beppe, sono uno appassionato di fotografia e quest’anno ho avuto la fortuna di potere andare a Parigi al Paris Photo. Ho visto le foto di vari autori e sono riuscito a vedere dal vivo foto originali tra le quali per me personaggi mito. Ho potuto visitare una galleria con le foto di Sarah Moon che è tra le mie preferite. Ho cercato in internet qualcosa sulla sua tecnica sia di ripresa che di stampa ma non sono riuscito a trovare niente. Visto le sua capacità di conoscenza le chiedo aiuto in tal senso. Sono cosciente che la Moon scatta con polaroid 665 mi piacerebbe sapere qualcosa sulla tecnica e come riesce ad ottenere dei neri così favolosi, ancora grazie
Beppe
Fabiano Busdraghi
ha detto, il 8 Gennaio 2009 @ 1:25 PM :
Ciao Beppe,
non conosco di preciso la tecnica di Sarah Moon.
Però una volta ho parlato con un fotografo che è stato suo assistente su alcuni shoot di moda. Mi ha detto che le luci erano semplicemente un grande pannello morbido in alto. Che prima di iniziare lo shooting ha parlato per 20′ con la modella. poi quando hanno iniziato non ha detto più niente, faceva solo una foto al minuto o giù di li. Senza parlare, guardando, quasi come se fosse timida e non sapesse come fare. Immagine diversissima dal classico fotografo di moda eccitato e invadente che fa 5 foto al secondo. Vedi anche la famosa scena di Blow-up dell’amplesso fotografico fra David Hemmings e Verushka, poi non così lontano dal vero.
Il mio amico, mentre andava al laboratorio per lo sviluppo delle dia, pensava che sarebbe venuta fuori una schifezza madornale. Al laboratorio ha solo dato indicazioni sui tempi di sviluppo dettatigli da Sarah Moon. Quando poi ha visto le dia è rimasto a bocca aperta, facendo fatica a capire come quelle foto erano state scattate sotto i suoi occhi.
Mi sembra una buona storia. E fa capire come Sarah Moon fotografa più col cuore che con la tecnica. Alla fine mi sembra che non faccia poi niente di veramente trascendentale, no? Tempi lunghi di posa, in modo da sfumare i tratti, poi in fase di stampa un velo, e qualche pasticcio in camera obscura per “sporcare” l’immagine, relativamente facile da imitare.
Quello che non è facile da riprodurre è la sua sensibilità e il suo occhio.
Pornografia e sesso esplicito: l’autonegazione dell’arte contemporanea
ha detto, il 9 Gennaio 2009 @ 5:54 PM :
[...] su Paris Photo ho già accennato ai rapporti fra sesso/pornografia e fotografia artistica contemporanea. È un [...]
Marco
ha detto, il 10 Gennaio 2009 @ 3:33 PM :
ciao Fabiano,
ci si legge anche da altre parti… volevo riprendere l’accenno all’utilizzo dei blog.
Oltre ritenerlo uno tra i più interessanti, proprio per le caratteristiche di consultazione e di approccio alla fotografia, credo che il fattore tempo, come hai ben indicato, sia determinante nel far partecipare attivamente ad una discussione, e mi riferisco in generale alla situazione dei blog. La natura di una discussione nel web è, come si sa, profondamente diversa da quella di tipo interpersonale e richiede un tempo specifico se si vuole essere un po dialoganti. Al contempo però non toglie la possibilità di dire cose, leggere, e confrontarsi, a patto che le attese siano diverse da quelle che si hanno in una relazione diretta. Credo che siano proprio le attese che a volte determinano certe delusioni, e per ovviare andrebbero ridefinite perchè si è di fronte ad un mezzo specifico…un po come accade nel rapporto romanzo/cinema.
Grazie anche delle rflessioni sulla stampa; penso che si stia avvicinando il momento in cui avrò bisogno di una buona stampa digitale e una capatina virtuale, ma anche no, dalle tue parti mi sa che sarà d’obbligo.
A presto,
marco